ELENA SCOLARI | Sei operai in tuta blu e cappellino si affaccendano intorno a un lungo bancone da lavoro con mixer, plance di comando piene di tasti, dimmer luci, manopole di equalizzatori… C’è poca luce, in questa pseudo-officina, qualcuno illumina i dettagli con una lanterna di carta e gli omini potrebbero essere anche scolaretti giapponesi: si passano uno zainetto sfilandosi e infilandosi le cinghie lasciando lo zaino fermo, come stesse sospeso a mezz’aria in attesa che qualcuno se lo metta in spalla.
I sei precisissimi performer – Àngela Boix, Jon López, Núria Navarra, Lorena Nogal, Marina Rodríguez, Shay Partush – sono molto indaffarati, non capiamo bene a far che ma capiamo che sono coordinati al secondo, che la loro danza di fabbrica batte a un ritmo sonoro e sincronizzato come alla catena di montaggio. Gli ingranaggi sono però fatti di gambe, braccia, teste, mani e il movimento si trasmette da un corpo all’altro come dall’albero motore alla ruota dentata collegata e così via. Ogni tanto c’è un blocco, come si interrompesse la corrente, e tutti si fermano, come ad aspettare che succeda qualcosa. E così noi del pubblico, dopo tanto lavorío di cui non si intravede un chiaro costrutto narrativo (mi ostino a cercarlo), ci diciamo “eh bè, qualcosa deve succedere, prima o poi, in questo Firmamento“.

E infatti succede: il Firmamento di Marcos Morau, fondatore della compagnia valenciana La Veronal e studi di coreografia all’Institut del Teatre di Barcelona, si ravviva, paradossalmente, quando in scena arriva un pupazzo. Un pupazzo a mano vera, tecnicamente, con la testa un po’ grande, pelata, la faccia vagamente adulta, un gilet rosso e pantaloni bicolore. Gli operai muti lo fanno volteggiare sopra al loro banco di lavoro, e lui parla. Parla tramite una voce off assai ispirata e racconta un sogno (o quello che sembra essere tale): quel mattino è uscito, ha scalato una montagna e poi si è lanciato con un paracadute ma il vento lo ha spinto in alto, dove volano gli uccelli, poi più in alto dove vedeva la sua casa come un puntino, poi ancora più su ad altezza angeli e a questo punto bisogna arrivare a Dio, ovvio. Il fatto che il divino stia in alto è un luogo comune elevato che non riusciamo ad abbandonare. E però la rivelazione che il piccolo uomo in gilet trae dal temporaneo miracolo ascensionale è meno ovvia: tutto quello che da lassù non vedeva più aveva smesso di esistere, perciò non restava che inventarlo.

E forse è qui l’aggancio più esplicito al tema dello spettacolo dichiarato nella presentazione e altrimenti poco intelligibile: l’adolescenza. Morau ha detto in un’intervista (che potete trovare su RaiCultura) che sentiva il bisogno di lavorare a qualcosa che fosse rivolto ai giovanissimi, e così – dopo Pasionaria e Sonoma, passati per le scorse edizioni di FOG Triennale – ha creato Firmamento, pensando all’età che sta abbandonando l’infanzia ma ancora ne trattiene alcune insicurezze e che sta per entrare nell’adultità attraversando una sensazione confusa fatta di timore ed eccitazione.

ph. ©️May_Zircus

Diciamo che questa intenzione è leggibile soprattutto nell’idea giovanile di inventarsi un mondo che comprenda amici, casa, genitori, quartiere ma dove amici, casa, genitori e quartiere sono diversi, sono un po’ più come li vorrebbero. Gli adolescenti sono scontenti, sono insoddisfatti, o almeno così sembrano ai grandi; stanno cercando di disegnarsi, di intravedere più nitidamente il proprio contorno e questo passa moltissimo attraverso l’immaginazione. Anche se destinata a ciò che abbiamo più vicino.
E allora, se ci sforziamo, possiamo pensare che tutto quel tramestio di regolazioni, aggiustamenti, calibrature da parte dei sei ‘esatti’ danzatori corrisponda proprio al lavoro di chi sta operando alla messa a punto di sè (un’occupazione che non finisce mai, in realtà, per fortuna); la squadra sta aiutando il piccoletto con il gilet a trovare la propria sintonia.

E fin qui, pur senza lesinare in alcune lungaggini, va tutto abbastanza bene. La comparsa del saggio pupazzo con la testa grossa (come Charlie Brown) ha impresso una svolta poetica arricchendo di senso un andamento prevalentemente meccanico, per quanto cineticamente perfetto. I personaggi ne sono influenzati e infatti i loro costumi prendono ad assomigliare a quelli del piccoletto, la sua prima uscita di scena avviene sul carrello di un trenino, mentre uno degli operai suona con la fisarmonica il brano Così parlo Zarathustra di Richard Strauss, che tanti conoscono per essere la colonna sonora di 2001 Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, nella scena in cui la scimmia batte l’osso, come i danzatori battono le bacchette da percussione sul banco.
E si passa anche per La cavalcata delle Valchirie di Richard Wagner.

Ora però si aggiunge un livello: si apre uno spazio proiettato nella profondità del palco, una scatola rialzata e incorniciata, alternativamente bianca o illuminata da fari di colori accesi e che disturbano la vista, dentro la quale – come poteva essere altrimenti? – arriva anche il monolite.

ph. ©️May_Zircus

Il totem è bianco, regge uno schermo e parla, purtroppo. Sì, perché, si sa, i monoliti parlano a modo loro, sono sentenziosi, lapidari, oracolari. Pure un po’ presuntuosi, sanno sempre tutto loro ed è inutile rispondergli, non ascoltano mai.
Infatti ora la voce off recita così: «Siete il risultato di miliardi di anni di adattamento evolutivo. Siete i figli sopravvissuti dei grandi movimenti migratori, dei cambiamenti climatici, delle siccità, delle carestie e delle pandemie. Siete i figli sopravvissuti del totalitarismo, delle dittature e dei massacri. Ma siete anche gli eredi dei progressi tecnologici, della medicina, la corsa allo spazio, l’agricoltura, l’architettura, la filosofia, l’arte. La vita è un continuo cambiamento, odia l’immobilità. La ruota continua a girare senza preoccuparsi dei tuoi sogni di bambino o dei tuoi progetti di vita. In questo preciso momento nascono bambini e bambine che saranno i primi ad andare, come turisti, sulla Luna. Siete fortunati, siete i vincitori di una lotteria cosmica».

Perché a un certo punto (proprio come El Conde de Torrefiel in La plaza) si debba aver bisogno di inserire (anche di uno spettacolo di danza) un profeta sintetico che vaticina infilando banalità supponenti, rimane un mistero (testi di Carmina S. Belda, Pablo Gisbert). Perché c’è un problema a mantenere un tono leggero anche se profondo? Perché la via metaforica non è mai abbastanza e si sente l’esigenza di affidare a una voce esterna (come se questo stare fuori la ammantasse di savietà di per sè) parole così vacuamente predittorie?


È un peccato. Molto più fantasioso sarebbe stato lasciare all’eschimese gigante la chiusa surreale di una specie di viaggio nel tempo, un’esplorazione nella meccanica dello sviluppo dell’uomo. Un Inuit à la Botero che per altro compare insieme a un pinguino pur vivendo – letteralmente – ai poli opposti. Tutto sommato ci saremmo limitati a chiederci, drammaturgicamente, chi fosse e da dove venisse ma ci saremmo fidati, anche da adolescenti, più volentieri di un suo consiglio che non di frasi come L’arte non nasce dalla visione di un’alba, ma dall’impossibilità di vederla, perfetta per un segnalibro.
Le coreografie, ideate da Morau insieme ai danzatori, sono visivamente belle, danno quasi sempre l’idea di una energia concatenata tra i corpi, un gruppo compiutamente omogeneo, con movimenti fortemente e significativamente legati ai suoni, curati da Juan Cristóbal Saavedra, e alle musiche di Laurie Anderson.

E siccome ‘Ci aspettano cambiamenti profondi nell’antico mestiere della bellezza’, Il firmamento de La Veronal si chiude mettendoci in guardia contro le intelligenze artificiali ma inondando la platea di sottili fasci di luce che si irradiano da grandi sfere bucherellate, come a dire che la meraviglia dell’uomo davanti al creato resterà insuperata.

 

FIRMAMENTO
La Veronal

ideazione e direzione artistica Marcos Morau
direzione di produzione Juan Manuel Gil Galindo
coreografia Marcos Morau in collaborazione con i danzatori Àngela Boix, Jon López, Núria Navarra, Lorena Nogal, Marina Rodríguez, Shay Partush
testo Carmina S. Belda, Pablo Gisbert
voice-over Victoria Macarte, Nathaniel Ansbach
assistenza alla drammaturgia Mònica Almirall, Roberto Fratini
direzione tecnica e lighting design Bernat Jansà
stage manager, oggetti di scena ed effetti speciali David Pascual
support tecnico nel tour Mirko Zeni
sound design e musiche originali Juan Cristóbal Saavedra
musica Laurie Anderson
set design Max Glaenzel
design dei costumi Silvia Delagneau
illustrazioni animate Marc Salicrú
produzione e logistica Cristina Goñi Adot, Àngela Boix
produzione elmetti e maschere Gadget Efectos Especiales, produzione marionette Martí Doy, costumi A.I.T., Laura Garcia
produzione La Veronal in co-produzione con Grec 2023 Festival de Barcelona, Institut de Cultura Ajuntament de Barcelona, Oriente Occidente Dance Festival, Centro de Cultura Contemporánea Condeduque, Mercat de les Flors, Temporada Alta – Festival internacional de Catalunya, Girona/Salt, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Chaillot Théâtre National de la Danse, Festival Equilibrio, Fondazione Musica per Roma, Hessisches Staatsballett nell’ambito di Tanzplattform Rhein-Main, Triennale Milano Teatro, in collaborazione con Graner – Fàbriques de Creació, Teatre L’Artesà, con il supporto di INAEM – Ministerio de Cultura y Deporte de España, ICEC – Departament de Cultura de la Generalitat de Catalunya

Triennale Teatro dell’Arte, Milano | 26 marzo 2024