CHIARA AMATO* | Sul palco del Teatro Menotti di Milano, una cornice rettangolare grigia delimita lo spazio scenico dello spettacolo Lo Psicopompo (del 2019), diretto e interpretato da Dario De Luca. Il testo vinse il Premio Sipario Centro Attori 2018 con una menzione speciale per il progetto sonoro di Hubert Westkemper e una nomination per Milvia Marigliano come Migliore Attrice agli Ubu del 2019 e ci mostra un dialogo madre/figlio alquanto surreale.
La tematica principale è la voglia di morte che attanaglia la figura femminile, interpretata da Marigliano, la quale ha richiesto l’assistenza di un infermiere che si occupa di accompagnare i suoi pazienti verso l’ultimo passo. Il caso vuole che però si trovi di fronte alla scoperta che chi ha ricercato i suoi servizi è sua madre, e da qui parte un confronto doloroso e tragico sulle sofferenze che hanno condotto la donna a questa scelta.
In scena (ideata dal regista come il disegno luci) una chaise longue che richiama l’immagine di una seduta psicoanalitica e la suddetta cornice grigia che viene spostata durante lo spettacolo in tre differenti posizioni: da perimetro del duo familiare fino a diventare una finestra dalla quale guardare un temporale sul finale dello spettacolo.

Il movimento degli interpreti resta molto semplice, come lo sarebbe un dialogo all’interno del contesto domestico: parlano, urlano, piangono e si raccontano quei lati ombrosi che si erano sempre taciuti; mantengono quasi sempre la stessa altezza, uno di fianco all’altro, con rari momenti in cui l’uno avanza rispetto all’altro verso la platea.
Il gioco delle luci, inizialmente statico e frontale, subisce poi cambiamenti nei colori, adattandosi, incupendosi e ravvivandosi in accordo a ciò che viene mostrato.
La pièce, pur nella sua breve durata, riesce a trasmettere intensità sia per la materia delicata dell’eutanasia e del diritto di poter scegliere di farla finita quando si sente di non trovare più un senso nel continuare a vivere, sia per l’enfasi dell’interpretazione molto “sospirante” della Marigliano: quest’ultima trema nella voce, urla isterica, e in alcuni passaggi dà un valore quasi divinatorio alle parole pronunciate.

Abbiamo rivolto alcune domande a Dario De Luca, regista e interprete nonché fondatore (nel 1992) della compagnia Scena Verticale, riconosciuta dal 1997 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la cui attività artistica si sposa quasi completamente con quella della compagnia.

Questo spettacolo risale al periodo pre-pandemia e molti dettagli rimandano alla morte: l’assistenza sanitaria, il respiratore, l’infermiere.. hai tratto ispirazione anche da quel periodo o lo spettacolo non ha subito variazioni?

In realtà lo spettacolo è stato forse premonitore di quello che poi avremmo vissuto tutti perché debutta nel giugno 2019, quindi mesi prima di quello che poi sarebbe successo. Mi ero informato sulla dinamica con cui si esegue un suicidio assistito ma ho pensato che si potesse avere una riconoscibilità di assistenza ai malati, quindi non solo immaginare un tema così grave come quello di una donna che decide di farla finita e di farsi aiutare nella sua dipartita ma anche che semplicemente ognuno di noi potesse trovare il ricordo dell’assistenza a un malato, a un figlio, a un genitore e quindi ho immaginato i rimandi ai farmaci, ai respiratori come un richiamo emotivo per avvicinare lo spettatore.

I due protagonisti, a turno e in dialogo, sembrano essere immersi in una seduta psicanalitica anche per la presenza in scena di una chaise longue. Che rapporto vedi nella tua regia tra la psicanalisi e il teatro?

È evidente che c’è un richiamo a una seduta psicoanalitica, come lo è in fondo il dialogo tra questi madre e figlio, entrambi sono medici l’uno dell’altro e tutti e due sono assistiti. Ognuno racconta la sua tragedia: in maniera più lucida e sicura la madre – che si capisce aver riflettuto a fondo su questo desiderio – mentre il figlio che non ci ha pensato ma d’istinto ha cercato una strada, quella di aiutare i malati terminali per non far vivere ad altre famiglie il dolore e la perdita di qualcuno che non si accorge neanche più di te. Si rende invisibile al consorzio umano, quindi probabilmente lui è il più rovinato, fa una vita solitaria, passando il suo tempo solo con i malati terminali, e decide infine di prendere la strada che ha preso la mamma.

Per lo spettacolo ti sei occupato anche della scenografia. Come ti è venuta l’idea dei tre elementi principali – la cornice, il giradischi e la chaise longue – e quale messaggio volevi trasmettere?

Mi occupo sempre sia dello spazio scenico che delle luci perché con le luci faccio (o provo a fare) drammaturgia: considero le luci di scena un valore aggiunto e anche lo spazio scenico ha sempre un senso. Volevo che fosse sobrio e asettico, una specie di ring sofisticato e borghese. Lo spazio che potrebbe essere un luogo della psicanalisi e un luogo mentale in cui questi due sono chiusi a scoprire i loro pensieri. Volevo solo questa chaise longue, il giradischi per ascoltare musica classica (che ha segnato tutta la loro vita) e la “vetrata”. Quest’ultima da subito mi è venuta in mente quando ho iniziato a scrivere il testo, come se questi protagonisti, qua e là, guardassero fuori, in un mondo dal quale sono usciti e hanno deciso di uscire. Poi ragionando sulla messa in scena ho pensato che avrei voluto la possibilità di spostarla su ruote, un po’ perché loro spostano il loro pensiero durante la pièce, i punti di vista e la camera, e poi volevo che nella scena finale ci fosse un filtro tra lo spettatore e il pubblico in quel momento così grave: volevo avere un’accortezza, come se fosse uno schermo. Il che può avere mille rimandi: la pena di morte americana, il cinema, il filtro del pudore dei greci che non mostravano la morte in scena. Noi invece nel XXI secolo, con un pubblico molto più sgamato, la mostriamo, ma cercando comunque di avere un minimo di distanza.

Ci dici anche qualcosa dei tuoi nuovi progetti e della prossima edizione di Primavera dei teatri, che a breve inizierà?

Primavera dei Teatri avrà una magnifica edizione di undici giorni perché durerà dal 23 maggio al 2 giugno. C’è una prima parte di quattro giorni, che si chiama Prima, dedicata alla perfoming art, anche straniera, e al teatro-danza: ecco la novità di questa edizione. Poi inizia la prosa, con attenzione all’ultima generazione teatrale e ai nuovi linguaggi in Italia. Io invece debutto con una favola, una cosa di tenore completamente diverso da Lo psicopompo: una favola medievale ‘oscena’, molto godibile, in dialetto calabrese, che si intitola I quattro desideri di Santo Martino.

LO PSICOPOMPO

Scritto e diretto da Dario De Luca
Con Milvia Marigliano e Dario De Luca
Assistenza alla regia Gianluca Vetromilo
Spazio scenico e disegno luci Dario De Luca
Suono Hubert Westkemper
Luci e fonica Mario Giordano
Allestimento Vincenzo Parisi
Costumi e oggetti di scena Rita Zangari
Assistenza all’allestimento Rosy Parrotta
Organizzazione e amministrazione Tiziana Covello
Distribuzione Egilda Orrico
Produzione Scena Verticale

Teatro Menotti, Milano | 3 aprile 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.