ELENA SCOLARI | Nel romanzo Illusioni perdute di Balzac (scritto tra il 1837 e il 1843) il protagonista Lucien, aspirante giornalista di provincia che approda nella scintillante Parigi, si innamora di una giovane attrice, Coralie, ragazza del popolo che sogna di recitare in una tragedia di Racine; quando la fanciulla ci arriva, grazie ai maneggi dei salotti che contano, il narratore dirà di lei che le sue piccole spalle non possono reggere il peso dei versi del grande poeta francese.
E allora Romeo Castellucci sceglie una delle più grandi attrici francesi d’oggi per poggiare sulle sue ben più salde spalle il monumento della letteratura d’Oltralpe: Isabelle Huppert è Bérénice, la protagonista dell’omonima tragedia in versi di Jean Racine pubblicata nel 1670. Più precisamente sono stati il direttore del festival Printemps des comédiens, a Montpellier, Jean Varela e il suo programmatore Eric Bart che gli hanno proposto di lavorare con lei. Lo spettacolo ha debuttato infatti proprio al Domain d’O di Montpellier a febbraio 2024 ed è ora in tournée internazionale.
In Italia è andato in scena nel festival FOG di Triennale in prima nazionale pochi giorni fa (sarà a Napoli del 2025) e la sera della prima vedeva quello che si dice un parterre de rois: dal sindaco Sala a re Giorgio (Armani), la cui gloria è in queste giornate un tantino offuscata dalle indagini per presunto caporalato. Offuscato è però termine assai pertinente sia per il titolo della rassegna – FOG – sia per la soirée poiché la sala teatrale è letteralmente invasa dalla nebbia, che a Milano non c’è più per strada ma in teatro sì. Nebbia agli irti posti dove la parte del pubblico destinata alla galleria siederà faticando a leggere i sovratitoli della traduzione per via delle condizioni atmosferiche. Tra l’altro questo è forse uno degli avvertimenti teatrali più riusciti sul cambiamento climatico, ora che ci penso.

Racine è monumento letterario in Francia ma molto meno in Italia, dove si vede talvolta la sua Fedra (ci si accinge ora Federico Tiezzi che debutterà l’11 aprile al Bonci di Cesena). Bérénice è poema invece meno frequentato di cui ecco – molto brevemente – la vicenda: siamo nel 79 d.C. e l’imperatore Tito, sottomessa la Giudea, ne ha portato a Roma la regina Berenice, che ama e ha promesso di sposare. Anche Antioco, re di Commagene e amico di Tito, ama Berenice. L’imperatore però, per la legge e il costume romani, deve rinunciare a fare imperatrice una straniera. E siccome Tito è un fifone tocca al povero Antioco andare a darle il triste annuncio. Disperati tutti e tre, è ovviamente la donna che risolve la faccenda lasciando Roma e rinunciando al grande amore.
Castellucci decide di concentrare la tragedia nella sola voce della protagonista femminile, elimina gli uomini e riduce l’opera a “un monologo con Isabelle Huppert”. E in effetti la platea è gremita per vedere lei, la star del cinema, non certo per interesse raciniano, siamo onesti. Del resto il regista, nelle sue note, la definisce “la sineddoche dell’arte del teatro d’occidente”. Parbleu!, scriverebbe Lucien.

ph. Alex Majoli

Tale è la sovrapposizione della regina giudaica con l’attrice/sineddoche – nelle intenzioni di Castellucci – che il nome ISABELLE, insieme ad altre scritte illeggibili (e forse anche al nome ROMEO), è anche proiettato sui teloni a fondo scena, gli stessi dove per i primi 5 minuti di spettacolo leggiamo le percentuali degli elementi chimici che compongono il corpo umano: (elenchiamo a caso) carbonio 0,17%, idrogeno 5%, azoto 0,0076%, ecc… Nebbia 80%.
La scena è vuota se non per la scultura di un cane di fattezze egizie, seduto di profilo, su cui un martello meccanico batte il tempo come un gong, e per tre grandi aghi alti qualche metro, metronomi giganti che scandiscono un ritmo caratterizzato dagli ormai familiari suoni di colpi, fortissimi e sgradevoli, ideati dal fido Scott Gibbons.

Nel grande palco Huppert si muove con una sorprendente padronanza di spazio e scena, soffice come la fenice cui si rivolge, si muove molto e riesce a interpretare una regina disinvolta in questo vuoto tragico. All’inizio è bello sentirla declamare i versi alessandrini con tono incredulo, quasi le sembrassero sciocchezze, nessuna enfasi per parole che trasportano secoli di storia della letteratura, una cinica sfumatura di disinteresse che mi è sembrata una cifra personale originale e molto intelligente. Più avanti passa dall’isteria gridata alla ritrosia vergognosa, con la discrezione misurata di una mendicante, curva sotto una coperta grigia fa tintinnare il barattolo con le monete elemosinate per trionfare poi nella regalità rosso fuoco del finale.
Non ci si aspetta niente di meno, da una diva come lei, ma nei novanta minuti la prova non è sempre così alta, non c’è sempre grandeur. Questo succede anche perché l’adattamento dei cinque atti riduce e monotonizza il testo avvincinandolo a una questione di coppia dove i dubbi sono se l’amore sia troppo ma le lacrime troppo poche, mi amavi ma ora ami più il Senato, tu soffri ma io soffro di più, e “ne me regardez pas” quando me ne vado. Non me ne vorrà il regista se ho pensato a Ne me quitte pas di Jacques Brel.

ph. Alex Maioli

A un certo punto Tito, assente come Antioco, diventa in scena un termosifone e Bérénice dialoga con esso/lui, senza variare granché il suo atteggiamento, a onor del vero. Se c’è volontà ironica in questa idea, la plaudiamo. Ma poi la presenza elettrodomestica viene ripetuta nella lavatrice dalla quale Huppert, poco casalinga, estrae un lenzuolo macchiato di sangue (si sa che in teatro le macchie di sangue sono le più difficili da cancellare). E il sangue è un elemento centrale, nell’opera originale e in questo allestimento: primo perché nonostante si tratti di una tragedia non ne viene versato affatto, il dolore è infatti tutto interiore, e secondo perché viene posato a terra un modellino stilizzato (o almeno questo ci è parso dai lontani spalti) della circolazione sanguigna, venosa e arteriosa, blu e rossa, che poi si risimbolizza in due nastri di raso – uno rosso e uno blu –  che si srotolano e riarrotolano più volte dalla graticcia, come due yo-yo ematici.

ph. Alex Maioli

Sono parte dello spettacolo anche i due danzatori solisti Cheikh Kébée e Giovanni Manzo e altri nove performer, impegnati in una coreografia di gruppo – curata da Silvano Voltolina – esteticamente d’effetto, in cui i petti (e non solo) nudi serpeggiano con drappi rossi, come un rettile che insinua con il movimento l’epilogo del dramma. Rosso e blu sono anche i colori di una croce greca che i nove portano sulle spalle, forse simbolo della ‘passione’ che i tre protagonisti vivono. L’imperatore comparirà solo in forma di busto, battuto dallo stesso martello che in apertura colpiva il cane. Naturalmente non mancano scene curatissime e immagini di forte impatto visivo, a discapito però della scarnificazione e della inesorabile sconfitta del sentimento che dovremmo avvertire come i perni intorno a cui tutto gira.
Qui c’è gente che soffre, non si discute, ma noi vediamo “la Huppert” che fa il personaggio, non la regina che è lacerata dalla sofferenza, straziata dalla rinunzia all’amore per la “ragion di stato”.
Avvertiamo, un po’ tardivamente, la forza dei versi di Racine nella scena finale in cui Isabelle, con uno sgargiante abito sui toni di un rosso tropicale, siede sulle ginocchia rivolta alla platea, alle sue spalle un’enorme pianta con fiori rossi dietro un diaframma di voile, e recita balbettando la chiusa: la parola si è spezzata, la voce tartaglia, il linguaggio si è rotto, parlare non è servito. “Non seguite i miei passi. Per l’ultima volta, addio Signore”.

BERENICE – prima nazionale

da Jean Racine
liberamente ispirato a Bérénice di Jean Racine
un monologo con Isabelle Huppert e con la partecipazione di Cheikh Kébée, Giovanni Manzo e la presenza di dodici persone locali
concezione e regia Romeo Castellucci
musica originale Scott Gibbons
costumi Iris Van Herpen
assistenza alla regia Silvano Voltolina
collaborazione alla drammaturgia Bernard Pautrat
cura dei movimenti corali Silvano Voltolina
direzione tecnica Eugenio Resta
tecnici di palco Andrei Benchea e Stefano Valandro
tecnico luci Andrea Sanson
tecnico del suono Claudio Tortorici
costumista Chiara Venturini
ideazione trucco e acconciatura Sylvie Cailleret, Jocelyne Milazzo
sculture di scena e automazioni Plastikart Studio Amoroso & Zimmermann
direttori di produzione Benedetta Briglia, Marko Rankov
produzione e tour Giulia Colla
organizzazione Bruno Jacob, Leslie Perrin, Caterina Soranzo
contributo alla produzione Gilda Biasini
équipe tecnica in sede Lorenzo Camera, Carmen Castellucci, Francesca Di Serio, Gionni Gardini
produttori esecutivi Societas, Cesena; Printemps des Comédiens – Cité du Théâtre Domaine d’O, Montpellier
co-produttori Théâtre de La Ville Paris, France; Comédie de Genève, Suisse; Les Théâtres de la Ville de Luxembourg; deSingel International Arts Center, Belgium; Festival Temporada Alta, Spain; Teatro di Napoli –Teatro Nazionale, Thalia Theater Hamburg; Onassis Stegi; Triennale Milano, Italy; National Taichung Theater, Taiwan; LAC Lugano Arte e Cultura, Switzerland; La Comédie de Clermont-Ferrand –Scène Nationale, France; Théâtre national de Bretagne, France; Yanghua Theatre, Chine /con il sostegno di: Fondation d’entreprise Hermès

Triennale Milano | 4 aprile 2024