ELENA SCOLARI | Da noi, intendo in Italia, i fucili a pallini sono quelli per la caccia. Un pallino di piombo lo puoi trovare se mangi un fagiano o un piccione arrosto, al ristorante. In Iran i pallini li sparano anche contro le persone, contro le donne, se protestano in piazza contro la repressione degli Ayatollah.
Al momento – anche se l’intermittenza degli argomenti trattati e poi repentinamente dimenticati sui media non ce ne parla più – in Iran le donne non possono: cantare (se non in duetto con un uomo); ballare; andare allo stadio; guidare una moto; andare in bicicletta; andare a cavallo; diventare giudici; chiedere il divorzio (e se il divorzio lo chiede il marito i figli andranno a lui); vestirsi come vogliono (devono portare l’hijab); scegliere alcune facoltà universitarie tra cui contabilità, ingegneria e chimica; abortire.
Per una donna l’età per essere considerata penalmente responsabile è 9 anni, per i maschi 15; per le donne è prevista la pena di morte per l’adulterio. E per adulterio si intende anche un rapporto sessuale consensuale con un uomo da non sposata.
Ecco come si vive nel regime teocratico di Ali Khamenei. Non è tutto qui, ma è sufficiente, credo, per farci almeno immaginare – ma non capire fino in fondo – come potremmo sentirci noi, alzandoci la mattina in un paese così.Ashkan Khatibi, attore e regista assai noto in Iran, ha deciso di non svegliarsi più in quella terra ed è scappato. Ora vive a Milano ed è stato ospitato dal Teatro Franco Parenti per lo spettacolo Le mie tre sorelle, in cui recita Sadaf Baghbani, una donna che è stata impallinata dalla polizia nel novembre 2022, durante il corteo in cui migliaia di giovani si dirigevano verso la tomba di Hadis Najafi, una ventenne uccisa dal regime poco dopo Mahsa Amini, la ragazza che non portava il velo come si deve.
Baghbani è sul palco con Saba Poori, Nazanin Aban, Taher Nikkhah e la cantante Sahba Khalili Amiri. L’attrice è riuscita a venire in Italia grazie a un visto di studio ottenuto con l’aiuto di Khatibi e del traduttore (anche del testo di questo spettacolo) Michele Marelli.
Per gli applausi salgono sul palco anche Alma, Ava, Tina Karam Zadeh, assistenti di scena che compiono alcune azioni di servizio. Però, hanno il volto coperto da una specie di velo nero, hanno parenti in Iran e temono ripercussioni. E questo fa molta impressione: provate a pensare che una compagnia italiana vada in tournée all’estero e che alcuni degli attori prendano gli applausi con la faccia coperta per paura di quello che potrebbe succedere alle proprie famiglie.

Diciamo già di ciò che accade alla fine, quando le luci della sala si sono già riaccese e gli spettatori si sono tutti alzati in piedi per un tributo spontaneo e pieno di stima per il coraggio delle donne iraniane, proprio perché questo è il vero punto: la solidarietà e il rispetto dovuti a persone che si prendono 150 pallini in corpo per aver espresso dissenso contro una dittatura. Donne, ragazze, giovani, all’alba della vita e già giustamente rabbiose per i divieti ottusi e crudeli alla propria libertà. L’applauso caloroso va a loro, al loro fegato e alle loro storie, più che allo spettacolo. Non eccelso, in sé. Le mie tre sorelle è uno di quei casi in cui l’oggetto politico di cui si parla – la repressione iraniana – conta più del risultato artistico tramite il quale lo si porge.

Dimensioni e proporzioni della Sala Blu del Franco Parenti sacrificano quasi qualunque lavoro, lo ricordiamo – e tocca essere un poco pedanti e dire che il testo, ben tradotto dal farsi da Marelli e proiettato su schermo, poteva essere scritto in un corpo meno da esame oculistico. Detto ciò, però, questa produzione gode di due elementi, soprattutto: un buon testo, ritmato, energico, deciso, ben scritto, alternando la sincera crudezza della cronaca alla poesia della nostalgia; e la recitazione schietta e sentita delle interpreti, data dalla loro biografia. Per il resto, la regia è piuttosto elementare e non particolarmente ricca di idee teatrali interessanti.
Ci spingiamo oltre: è talmente forte la Storia che investe Sadaf Baghbani e le altre donne iraniane di cui ella racconta che quasi non servirebbe altro, a meno di avere un’idea creativa veramente grande per metterla in scena. E quindi, le mani che lasciano impronte rosse di sangue sui vestiti bianchi, i dialoghi con il padre (Taher Nikkhah), simpatico e sopra le righe, il telo bianco srotolato come un lenzuolo e la luce blu per le chiacchiere notturne delle tre ragazze prima di dormire, sono in fondo cosucce, aggiunte quasi ininfluenti: il valore di Le mie tre sorelle non sta lì. Anzi, tendono a offuscarlo un po’, a dirla tutta.

A proposito: perché Le mie tre sorelle? Perché il regista fa raccontare a Sadaf la storia sua e delle sue sorelle (e sono in tutto tre) e perché loro sognano di venire «A Roma! A Roma!» invece che «A Mosca! A Mosca!». Quindi, è una sua versione, diciamo così. Forse, le intende anche come sue sorelle ideali, per essere fuggite allo stesso Paese. Per il resto, lo dice anche una delle sorelle minori all’inizio (cito a memoria): «Mascia, Olga e Irina non hanno niente a che vedere con noi. Quelle non facevano niente tutto il giorno e sognavano a occhi aperti, io ho talmente tanto da fare che è già molto se trovo il tempo per dormire». Netta, la sorella.


Nello spettacolo ci sono alcuni brani rap, forse del rapper Toomaj Saleh, recentemente condannato a morte per aver sostenuto il movimento Donna Vita Libertà (sono in corso azioni tese a evitargli l’esecuzione), cantati con fermezza dalle attrici in scena. La musica è, infatti, una forma espressiva significativa: la presenza della cantante Sahba Khalili Amiri e l’uso del rap sono i veicoli simbolici della dolcezza del canto tradizionale e della via musicale per la protesta odierna.
Tanto precisi e crudi sono i racconti – anche la fotografia delle ferite a pois sul corpo di Sadaf, tanti puntini da unire per vedere qual è il contorno del coraggio – quanto colpiscono gli aspetti che rappresentano l’attaccamento alla terra: il profumo del gelsomino, gli aromi che si sentono per le strade a Teheran, l’odore dei capelli delle sorelle, in cui Sadaf si tuffa per portarlo con sé quando parte, lasciando l’Iran per la propria sicurezza. La poesia di questi ricordi incancellabili è pungente, e fa specie che sia su questi elementi tradizionali che, alla fine, si fonda anche la memoria d’origine dei giovani.

C’è, nello spettacolo, una ripetuta presa in giro delle teorie di Sigmund Freud, tacciato di essere fissato con il sesso e di spiegare ogni comportamento umano con la spinta erotica; in realtà, questo rilievo finisce per dargli ragione: non è forse il corpo e la sua libera esibizione il centro dei divieti repressivi in Iran? Queste leggi illiberali non esprimono forse la volontà di cancellare ogni possibile via seduttiva delle donne, considerate la culla del peccato?
Forse, il padre della psicanalisi ci spiegherebbe anche perché, alla fine dello spettacolo, è solo il regista a parlare e non le donne che sono state in scena; certo, in scena abbiamo ascoltato la loro storia e speriamo che possano dire, come in Čechov: «Oh, care sorelle, la nostra vita non è ancora finita. Vivremo! La banda suona così allegra, con tanta gioia, e pare che tra poco anche noi sapremo perché siamo al mondo, perché soffriamo…»

 

LE MIE TRE SORELLE
basato su una storia vera

regia e sceneggiatura Ashkan Khatibi
con Sadaf Baghbani, Saba Poori, Nazanin Aban, Taher Nikkhah
cantante Sahba Khalili Amiri
costumi Delshad Marsous
scenografia Taher Nikkhah
assistenti di scena Alma, Ava, Tina Karam Zadeh
assistenti alla regia Michele Marelli, Ghazal Shamlou, Arash Shojaei, Tina Karam Zadeh
traduzione dal persiano Michele Marelli
produzione Teatro Franco Parenti

Teatro Franco Parenti, Milano | 28 aprile 2024