LAURA NOVELLI | Dal buio assorto della scena affiora la sagoma di una donna seduta a un tavolino. Ci appare ritagliata dentro la cornice traslucida di un pannello geometrico che, attraversato da luci fredde e fioche, la fanno sembrare quasi una figura di Edward Hopper. E proprio come una figura di Hopper, è l’immagine di una solitudine senza conforto ciò che ci comunica dapprincipio.
Scopriremo solo poi che
Felicia – questo il suo nome – si trova nella sala d’attesa dell’ospedale dove è ricoverato suo marito Ismael, affetto da una grave patologia. Scopriremo che in quel posto, rifugio a un mondo esterno in via di distruzione, un’altra donna, Salinas, opererà in lei una progressiva trasformazione identitaria, coinvolgendola in un esperimento di cui le “parole” costituiscono il centro propulsore e il viatico verso la salvezza del marito. Ma forse le cose non stanno esattamente così. E tutto, persino il luogo stesso, persino i corpi stessi, persino il linguaggio stesso, potrebbero essere altro, alludere ad altro.

Il Golem. Foto di Laura Farneti

Una misteriosa ambiguità avvolge, infatti, la complessa vicenda descritta da Juan Mayorga ne Il Golem, ennesima grande prova drammaturgica del prolifico e pluripremiato autore spagnolo (qui tradotto da Pino Tierno) che Jacopo Gassmann ha messo in scena al Teatro India di Roma nelle sere scorse con un cast di ottimi interpreti, composto da Elena Bucci (Salinas), Monica Piseddu (Felicia) e Woody Neri (Ismael).
Il regista romano – studi a New York e alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra – non è nuovo al teatro di Mayorga, del quale in passato ha già diretto
Nocturnal (2012), La pace perpetua (2013) e Il ragazzo dell’ultimo banco (2019), e ha affrontato questa nuova regia partendo innazitutto dall’urgenza di raccontare i nostri tempi cupi, l’epoca pericolosa in cui viviamo. Per chiedersi – e chiederci – quali luci intercettare nel buio e quale ruolo l’arte e il teatro possano avere per (tentare di) salvarci.
La nostra intervista parte da qui.

La prima domanda è d’obbligo: come è nata l’idea di questo progetto?

Direi in modo fisiologico, visto il rapporto personale che ho con l’autore. Sono al quarto lavoro di regia su opere di Mayorga e ormai lo considero un vero amico. Inoltre, Il Golem è un testo molto complesso, che ha avuto una lunga genesi. Juan lo ha iniziato prima del Covid e poi ci ha rimesso mano tante volte. Ha fatto un vero e proprio labor limae e, negli anni, me ne ha mandate diverse stesure; negli ultimi tempi, quasi mensilmente. La parte finale, ad esempio, è stata particolarmente difficile da elaborare. Lui stesso ci si è soffermato a lungo, per capire esattamente cosa andare a dire.
Quando ho letto il testo la prima volta, eravamo in piena pandemia, stavamo chiusi in casa, e mi è parso un incubo dello stesso Mayorga, ipotesi che lui stesso mi ha poi confermato. Nel leggerlo, avevo l’impressione di trovarmi di fronte a un enorme rebus onirico con il quale, però, ho avvertito sin da subito un forte legame con i tempi che stavamo vivendo.
Il testo inizia, infatti, parla di sanità pubblica, di un mondo al collasso, e credo che l’inquietudine di cui è pervaso sia un’inquietudine sociale, storica, che ancora oggi, a distanza di qualche anno dal Covid, avvertiamo nettamente. Siamo in uno di quei momenti della Storia umana in cui ci si sente sull’orlo di un abisso: guerre, solitudine, violenza, rabbia. In questo sentimento del tempo penso risieda uno degli aspetti più forti di quest’opera, capace di viaggiare dentro
generi diversi come il noir, il gotico, il thriller, l’utopia futuristica, senza essere, in realtà, nulla di tutto ciò, quanto, semmai, uno spazio letterario e teatrale a sé, che ci parla fondamentalmente di politica, del nostro oggi.

Foto di Laura Farneti

In effetti, la trama appare semplice, ma, in realtà, intercetta tanti risvolti filosofici, tante declinazioni diverse. Anzi, è proprio dentro questa apparente semplicità che si insinua la riflessione di Mayorga sull’ambiguità del linguaggio e del reale. Da regista e profondo conoscitore del testo, come riassumeresti il plot de Il Golem?

In sostanza c’è una coppia sposata: una donna e un uomo affetto da una grave patologia. Sono arrivati in un ospedale considerato la loro ultima spiaggia e si capisce presto che si tratta di due stranieri, dunque di due persone lontane dal linguaggio del posto. Elemento questo molto emblematico. La vicenda innesca poi un patto faustiano o potremmo dire kafkiano: lo Stato sta decidendo di chiudere molti luoghi di cura e di tagliare le spese per la sanità, ma Ismael, che ha una malattia legata proprio alla sfera del linguaggio, deve essere salvato e la moglie Felicia si presta per amore a un esperimento del tutto particolare, pur di tentare un’ultima strada.
Salinas è la donna che propone il patto. Sembra un medico, ma in realtà è una traduttrice, una bibliotecaria, una studiosa che conosce tutte le lingue del mondo; dunque, le parole sono la sua sostanza e costituiscono la sostanza del patto stesso. Felicia deve imparare tre nuove parole al giorno. La donna accetta di sottoporsi all’esperimento anche perché non le sembra ‘pericoloso’ (è la stessa Salinas a controbattere: “Trattandosi di parole, può essere molto pericoloso”) e da qui inizia una metamorfosi – questa sì realmente kafkiana – che la trasforma in qualcun altro.
Parliamo ovviamente di una metamorfosi interiore, onirica. Felicia inizia a sognare i sogni di qualcun altro; attraversa uno stato di dualità, di sdoppiamento; a poco a poco assume l’intelligenza di Pablo, un rivoluzionario vissuto anni prima e – forse – ospite anch’egli di quel luogo sotterraneo che, per ossimoro, si chiama Paradiso. Ma siamo sicuri che questo Pablo sia realmente esistito? E se fosse stato sempre dentro di lei? E se quel posto fosse, in realtà, un ospedale psichiatrico e Felicia ne fosse una paziente?
Alla fine, infatti, Ismael se ne andrà e non riconoscerà più la moglie. Ciò che li ha tenuti uniti per gran parte della loro relazione, cioè il ricordo del passato, svanisce. Tutto cambia nell’epilogo. E si genera una catena di dubbi cui la drammaturgia risponde con un possibile sentiero. Ma sottolineo ‘possibile’.

L’ambiguità pluriprospettica che si sprigiona dalla vicenda non viene volutamente sciolta – o almeno completamente sciolta – da Mayorga, anche per lasciare gli spettatori liberi di cogliere aspetti e angolature diverse. Dunque, come reagisce il pubblico alla fine dello spettacolo?

Mayorga afferma: “Il teatro accade nell’immaginazione, nella memoria, nell’esperienza dello spettatore”. Motivo per cui le sue opere lasciano sempre un margine di libertà interpretativa al pubblico. È un obiettivo chiaro della sua scrittura. Bisogna permettere al singolo spettatore di costruirsi la sua ipotesi, di sentire ciò che vuole sentire, leggere sulla scena ciò che più gli risuona dentro.
Dopo le repliche de
Il Golem, le persone mi hanno spesso riferito impressioni molto lontane tra loro, eppure tutte valide, tutte vere. Non c’è chi ha torto e chi ha ragione. Va poi detto che qui la riflessione dell’autore viaggia su livelli che vanno ben oltre la trama; è una riflessione ancora più toccante, più profonda, perché riguarda il linguaggio, la forza manipolatoria che un uso distorto delle parole può esercitare a livello sociale. Un aspetto che si lega in modo incontrovertibile ai tempi che stiamo attraversando.

Foto di Laura Farneti

Non a caso il Golem del titolo – di cui Ismael stesso racconta la storia a Felicia – coincide proprio con la straordinaria attenzione al linguaggio che innerva il testo e la sua tessitura filosofica. Possiamo dire che tale attenzione riguardi da vicino anche il teatro?

Certamente, è così. Ma conviene ragionare per gradi. Il Golem qui rappresenta senza dubbio la parola e ci sono tante storie legate a questo essere fatto della stessa materia di Adamo. È una leggenda che attraversa molte religioni, molte culture. Poi, per facilità si fa riferimento alla storia più nota, quella della città di Praga dove, nel XVI secolo, venne creato un gigante di argilla per difendere il ghetto. Il rabbino Loew, principale ideatore di quella grande creatura, gli impresse sulla fronte la parola “emet”, che significa verità. Di notte il rabbino stesso cancellava la “e” iniziale della parola, facendola diventare “met”, cioè morte. La leggenda, come è noto, finisce male, con il gigante che distrugge il ghetto stesso. In fondo, si tratta di una metafora di ciò che è l’uomo, creatore di illusioni progettate a fini benefici, che poi gli si ritorcono contro.
Oggi il Golem potrebbe essere rappresentato da un robot o dall’intelligenza artificiale. Mayorga, però, usa questo simbolo per dirci che bastano le parole per trasformarci. Le parole che Felicia impara in seguito al patto con Salinas sono le parole che Pablo presumibilmente aveva scritto anni prima e non aveva avuto la forza di pronunciare. La lingua è come un bosco: alla fine c’è una radura, ma arrivare a parlare implica molta sofferenza. Ed ecco che, nel monologo finale, il testo ci invita a ragionare su ciò che il teatro dovrebbe essere, tanto più oggi: un rituale politico dal vivo che nasce dalla penna di un autore, attraversa gli artisti che lo mettono in scena per poi avvenire nella mente dello spettatore, nel suo pensiero critico.
Il testo rimane nell’ambiguità in cui si muove quello splendido dialogo platonico che è il
Cratilo: la lingua, se dà il nome alle cose, può essere speranza, forza, amore; se, viceversa, è mero artificio, allora si risolve in manipolazione e può diventare pericolosa.

Il teatro, in definitiva, come tribuna politica e, auspicabilmente, come esperienza salvifica. Nel testo si avverte ogni tanto persino un più o meno esplicito registro metateatrale. Felicia stessa chiede a un certo punto: “Un’attrice, è questo quello che sono?”. Venendo proprio alle due interpreti in scena, Elena Bucci e Monica Piseddu, cosa ti ha guidato verso questa duplice scelta?

Sono interpreti molto diverse tra loro, ma entrambe bravissime e perfette nei loro ruoli. Il personaggio di Salinas, secondo me, non necessita di concretezza. Il nero è il colore che lo domina e anche la sua gestualità rimane ridotta. È una donna che consiste tutta nella parola. Fa l’archivista, è una custode delle lingue. Forse, è persino un personaggio postumo, che racconta di un altro che non c’è. A volte compare da luoghi che non ti aspetti, altre volte parla quasi fuori scena. Dunque, Elena mi è parsa l’interprete giusta per dare fisicità e vocalità a questa essenza.
Su Monica, che dire? È un’attrice estremamente sensibile e ciò che più colpisce in lei è il fatto che, pur essendo così esile, piccola, fragile, possegga, invece, una forza straordinaria, un’energia enorme. Il suo personaggio all’inizio è sull’orlo di un abisso, non ha altra chance che accettare il patto; poi cambia e percorre un arco di trasformazione incredibile in quanto, via via che l’esperimento prosegue, acquista un vigore che la modifica nel profondo. Monica è stata in grado di restituire perfettamente tutti questi passaggi emotivi di Felicia.
Sono davvero felice e grato a entrambe per il lavoro fatto insieme, così come sono grato a Woody Neri.

Foto di Laura Farneti

Molto suggestivo risulta anche il dispositivo scenico dello spettacolo, progettato da Gregorio Zurla. Come si è sviluppata l’idea di questo luogo antirealistico, dominato da specchi e diverse prospettive di visione?

Per prima cosa, siamo in uno spazio che nasce dal buio e che si trasforma in quello che, presumibilmente, dovrebbe essere l’ospedale/biblioteca/Paradiso descritto da Mayorga. Siamo perciò partiti da una domanda semplice: cosa vogliamo raccontare? Abbiamo poi pensato al buio e a dei piccoli appigli: la scena è, infatti, una grande X di pannelli di policarbonato adatti a fungere da specchi, ma anche da pareti trasparenti e da materia capace di assorbire le videoproiezioni curate da Lorenzo Letizia.
Diciamo che nel complesso questo dispositivo, i cui unici arredi concreti sono dei tavoli ellittici e delle sedie, lascia gli spettatori liberi di vedere ciò che sentono e credono più confacente. La scelta del pubbico è fondamentale anche dal punto di vista spaziale. Ciò non esclude, tuttavia, che alcuni passaggi della pièce possano rimandare un’idea se vogliamo più realistica del luogo.
Certo è però che, via via che l’azione procede, andiamo progressivamente a decostruire, a smontare lo spazio in ambienti diversi. Anche il luogo, cioè, come tutto il resto de
Il Golem, perde la sua oggettività, la sua geografia, i suoi lineamenti superficiali.

Foto di Laura Farneti

E forse, in definitiva, è proprio in questa sensata perdita di ogni orizzonte netto che si annida la possibilità concreta per il teatro, e per le sue parole, di farsi tribuna di pensiero rivolta a un’agorà di menti – appunto – pensanti. Qui avviene la vera rivoluzione di Felicia/Pablo: dentro il perimetro affascinante di una scena che, come in altri importanti lavori di Mayorga (basti pensare, oltre ai titoli già citati, a opere quali Hamelin, Himmelweg, La tartaruga di Darwin), attinge al patrimonio letterario, filosofico, culturale dell’umanità, per sollevare dubbi, agitare gli animi, spalancare lo sguardo sul nostro povero mondo.
Lo spettacolo, dopo le repliche capitoline, prosegue la sua vita: in primavera sarà in programma in alcune piazze del centro Italia, per poi riprendere una corposa tournée in autunno, con repliche per lo più al nord. E in cantiere c’è anche il progetto di una trasferta in Spagna, complice un coinvolgimento diretto dell’autore. “Ci siamo confrontati molto durante la preparazione dello spettacolo – conclude Jacopo Gassmann – e Juan ha visto anche alcuni video degli esiti scenici. Ma ci teniamo entrambi a questa tournèe spagnola e sono molto fiducioso a riguardo”.

IL GOLEM
di Juan Mayorga
traduzione Pino Tierno
regia
 Jacopo Gassmann
con Elena Bucci, Monica Piseddu e Woody Neri
luci Gianni Staropoli
scene e costumi
Gregorio Zurla
video Lorenzo Letizia
aiuto regia Giulia Bartolini
direttore di scena Nanni Ragusa
fonica Giorgia Mascia
tecnico luci Yann Arthus Hamelin
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Sardegna Teatro e Teatro Stabile dell’Umbria

Teatro India – Roma, 11-23 marzo 2025