CHIARA AMATO / PAC LAB* | Nel 1605 William Shakespeare compose la tragedia in cinque atti Re Lear. Giorgio Strehler, a proposito della sua versione di Lear del 1972, disse “È una tragedia che si inteatra. Tutte le cose del testo che ho capito, le ho capite giorno per giorno sulla scena” perché la parola, nella sua intensità, è strettamente legata all’azione scenica.
Questo non accade, anzi viene capovolto in Lei Lear, di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco, andato in scena al Teatro della Contraddizione di Milano. Qui infatti l’azione è ridotta all’osso dando rilevanza all’interpretazione della parola più che al movimento e all’utilizzo dello spazio.
Le due artiste si sono occupate anche della regia, insieme ad André Casaca, e lo spettacolo è il risultato di una coproduzione internazionale tra SCARTI – Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Muchas Gracias (fondato da Fenizi e Marocco nel 2018), e Teatro C’Art. L’opera, che nel 2021 vinse il Premio PimOFF per il teatro contemporaneo, è l’epilogo della trilogia Trittico Urbano, che affronta il tema dell’opposizione tra spazio pubblico e spazio privato.
Lo spettacolo si presenta come una strana forma di monologo, in quanto le due protagoniste, che interpretano Goneril e Reagan, due delle tre figlie di Lear, parlano e si muovono all’unisono, sovrapponendo le loro voci. “Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono, l’animo può superare molte sofferenze”, diceva appunto Shakespeare, e le due malvagie figure, in questo caso, hanno portato all’estremo questa condivisione, trasformandola in simbiosi. Cordelia invece è una grande assente: il fulcro è la complicità di queste due colpevoli e tutto il resto è uno sfocato contorno.
Ma partiamo dall’inizio: non esiste una scenografia, c’è solo un fascio di luce basso e caldo che arriva dal lato sinistro, e le due attrici entrano in scena indossando lo stesso abito floreale, occhiali da sole scuri e un paio di scarpe con il tacco. Si accendono luci fisse dall’alto sulle due sagome: queste si aggirano per il palco e deridono il pubblico ghignando. Al grido di È lui il colpevole! inizia la parodia della vicenda shakespeariana e delle cospirazioni contro Lear. Le due donne non si assumono la responsabilità dell’uccisione del padre, ma parlano di come sia più difficile uccidere qualcuno che morire.
Il meccanismo dello spettacolo è subito chiaro: tutto ruota intorno alla loro ironia e alla mimica tipica della clowneria. Si muovono sempre a braccetto o tenendosi per mano o ponendosi una di fronte all’altra come davanti a uno specchio.
Si percepisce che la gestazione dello spettacolo è avvenuta durante la clausura pandemica, forse proprio per questa ossessiva prossimità di corpi che per lungo tempo abbiamo avuto solo con i familiari/conviventi.
Il riso, fragoroso in sala, è generato paradossalmente dalla loro diversità: i gesti sono gli stessi ma con ovvie differenze. Entrambe esprimono le stesse emozioni ma attraverso la personale singolarità di movimento ed espressione facciale. Non accade effettivamente nulla, ma si sente una beckettiana attesa che qualcosa accada.
Si gioca con la rottura della quarta parete: loro stanno interpretando un ruolo in quanto attrici e questo è svelato dal principio (parlano con il tecnico audio, commentano il pubblico come noioso, etc). Altro elemento della loro ricerca artistica è sicuramente il linguaggio verbale e i suoi singhiozzi: balbettii, lapsus ed errori di dislessia che generano il sorriso e fanno riferimenti continui ai classici shakespeariani (Padre sei tu o non sei tu?).
Si comportano come se avessero un solo corpo pur interpretando due personaggi diversi: chi è Goneril e chi Reagan non viene esplicitato e non interessa neanche più allo spettatore, che viene invece chiamato in causa in un dialogo surreale. Assistiamo così a una lezione di inglese buffa e paradossale che ha come unico fine la risata. Le parole scelte, anche in questo caso, non sono casuali brother and mother kill the father: it’s ok in Shakespeare. Ironizzano pesantemente sulle dinamiche tormentate e sui legami “tossici”, presenti negli intrecci di Shakespeare.
In due occasioni dialogano con il padre defunto e un cono di luce le incornicia dall’alto: ognuna delle due cerca di convincerlo che è stata l’altra a defraudarlo. Così si azzuffano e si punzecchiano richiamando alla memoria alcuni sketch di Stanlio e Ollio.
Il risultato è esilarante e fa tornare un po’ bambini. Il profilo tragico del testo ispiratore è totalmente rovesciato fino al paradosso e alla satira: le due interpreti si cannibalizzano, si parlano sopra creando un ritmo svelto e piacevole, lasciando solo sullo sfondo la vicenda del re inglese, che resta un pretesto per questa operazione di ricerca contemporanea.
Lear è solo un fantasma lontano.
LEI LEAR
di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco
regia André Casaca, Chiara Fenizi e Julieta Marocco
consulenza artistica Francesco Ferrieri
produzione SCARTI – Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Muchas Gracias, Teatro C’Art
4 marzo 2025 | Teatro della Contraddizione, Milano
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.