ESTER FORMATO | É andata in scena al Piccolo Strehler di Milano, “Fedra” con la regia di Federico Tiezzi, coprodotto, fra gli altri, anche da ERT Emilia Romagna. In scena, catalizzatrice di tutta la tragedia, nella versione di Jean Racine, è Elena Ghiaurov che interpreta questa figura emblematica del teatro tragico greco, archetipo femminile vicinissimo a quello di Didone e di Medea; modelli atavici di una femminilità dirompente che si esprime nella forza passionale del loro essere e, se vogliamo, anche sopravvivenze letterarie di una concezione matriarcale del potere e della vita, preesistenti nell’area egeo-anatolica, prima dello sviluppo della civiltà greca propriamente detta.

foto di scena Luca Manfrini

Euripide, Seneca e Racine. Il mito di Fedra è stato diversamente partorito dai tre grandi tragediografi con una prospettiva molto differente. Jean Racine nel 1677, al netto della concezione giansenista, riprende l’impianto drammaturgico di Seneca il quale, secondo il pensiero stoico, avrebbe messo in luce, incarnandola nella regina di Trezene, l’imponente lotta delle passioni umane che finiscono per sovrastare la coscienza razionale.
Fedele alla traduzione tardonovecentesca di Giovanni Raboni, Tiezzi dà vita alla sua Phèdre nel corpo e nella voce di un’Elena Ghiaurov fascinosa e magnetica; ne veniamo a conoscenza in un piccolo prologo che le si riserva, metà femme fatale e metà attrice di rivista, quando in un sinuoso accenno di danza dà avvio allo spettacolo.
Un sipario color oro attira l’attenzione degli astanti. Ad apertura di quest’ultimo, il nostro sguardo indugia su un assetto scenografico pulito ed omogeneo curato da Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi. Una sola luce frontale illumina la scena arredata da due lampadari in cristallo molto grandi tra i quali troneggia un dipinto di Guido Reni che diviene il punto  di fuga, mentre le quinte laterali sono costituite da vetri levigatissimi e lucidi, coordinati da teste di statue tutte uguali che si ripetono da ambo i lati, come a voler inserire dei motivi tipicamente barocchi (la moltiplicazione di un elemento) entro una cornice simmetrica e rigida. Completa il tutto un triclinio marmoreo molto grande posto al centro.  Quando il nostro sguardo vi fa capolino, abbiamo già conosciuto Ippolito (un misuratissimo Riccardo Livermore) ed il suo fidato Teramene (Massimo Verdastro) in abiti sbrilluccicanti, gorgiere ed in posa semisupina in cui declamano le loro iniziali battute. Anch’essi sono accomodati in proscenio, perché il mondo di Ippolito è fuori le mura della reggia, idealmente celata dal sipario dorato, e li cogliamo mentre il giovane principe confessa, nonostante sia consacrato a Diana, e dunque alla castità perpetua, di amare una giovane fanciulla. Si tratta di Aricia (Catherine Bertoni de Laet), personaggio assente sia in Euripide che in Seneca, ma che Racine introduce per poter stemperare la misoginia di Ippolito e che avrebbe desunto da Virgilio. L’amore, quale esperienza che non aveva messo in conto nella sua vita, lo turba, la sua fatica ad ammettere di esserne pervaso è evidente, eppure, la perfetta legittimità di un amore fedele e giovane lo sollecita a cedervi. L’armonia esterna dei boschi di Trezene è ben presto contrastata dalla drammaticità che Fedra, rifiutando la luce del sole, vive nell’oscurità del palazzo di Teseo che si presume morto. È affetta da un male misterioso che agisce tanto sulla mente quanto sul suo corpo, e che la fa dimenare, quasi a volersene liberare. Il suo – in questo caso quello di Elena Ghiaurov – è un corpo memore di quelli di altre eroine tragiche di spessa consistenza, tutti potenti nell’esprimere una femminilità prodigiosa quanto distruttiva. Accanto a lei, vi è un’altra figura, incarnata lucidamente da Bruna Rossi. È Enone, la nutrice di Fedra, alla quale la regina, dopo tante reticenze, si confessa: ebbene si, il suo male è amare il figliastro Ippolito di un amore sconsideratamente violento nel desiderio e, ovviamente, nel suo essere gravemente illecito e quasi incestuoso.

foto di scena Luca Manfrini

Da Euripide a Racine, l’amore di Fedra per Ippolito si manifesta attraverso un morbo fisico, oltre che un’ossessione psicologica, di certo alimentato intensamente dalla natura sfuggente del giovane, dal suo carattere selvaggio – vive nei boschi – e, non ultimo, dalla sua proterva castità. L’amore di Fedra è una carta drammaturgica preziosa, già nel testo latino la progressiva intensità con cui viene espresso crea una tensione importante nel personaggio, inizialmente sopraffatto ed inabile ad ogni azione, ma poi artefice di una risoluzione funesta. Che è l’azione madre, l’azione che determina la tragedia. Nel testo francese però, l’abulìa di Fedra prevale ed è largamente compensata da un’Enone che Bruna Rossi incarna con una compostezza malefica. Vestita rigorosamente in nero, con una benda su un occhio, nonché un copricapo scuro, il suo personaggio prende delle sembianze multiformi, finendo per somigliare a figure antropologiche assimilabili alle megere della cultura meridionale. Ed è il personaggio più bello di questo allestimento. Scrive lo stesso Racine nella prefazione alla tragedia, di aver preferito che la nutrice accusasse falsamente Ippolito di aver cercato di violare Fedra, dinanzi a Teseo, e non la stessa Fedra, come nei modelli antecedenti, per non screditare il personaggio di una regina.
A quest’ultima, invece, viene lasciata la tragica confessione del suo amore all’attonito figliastro a cui segue la fuga dello stesso, l’arrivo del re redivivo, la falsa accusa della tentata violenza e la vendetta paterna che si abbatte sul sangue innocente. Una catastrofe strutturata da una salda reazione a catena che prende avvio solo dopo che il segreto di Fedra viene reso pubblico ad Enone, trasformando, quindi, il dramma interiore della donna in un atto reale e irreversibile. Come nel frammento n. 31 di Saffo, qui l’amore è forza concreta che squassa i corpi, oltre che la mente, in una prospettiva aderente alla visione ellenica che imputava ad Eros la fisicità dell’amore con una propria fisiologia, spesso distruttiva, ma parte dell’esperienza umana (magistralmente descritta nel De Rerum Natura IV di Lucrezio).

foto di scena Luca Manfrini

Federico Tiezzi, pur essendo ben consapevole delle palpabili tensioni e crepe che circolano fra le pieghe di questo mito, preferisce misurarne razionalmente ogni tassello, facendo prevalere una visione dicotomica per cui alla distruttività di Fedra fa da contrappeso la sobrietà di Ippolito, coinvolgendo in questo assetto altri personaggi, come Aricia e Teramene che fanno da contraltare all’inquietante Enone: una dialettica che si rifà all’idea manichea del giansenista Racine. In questo modo il regista restituisce compattezza al testo facendolo fluire chiaro dall’inizio alla fine, rivelando, passo dopo passo, una grande attenzione alla coerenza formale ed estetica che a volte, però, ha la meglio sull’intensità narrativa e sugli appigli più audaci presenti all’interno dell’opera: un’operazione equilibrata e cautelativa verso un testo ad alta levatura come questo. La corposità della parola tragica spesso inibisce le possibilità trasformanti dell’opera e che avrebbero potuto spingere di più su alcuni aspetti della psicologia di Fedra, nel tentativo estremo e assurdo di primeggiare sulla natura e sulla morale.
Ancora da un punto di vista formale, sui segni scenici, vi compaiono elementi che risulterebbero interessanti se non fossero soltanto appoggiati nella brillantezza della scenografia, senza che siano determinanti nell’esplicitare il pensiero della regia: Teseo (Martino D’Amico), incapace ad accertarsi della verità, indossa una specie di visore che gli copre gli occhi, un quadro di Guido Reni troneggia nella prima parte dello spettacolo, con soggetto Ippomene ed Atlanta (avversa alle nozze, come Ippolito), un bonsai in una teca compare nell’ultima parte, contrastando il gusto classicista che s’impone su tutto l’arredo scenico. Anche la scelta di preservare il verso alessandrino, quello della traduzione di Giovanni Raboni, che in alcuni punti del dramma fa sfoggio persino della rima, sta ad indicare un approccio filologico, visto certamente come un porto sicuro, rispetto al rischio di qualche sbottonatura in più nell’interpretazione del testo.
È complicato, si sa. È scivoloso questo terreno magmatico e viscerale che è Fedra, come scomodo e fuorviante è narrare oggi di questa potenza erotica indomata; una vitalità quasi misterica, millenaria, difficile da cogliere nella sua forza totalizzante, troppo genuina, troppo malvagia e dolorosa al contempo e che vuole esplodere dalla metrica in cui per millenni è stata rinchiusa, più che implodere.

FEDRA
di Jean Racine
traduzione Giovanni Raboni
regia Federico Tiezzi
con Catherine Bertoni de Laet, Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro
scena Franco Raggi, Gregorio Zurla e Federico Tiezzi
costumi Giovanna Buzzi
luci Gianni Pollini
canto Francesca Della Monica
movimenti coreografici Cristiana Morganti
regista assistente Giovanni Scandella
costumista assistente Lisa Rufini
scenografa assistente Erika Baffico
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale, Compagnia Lombardi-Tiezzi

Milano, teatro Strehler, 10 aprile 2025