GIANNA VALENTI | Come sarebbe, si chiede Deborah Hay, se tutti danzassimo al di là di ciò che conosciamo?
What if we all dance
past what we know
(gratitude, poesia, 2018) (*)
E come sarebbe se scrivessimo per disattivare le procedure della mente lineare, per esplorare come coreografare, per imparare senza pensare, per offrire al corpo che danza un percorso, un mondo o, ancora, se scrivessimo per incontrare un nuovo lessico per chi presenta la danza? In Hay, la scrittura interroga il corpo che, confrontandosi con l’impossibilità a comprendere della mente razionale, è chiamato a formulare una risposta, a dare forma a un immaginario, a connettersi con forme, spazi e relazioni a cui non aveva ancora pensato, andando oltre ciò che ha già imparato.
My body is my teacher.
La sua proposta, verbale o scritta, che genera tante risposte quanti sono i corpi che hanno accettato di ricevere quel percorso, quello score, quel mondo. Un mondo mai affrontato prima, che mette a dura prova l’uso di codici tecnici già appresi e codificati, che scardina quella sintassi del movimento danzato che un corpo ha memorizzato per reiterazione nella formazione e per adesione a un modello compositivo praticato abitualmente e memorizzato per automatismo.

Volevo coreografare un linguaggio parlato
che potesse ispirare un cambiamento nella danza.
I wanted to choreograph a spoken language
that would inspire a shift in dance
(Using the Sky: a dance, 2015)
Hay, come coreografa e scrittrice, ricerca una parola che sappia arricchire e potenziare la danza attraverso l’uso di istruzioni verbali e partiture scritte. Score come proposte, richieste, istruzioni che arrivano al corpo attraverso la parola e che ci conducono in una ricerca coreografica che è pratica di trasformazione dal linguaggio parlato e scritto a quello danzato. Un linguaggio poetico che fatica a essere rilevato dalla mente, che chiede di essere respirato, ascoltato, meditato e spostato nel corpo per essere attivato in un percorso non ancora sperimentato.
«Per la prima volta ho capito — dice una testimonianza che Hay inserisce alla fine dello score di Dynamic (2012) — che le domande/le pratiche risiedono nel corpo, non nella testa o, piuttosto, che la pratica consiste nello spostare la domanda dalla testa al corpo…». (*p.52) E Kirsi Monni, coreografa, ricercatrice e direttrice del Master in Coreografia Uniarts a Helsinki, che ha seguito e documentato il lavoro di Hay sin dal 2003 e che ha finito per utilizzarne il metodo nella sua stessa pratica coreografica, scrive che «Hay vive in uno stato dell’essere come linguaggio. Nella sua arte, il semantico e il somatico negoziano e interagiscono tra loro». (*p.58-59)
Ma proviamo ad ascoltarli e a sentirli nel corpo alcuni dei mondi testuali che Hay offre come percorso ai corpi della danza:
Be your most theatrical self and end with an incantation.
Invite been seen.
Sii il tuo sé più teatrale e termina con un’incantazione.
Invita a essere vista/o.
(Testimonianza sullo score di The Match, 2004) (*p.82)
What if my choice to surrender the pattern, and it is just a pattern, of facing a single direction or fixing on a singularly coherent idea, feeling, or object when I am dancing is a way to notice where I am not?
E se la mia scelta, quando danzo, di rinunciare alla modalità, e si tratta solo di una modalità, di guardare in una sola direzione o di concentrarmi su un’idea singolarmente coerente, un sentimento, o un oggetto, fosse un modo per notare dove non sono?
(da: Strumenti per la pratica della performance di Dynamic, 2012) (*p.42)
Your movements derive from the perception of yourself as a particle in a sea — not a whole particle but a fraction thereof… .
I tuoi movimenti derivano dalla percezione di te stessa/o come particella in un mare, non una particella intera, ma una sua frazione.
Without rhythm, or not rhythmic for long, your movement through space displaces the sea on stage.
Senza ritmo, o senza mantenerlo a lungo, il tuo movimento attraverso lo spazio sposta il mare sulla scena.
(Da: Note ai danzatori di Figure a Sea, 2015) (*p.33)

Alle danzatrice e ai danzatori viene proposto di lavorare con specifiche domande o prompt/richieste all’interno di una pratica percettiva molto rigorosa che fa sì che la risposta non possa semplicemente essere un’illustrazione del linguaggio attraverso il movimento, ma neppure una restituzione danzata che attinge a materiali di movimento dalle diverse formazioni tecniche codificate, con una concatenazione di modalità sintattiche che si attivano per semplice consuetudine.
Questi prompt invitano i corpi della danza a un’intensità di presenza e di consapevolezza che ci parla di intelligenze cellulari molto avanzate, capaci di gestire riferimenti molteplici e complessi. La domanda, per esempio, dallo score di Dynamic (E se la mia scelta, quando danzo, di rinunciare alla modalità, e si tratta solo di una modalità, di guardare in una sola direzione o di concentrarmi su un’idea singolarmente coerente, un sentimento, o un oggetto, fosse un modo per notare dove non sono?) ci chiede di mantenere attiva un’azione che contiene ogni altra azione in scena, e che coinvolge una consapevolezza cellulare in cui il corpo è chiamato a “ragionare” raccogliendo una molteplicità di informazioni dall’intero campo energetico e spaziale in ogni singolo momento. E se questo “What if / E se” porta l’esplorazione a un livello che già ci sembra complesso, nello score di Dynamic, di “What if / E se” ce ne sono in totale quattro e i restanti tre non sono certo di complessità minore.
I corpi della danza sono così chiamati a rispondere ai singoli prompt e a sviluppare la capacità di stratificarli, mantenendo contemporaneamente attivi i diversi livelli dell’esplorazione. Ma l’impegno richiesto all’intelligenza cellulare non si ferma qui. La sezione successiva dello stesso score elenca più di dieci consigli per la pratica, da «usa la tua percezione dello spazio per dilatare l’esperienza della danza in ogni momento dato» o «evita lo slow motion a ogni costo», sino a «ricordati di girare your fucking head» o «rimuovi le tue scelte di sequenza dalla sequenza di direzioni di movimento di Dynamic», consigli che delineano con maggior specificità l’identità coreografica e sintattica indagata.

Figure a Sea. 2015. Culberg. Trailer 1’21’’
Deborah Hay su The Match (2004). Culberg. 2019. 59’’
Deborah Hay – Animals on the Beach e 2 solos. Trailer 1’
Nora invites Deborah Hay – Where Home Is. Sadler’s Wells. 2019. Trailer 1’05’’
Dynamic è un esempio dell’alto livello di consapevolezza verso il sé e il mondo, spazio / altri performer / pubblico, che la pratica e la performance di uno score di Deborah Hay richiede, con una qualità di attenzione che per la coreografa è di duplice natura, attiva e contemplativa, e che considera il contributo più importante alla coreografia e alla performance di ogni suo lavoro. È così sin dalle prime parole dello score: «In modo da ottenere il massimo da questo lavoro, vorrete notare e ridirigere il vostro affidarvi al corpo fisico e a ciò che può fare. […] Siete così posizionati per imparare senza pensare». (*p.41)
Deborah Hay in conversation with Nick Baldwin on Figure a Sea and other works. 2016. 34’24’’
An Interview with Deborah Hay – Up Until Now. Toronto Dance Theatre. 2010. 2’57’’
I danzatori che praticano con Hay — scrive Susan Leigh Foster — «devono fare i conti con la ‘perdita catastrofica’ del non fare correttamente un movimento, del non raggiungere qualcosa… devono rilasciare l’assunto della danza come prodotto finito». (**p.164) Le direttive di Hay, che siano domande o prompt/richieste, che i danzatori devono continuamente tenere presenti mentre danzano, scrive ancora Foster, «incoraggiano i danzatori ad aprirsi al processo di riconoscere la danza come un processo creativo del divenire, un divenire che cambia continuamente» (*p.23), «un’esperienza del sé come identità non fissa — scrive Kirsi Monni — che si applica sia al danzatore che alla coreografia come forma in divenire». (*p.67)
Una pratica performativa e coreografica, quella di Deborah Hay, che fa coincidere il processo creativo con quello della formazione e che è approdata in Europa nei primi anni del Duemila in un momento — racconta Monni — in cui la danza contemporanea stava riconoscendo il problema di dover continuare a basarsi sui linguaggi di movimento ereditati dalla tradizione. La sua pratica, in questo contesto, divenne uno degli strumenti disponibili che permise di smantellare «le convenzioni pre-coreografate dei linguaggi generici di movimento» (*p.55), di affrontare la pratica dell’improvvisazione senza cadere in modalità di movimento precostituite, ma che permise, soprattutto, di risolvere la questione della relazione tra tecnica e opera d’arte, facendo coincidere formazione, processo creativo, performance e condivisione coreografica.
Il desiderio di Hay, sia a livello coreografico che pedagogico, è quello di far attraversare, al proprio corpo e ai corpi che le si affidano, mondi e paesaggi non ancora visti e attraversati. Il suo percorso nasce da un livello di insoddisfazione profonda per la danza come reiterazione di codici e sintassi conosciute e per la danza come sistema di separazione tra la formazione, la creazione e la performance. La sua scelta cancella ogni gerarchia di movimento, ricerca l’inesplorato attraverso una coreografia del linguaggio verbale e testuale e rende disponibile ogni giorno — queste le sue parole in conversazione con Trisha Brown — «qualche tipo di danza meravigliosa da praticare, da fare». (*p.121) «Ciò che rimane per i danzatori e poi per il pubblico — si legge nelle note allo score di FIRE — è l’opportunità di vedere ciò che non è stato visto prima». (*p.109)
When my body speaks
things are different
I cross into dance
splicing nothing with everything
Quando il mio corpo parla
le cose cambiano
attraverso la danza
unisco il niente con il tutto
(gratitude, poesia, 2018) (*)
* RE-Perspective Deborah Hay, Susan Leigh Foster ed.
pubblicato in occasione di
RE-Perspective Deborah Hay
Works from 1968 to the Present
August 9-31, 2019
Tanz Im August / 31
** Susan Leigh Foster, Valuing Dance: commodities and gifts in motion.
Oxford University Press, 2019.
Libri di Deborah Hay
Moving Through The Universe in Bare Feet: Ten Circle Dances for Everybody. 1974
Lamb at the Altar: The Story of a Dance. 1994
My Body, The Buddhist. 2000
Using the Sky: A Dance. 2015