FRANCESCA GIULIANI | Tra uno schermo cinematografico immersivo e un ambiente casalingo a tratti soffocante, tra ritmi di rap birmano e incursioni di elementi sonori metallici, tra fantasmi famigliari e spiritelli magici, tra politici corrotti e militari mostruosi si muovono le gesta della Aung San Suu Kyi del Teatro delle Albe, messo in scena all’Hangar durante il festival di Santarcangelo, con la drammaturgia e la regia di Marco Martinelli e l’interpretazione di Ermanna Montanari. Il paesaggio evocato è la Birmania, così lontana dall’Europa ma così fin troppo vicina da potersene dimenticare e da poterla ignorare.
La scena si apre su un presente. È uno degli ultimi interrogatori fatti alla donna premio Nobel per la pace nel 1991. Tre grotteschi militari con maschere scimmiesche iniziano a fare domande senza senso a Ermanna Montanari, perfetta sosia di Aung San Suu-Kyi, seduta a centro palco e illuminata dalla luce inquisitoria di una lampada, senza lasciarle nemmeno la possibilità di rispondere. Da qui si retrocedere a flash back nel passato della donna che è il passato della Birmania stessa. Dalla vita politica all’uccisione del padre nel 1947 per mano dei suoi nemici politici, dal suo andarsene adolescente in Europa per poi rientrare da donna matura, madre e moglie con una carriera di studi storico-politici alle spalle, in patria, ogni passo viene sezionato in questa precisa messa in scena del Teatro delle Albe.
Siamo nella Birmania assediata dai regimi dittatoriali, isolata dal resto del mondo come lo è la stessa vita della donna, rinchiusa per oltre vent’anni all’interno delle quattro mura della sua casa, controllata a vista. Da quest’ambiente, accompagnata unicamente dai suoi libri e dalla sua mite governante, dalle presenze letterarie che spaziano da Brecht al Buddha, dalla sua spiritualità e dai suoi spettri, dai suoi ricordi e dai criminali che la circondano, inizierà ad assediare dal basso il regime testimoniando all’esterno, quando possibile, la tragica realtà che sta invadendo e percuotendo a morte il suo paese. L’esile donna in scena trasuda potenza nelle parole nei gesti e nelle azioni mentre si oppone a quel regime dittatoriale e a quelle figure che lo dominano tramite un sorriso o un semplice sguardo silenzioso, tramite l’incedere incerto di un passo che nell’eleganza della sua fisicità trae conforto e potenza.
La scena è semplice, i cambi d’ambientazione avvengono direttamente davanti agli occhi dello spettatore per mano degli attori (in scena, Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu con l’incursione scenica di Fagio, tecnico del suono delle Albe) che attraversano il palco rompendo la finzione fino all’apice: è il momento in cui Ermanna Montanari si rivolge direttamente alle spettatrici chiedendo un aiuto fisico, un aiuto che è un sostegno di presenza. In platea tutte le donne si alzeranno rispondendo alle richieste dell’attrice, sostenendola in quel suo percorso di democratizzazione del paese. È travolgente questo lavoro, che evidenzia come la forza e l’urgenza delle persone a liberarsi delle oppressioni e delle violenze oltrepassa le proprie necessità personali e nella sofferta lontananza le rafforza, giustificandole con un’azione rivoluzionaria, che è politica e spirituale al tempo stesso.