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domenica, Aprile 28, 2024
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Otello di ritorno dal lazzaretto. Sull’assolo di Gaetano Ventriglia

ANGELA BOZZAOTRA | In forma ibrida, a tratti bipolare, si disegna l’Otello alzati e cammina (2009) inscenato dall’attore e regista Gaetano Ventriglia, definito da Ascanio Celestini “il migliore attore del ventunesimo secolo”, secondo registri vocali e dispositivi performativi di differente tono e altitudine. Un magma di velluto ricopre i gesti e la mimica di Ventriglia, unico attore in scena, accompagnato, sullo sfondo, da una chitarra e da alcuni oggetti, objects trouvés appartenenti in larga parte alla strada, ai marciapiedi – da dimenticarsi polverose scenografie barocche e riproduzioni della Venezia scespiriana. No, non siamo nella Venezia post-bizantina, siamo a Roma, alle Carrozzerie N.O.T. nel 2016, durante l’impero all’apice della decadenza, e la tragedia non è possibile, o meglio, lo è a patto che nessuno si illuda che sia possibile alcuna rappresentazione. No, Ventriglia decisamente non è Otello, né Iago, né Cassio, né Desdemona, nessuno dei nomi ai quali dona parola; nessuna astrazione e nessuna caricatura, solo un attore che decide di uscire dal lazzaretto che è divenuto il teatro, per confrontarsi con febbrile incurante anarchica solitudine con un testo, in un tȇte-à-tête ai limiti dell’irrappresentabile. 

Essere tutti i personaggi, dunque essere nessuno&ognuno; questa è la polifonia a voce sola interpretata toccando locuzioni dialettali, citazioni in inglese dal testo originale, per finirla con una performance canora, alternando apostrofi dirette al pubblico e auto-sbeffeggiamenti; sputi e degustazione live di ricotta (dunque dissacrando la “pasolinifilia” dilagante?), attimi di rabbia e di delicatezza, silenzio, buio&luce. Due le domande principali dalle quali parte la drammaturgia, la prima inerente alla propria identità, il consueto eppure mai abbastanza posto interrogativo sul’identità del soggetto parlante, sulla sua esistenza, sul rapporto tra attore-personaggio-persona. L’identificazione non è quindi tanto tra l’attore e un singolo personaggio, maschera asfittica tendente al mutismo emozionale, ma tra la sua persona e il testo nel suo insieme; testo che viene fatto a pezzi, masticato, ingoiato e sputato proprio sul palcoscenico, come un osso spolpato e gettato ai cani per spolparlo meglio. Un’attitudine alla scarnificazione e alla distruzione, alla quale sussegue una seconda fase, che corrisponde alla seconda domanda, inerente all’attenzione del pubblico. Non risulta infatti possibile rimanere indifferenti a questo Otello, alzati e cammina!; o si ride o si sorride amaramente, o si prova indignazione per il dileggio del testo, o si ammira l’atto poetico che si svolge nel qui e ora della performance attoriale. L’essere-in-scena e la sottile richiesta mascherata da rifiuto per l’attenzione sono i due poli su cui si basa questo mondo di frasi frullate, declamate o sussurrate, bizzarri travestimenti (un velo da sposa, una maschera nel finale) e piccoli oggetti quotidiani, come una banale pila che assume i connotati di un oggetto quasi magico per il rilievo che le viene dato di illuminare il volto.

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Sulla medesima linea di kitèmmùrt, (Amleto atto V scena II) del 2005, dove Ventriglia trattava l’Amleto, la dinamica uomo-donna è l’affare storto che corrode l’identità del singolo, ma nell’Otello vi è un più centellinato uso del playback, e altresì una resa dei personaggi femminili come fragili e innocenti, per inappellabile natura arrecanti danno alle figure maschili, che perdono il senno e la dignità nell’inseguimento di tracce denotanti presunti e/o effettivi tradimenti. In entrambi i lavori la parola onestà e le sue declinazioni aggettivali ritornano ossessivamente, quasi come una litania. Qual è il tormento dell’onesto? Forse quello di fare sempre e comunque una pessima fine? E perché Ofelia deve chiudersi assolutamente in convento e Desdemona ed Emilia devono morire? Non esiste risposta, non siamo né in Danimarca né a Venezia, e non si è consumato nessun delitto; di fatto, solo si è diffuso nell’aria un aroma di irrimediabile desolazione e rabbia, un’atmosfera lirico-pestilenziale da sublimare con leggera auto-dissacrazione e disincanto, dopo aver sconfitto il mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre con una buffonata à la Yorick. O forse è il mostro che ha sconfitto corroso depauperato l’uomo, rendendolo l’ombra di se stesso?

Otello alzati e cammina

di e con Gaetano Ventriglia
luci Thomas Romeo
maschera Isabella Staino

Malasemenza – Armunia – Rialto Santambrogio
in collaborazione con: Teatrofficina rifugio (LI)

Visto a Carrozzerie N.O.T., 6 Maggio 2016, Roma

Atir in Norvegia: Utøya, l’isola del mostro

ELENA SCOLARI | Per chi ha visitato i giardini della Biennale di Venezia la scena di Utøya (a cura di Maria Spazzi), disseminata di tronchi e vetri infranti, ricorda il padiglione dei Paesi Nordici, progettato dall’architetto norvegese Sverre Fehn nel 1958, padiglione nel quale gli alberi già presenti nello spazio scelto per la costruzione sono conservati e inglobati nella struttura.

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In omaggio alla natura nordica le piante interrompono la copertura ed emergono alla ricerca della luce, elemento prezioso alle latitudini scandinave.
Gli alberi inseguono il sole come il popolo norvegese insegue una spiegazione all’insensatezza della strage compiuta da Anders Behring Breivik nel luglio del 2011.
Breivik mette prima un’autobomba a Oslo, come diversivo (e provoca  8 morti e 209 feriti) per poi dirigersi poche ore dopo al suo vero obiettivo: l’isola di Utøya, dove uccide 69 ragazzi e ne ferisce 110. L’atto più violento accaduto in Norvegia dalla Seconda Guerra Mondiale. I ragazzi erano sull’isola per un campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista.

Il testo di Edoardo Erba, e così la regia di Serena Sinigaglia, scelgono di raccontare la tragedia dalla parte di chi vi ha assistito, dalla parte dei norvegesi, increduli, attoniti di fronte a un fatto tanto anomalo per il loro paese. Lo spettacolo non si concentra sul colpevole, lo ignora addirittura, non tenta nemmeno di dare una fisionomia al “mostro”, lo evoca per assenza, delineando in tre coppie di personaggi tre diversi punti di vista su ciò che stava accadendo. Due coniugi distanti tra loro, il cui sentimento si è affievolito e incattivito col tempo hanno la loro figlia al campus sull’isola; un fratello e una sorella (lui ritardato ma dotato di un intuito umano incontaminato) vivono in campagna e si scopriranno vicini di fattoria dell’assassino; due agenti di polizia, lui stolidamente obbediente agli ordini, lei non allineata e tendente ad una sana insubordinazione, vedranno in diretta l’attacco ma il loro – forse – determinante intervento verrà impedito da una strategia intempestiva dettata dai superiori.

Arianna Scommegna e Mattia Fabris sono i bravissimi interpreti delle tre coppie, non appaia ripetitivo se ancora si sottolinea la bravura di questi due attori, in questo spettacolo è determinante per la sensazione che rimarrà all’uscita del teatro. Marito, fratello scemo e poliziotto stronzo, moglie, sorella avveduta e poliziotta coraggiosa sono ruoli incarnati con tratti precisi, ben distinti per movenze, parlate e atteggiamenti, unici elementi di riconoscibilità perché gli attori non cambiano costumi, non ci sono cambi di scenografia a supportarli, solo brevi pause a segnare i segmenti in successione. I due sanno tenere alto il ritmo e costruire una tensione emotiva palpabile che si regge su un testo ben scritto su una capacità attoriale non frequente.
La scelta di non parlare direttamente di Breivik, però, mostra il suo limite quando trascura il movente strettamente politico che l’ha spinto a fare ciò che ha fatto: l’attacco era rivolto contro i laburisti non a caso, ma perché Breivik (simpatizzante dell’estrema destra) voleva fermare i danni della politica laburista, responsabile (a suo avviso, ovviamente) della distruzione della cultura norvegese poiché permetteva, tra le altre cose, l’immigrazione di mussulmani. Si è trattato quindi di un bersaglio scelto in base a un – distorto – ragionamento politico, non di “semplice” follia omicida. Per come invece è presentato nello spettacolo si tende ad appiattire il senso della strage, tenendo il fuoco sull’insopportabile apprensione di due genitori che non riescono a sapere se la figlia è viva o morta, sullo stupore di aver vissuto per anni a pochi metri da un assassino e sull’incapacità di gestire – tatticamente – la risposta ad un gesto criminale totalmente inaspettato. Quale che ne sia stata l’origine.

Drammaturgicamente la coppia meglio riuscita è senz’altro quella dei due coniugi, infatti il marito, professore laburista dedito al suo lavoro e per niente accomodante verso i desideri della moglie, vive un momento di forte crisi legato al suo credo politico, si aggrappa all’ideologia come unica àncora per non crollare, un monologo disperato in cui si sente la spasmodica ricerca di un perno che rinsaldi una vita sull’orlo del disfacimento. Si scoprirà poi che la ragazza non era al raduno, aveva mentito per non dispiacere il padre e si è salvata grazie alla disobbedienza. È molto bello il contrasto tra la delusione per una figlia che non ha creduto a un’idea e il sollievo che questa giovanile superficialità le abbia salvato la vita.

Utøya comincia con la descrizione del “norvegese”: corpo lungo e imponente, ossatura robusta, carattere dolce nonostante il suo aspetto imponente… Solo quando si arriva al pelo lungo capiamo che si tratta delle caratteristiche di un gatto. Leggiamo così il significato di questo equivoco: bisogna imporsi di capire chi abbiamo davanti prima che sferri l’assalto.

Lasciamo ora la chiusura di questa riflessione al videoreportage realizzato da Renzo Francabandera con l’intervista alla regista Serena Sinigaglia la sera della prima milanese presso l’Atir Ringhiera.

 

Utøya
di Edoardo Erba
con la consulenza di Luca Mariani, autore de “Il silenzio sugli innocenti”
scena Maria Spazzi
con Arianna Scommegna e Mattia Fabris
assistente alla regia Sveva Raimondi
regia Serena Sinigaglia
produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana

Peter Brook e l’insensatezza della guerra

battlefieldLAURA NOVELLI | “Tutto era iniziato quando un giovane indiano, durante le prove del nostro spettacolo sul Vietnam, Us, pronunciò per la prima volta la strana parola Mahabharata. L’immagine evocata divenne per me un pensiero assillante. Due eserciti l’uno di fronte all’altro, impazienti di muoversi. Tra i due sta un principe che si chiede: Perché combattere?. E’ nell’illuminante volume autobiografico I fili del tempo. Memorie di una vita (Feltrinelli, 2001) che ritrovo, a distanza di anni dalla prima lettura che ne avevo fatto, la genesi, la scintilla, la suggestione (era il ’66) da cui sarebbe  scaturito uno dei massimi capolavori di Peter Brook. Quel Mahabharata lungo nove ore che nel 1985 rievocò, con un cast internazionale (vi figurava anche Vittorio Mezzogiorno) e un impianto scenico di eloquente nitore, il racconto epico dello straordinario poema indiano in un adattamento firmato dal regista stesso, Jean-Claude Carrière e Marie-Hélène Estienne che, dopo il debutto ad Avignone, venne replicato in numerosi Paesi, raccolse un successo unanime e prese spesso vita in spazi non convenzionali, facendo tappa persino sull’isola Bisentina del lago di Bolsena, dove ebbi la fortuna di vederlo.
Ne rimasi folgorata (e stessa cosa posso dire per i successivi approdi romani di Ta Main dans la Mienne, Giorni felici, Fragments). Ora, a distanza di trent’anni dal suo colossale spettacolo (da cui  venne tratta anche una versione cinematografica di tre ore), Brook torna a quella domanda cruciale: “perché combattere?”. E torna alla grandiosa visione cosmogonico-metafisica del Mahabharata spinto da un’impellente necessità di interrogarsi, e interrogarci, sulla disfatta dell’Umano, sulla desolazione del mondo attuale, sull’insensatezza della guerra e della violenza contemporanee.

Ecco dunque Battlefield, un nuovo lavoro ideato con i collaboratori di sempre che distilla un unico episodio del complesso poema per tradurlo in una puntuale metafora del reale e, insieme, in un manifesto di poesia ed essenzialità scenica davvero encomiabili. Stavolta bastano settanta minuti per raccontare lo sterminio fratricida che annienta la famiglia Baharata: cinque fratelli, i Pandava, combattono contro i loro stessi cugini, i Kaurava, uccidendo i cento figli del re cieco Dhritarashtra e lasciando sul campo di battaglia “dieci milioni di morti”. Yudishtira, nipote del re, ne esce vittorioso e deve salire al trono ma la sua vittoria ha il sapore acre della sconfitta. Nessuno – tantomeno un uomo potente – può gioire di questo esito. Nessuna valida ragione potrà mai giustificare un tale bagno di sangue. I capi dubitano: “avremmo potuto evitare questa guerra?”.

E’ allora un bisogno di vita, di luce, quello di cui ci parla questo lavoro. Tutto però rimanda al tema dominante della morte. Una morte leggera eppure pervasiva. Mitologica eppure concreta. Minimalista eppure universale. Una morte allusa nel rosso sangue che domina la landa terrosa e spoglia (il campo di battaglia del titolo) in cui agiscono e parlano quattro imponenti attori/narratori, i bravissimi Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba e Sean O’Callaghan, chiamati ad interpretare i diversi ruoli dell’opera; a percorrere racconti ora cruenti, ora favolistici, ora spirituali, ora persino comici; a trasformare il dire in un rito semplice, popolare, cristallino.
Abiti estremamente sobri, mantelli dai colori accesi, bastoni in mano, essi, attraversati di continuo dalle belle luci di Philippe Vialatte, sembrano possedere la forza compassata dei griot africani. Il silenzio viene rotto ogni tanto dal tamburo del musicista giapponese Toshi Tsuchitori, l’elemento più “pacatamente” violento, più tumultuoso di questa danza discreta e intima che, nella sua pacifica armonia teatrale, è in realtà un deciso atto politico, un j’accuse saggio e disperato.

Il grande maestro inglese, come sempre e forse più di altre volte, qui scarnifica, asciuga, sottrae, ma in questa estrema sottrazione egli sa cogliere davvero il senso profondo e attuale del Mahabharata e insieme sa ricordarci il senso profondo e attuale del Teatro. Non per niente spetta proprio al tamburo salmodiante di Tsuchitori – quasi una musica tribale e funebre – aprire e chiudere questo intenso Battlefield  che, visto all’Argentina di Roma in presenza di Brook stesso (e so di aver condiviso la mia grande emozione con tanti spettatori che hanno nutrito la loro passione teatrale grazie ai suoi libri e si suoi lavori), sarà nei prossimi giorni a Perugia, Firenze e Modena.

Riprendo in mano I fili del tempo. Rileggo ancora qualche passo. Trovo frasi che suonano profetiche: “Ogni giorno vi sono molti film sorprendenti, commedie, romanzi sugli orrori della guerra; ma a differenza di questi il Mahabharata non è negativo. Ci fa cogliere il significato primo del conflitto. Mostra che i movimenti della storia sono ineluttabili, che le grandi sofferenze e i disastri possono essere inevitabili ma che in ogni fuggevole momento si può aprire una nuova possibilità  e la vita può ancora essere vissuta nella sua pienezza. Questo può aiutarci a capire come vivere, come attraversare l’età più oscura”.

 

BATTLEFIELD
tratto da Il Mahabharata e dall’opera teatrale di Jean-Claude Carrière
adattamento e regia Peter Brook e Marie-Hélène Estienne
con Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba, and Sean O’Callaghan
musicista Toshi Tsuchitori
musiche Toshi Tsuchitori – costumi Oria Puppo – luci Philippe Vialatte
Produzione C.I.C.T. – Théâtre des Bouffes du Nord
adattamento e traduzione a cura di Luca Delgado

“Il tesoro è sul fondo delle onde”. Intervista sui musei con il canonico del ‘700 Bandini

Erik Haglund @ Teatro dell'Elce
Erik Haglund in Angelo Maria Bandini @ Teatro dell’Elce

MATTEO BRIGHENTI | È in camerino, il monologo itinerante nel Museo Bandini di Fiesole è finito, dovrebbe quindi cambiarsi e tornare alla sua vita di tutti i giorni. E invece Erik Haglund è chino su un libriccino dorato, forse il copione di Angelo Maria Bandini, l’aggraziata e dotta performance site-specific scritta da Marco Di Costanzo del Teatro dell’Elce (direttore della sezione Teatro per l’Estate Fiesolana 2016) partendo da fonti bibliografiche e avvalendosi di fatti riscontrati nella ricerca storica. Lo sfoglia con l’indice della mano destra, facendo bene attenzione a tenerlo premuto finché la pagina non sia completamente girata. L’attore è ancora il personaggio, Haglund veste ancora i panni del canonico del Settecento che ci ha guidati alla scoperta della sua collezione di pitture e sculture sulle colline di Firenze.
Non mi lascio quindi sfuggire l’occasione irripetibile di un’intervista con un uomo originale e sorprendente. Tema: quale interesse può suscitare un piccolo museo in un’epoca come la nostra, la società delle immagini, in cui è possibile vedere “le opere di tutti gli artisti di ogne epoca semplicemente vergandone a sfioro il nome”.
Appena mi vede riflesso nello specchio comincia a parlare.

“Gli illustri custodi del museo che, con mio grande onore, porta il nome del canonico Bandini, mi hanno mostrato qualcosa che in nessun modo le mie deduzioni hanno potuto giustificare: trattasi del misterioso e notevolissimo ìpade. Codesto ìpade è una sottile tavoletta: di metallo polito da un lato, lavorato a mo’ di cornice, e di vetro bruno dall’altro. Il lato argenteo presenta una figura di intaccata mela e l’iscrizione “ÌPADE”. Ma è il lato di vetro a nascondere qualcosa che, ancor io che son senza modestia massimamente erudito e illuminato, definirei magica: se solo infatti lo si sfiora, l’ìpade muta il suo naturale color bruno in una moltitudine di immagini che non solo cangiano ripetutamente, ma muovonsi e, lo giuro, si intendono suoni da esse stesse prodotti!”

Si riferisce all’iPad…
“Un erudito di una disciplina inaudita, che dicesi “Informatica”, un giovane dal crine arruffato e di ispida barba, che non era facile creder come sapiente, ha saputo spiegarmi non solo come piccole pile di Volta, cangiando rapide di colore, formino le figure semoventi dell’ìpade, ma mi ha iniziato ai princìpi di detta scienza de la “Informazione, la quale, lo confesso, mi ha rapito il core. Non ho potuto chiuder occhio tutta la notte, rifettendo su algorismi e processatori e, in ispecial modo, sulla Rete”.

La potremmo definire una “collezione di collezioni”. Dovrebbe capirlo bene, visto che lei è stato un importante collezionista. Non è mica da tutti avere un museo a proprio nome!
“Per cinquantadue anni mi dedicai alle mie biblioteche con passione e non nascondo che ciò mi rese bene in danari, grazie a li quali mi tolsi la soddisfazione d’acquistar, di quando in quando, alcuni libri per me stesso, e potei raccogliere una mia collezione di pitture, isculture, ed altri oggetti pregevolissimi, oltre a concedermi qualche bella serata all’osteria di Baccano, che senz’altro le Signorie Loro conosceranno. Dei preziosi oggetti che acquistai, oggi son conservati in questo nostro museo quei che tutti ornavano maravigliosamente la piccola chiesa di Sant’Ansano a Fiesole. Io stesso acquistai quel piccolo oratorio dal Bigallo nell’anno 1795 e vi feci costruire, proprio accanto, la quieta e ritirata dimora della mia vecchiaia, una villetta con giardino immersa nell’aria salubre fiesolana. Le tavole e le isculture oggidì qui riparate io le donai per testamento al Capitolo della Cattedrale di Fiesole affinché le rendesse disponibili ai cittadini tutti, specialmente a quei giovani poco abbienti e desiderosi di dedicarsi al sapere”.

Ritratto di Angelo Maria Bandini, XVIII secolo.
Ritratto di Angelo Maria Bandini, XVIII secolo.

Le fattezze nelle quali la vediamo sono quelle che lei ebbe nel 1756, anno fondamentale della sua esistenza.
“Fui un giovane indeciso, come spesse volte lo sono i giovani: prima m’appassionò il diritto, in seguito l’archeologia, di poi scrissi d’alcune notevoli vite; tentai perfino di far carriera a Roma – ove fui impedito dall’odioso Winkelmann – infine preferii tornare nella nostra Toscana, in Firenze, ove l’eccellente duca Francesco Stefano mi onorò, non ancora trentenne, dell’incarico di bibliotecario della Biblioteca Marucelliana. Pochi anni dopo, proprio nel suddetto 1756, fui finalmente ordinato sacerdote e canonico di San Lorenzo, ma specialmente, così come mi vedono adesso, fui nominato Regio Bibliotecario della illustre Biblioteca Laurenziana. La mia vita cambiò: il canonicato mi procurò una bella rendita e inoltre mi fu assegnata come bibliotecario una buona pensione, cosicché da allora la mia posizione mi consentì di vivere agiatamente. Ero invitato nei migliori salotti, potevo permettermi di ben mangiare, non mi mancavano i piccoli lussi che nobilitano la vita. Ma di tutti l’accadimento principale fu che, come bibliotecario, divenni cittadino di quello stato ideale che riunisce le menti più alte et erudite del mondo civile: la Repubblica delle Lettere”.

Ciononostante, mi sembra turbato, canonico Bandini. Qualcosa non va? Le fa male ricordare il tempo passato?
“Per colui che, come me, dedicò la vita alle lettere e specialmente a farne un catalogo, le Signorie Loro comprenderanno come la scoperta dell’ìpade e della Rete sia stata di grande turbamento. Il giovane erudito in scienza de la “Informazione” mi illustrò con alcuni esperimenti come si possa catalogare e specialmente ricercare in codesta Loro epoca del terzo millennio. Conviene far comparire sull’ìpade come un impalpabile torchio che presenta tutte le lettere dell’alfabeto e altri segni tipografici. Ecco che sfiorando l’ìpade in corrispondenza di tali segni, è possibile vergare senza sforzo qualsivoglia parola. La parola vergata compare in altro punto dell’ìpade, che di poi, essendo collegato con appositi fluidi alla mondiale Rete, avvia a cercare non in un solo catalogo, ma nel catalogo universale! Crederanno che ero sconvolto. Volli subito provare e vergai Angelo Maria Bandini”.

Mi sta dicendo che per prima cosa ha googlato il suo nome?
“Non avevo finito di vergare la “i”, che già l’ìpade mostrava il mio ritratto ultimo e centoquindicimila voci in consultazione! E senza chiedere alcuna mancia, cosa che ai miei tempi era civile costume dare ai bibliotecari. Fui preso da incontrollabile eccitazione. Di poi vergai Giotto. Tutte le opere del maestro comparvero pronte ad esser ammirate. Oltre a dodici milioni e quattrocentomila voci da consultare. Fui preso da tal capogiro che mi pareva d’avere la febbre quartana. Vergai Michelangelo. Trentotto milioni e seicento mila voci. Tremavo. Allora vergai Dio”.

Cosa ha trovato?
“Trecentoventotto milioni di voci. Ciò mi raffreddò non poco, dacché me ne aspettavo infinite. Così, senza bisogno di erbe o salassi, tornai finalmente a uno stato di quiete. Conservo tuttavia il dubbio di come le Signorie Loro possano interessarsi alla mia piccola collezione, potendo Loro palesare nell’ìpade le opere di tutti gli artisti di ogne epoca semplicemente vergandone a sfioro il nome”.

Secondo me è un “dubbio retorico”: lei ha la risposta. Altrimenti non saremmo qui, in un museo, il suo, per giunta, dove ha appena finto di guidare decine di visitatori.
“Posare lo sguardo su una vera pittura, sulla sua materia, poterla toccare, immaginare il lavoro lungo e prezioso del suo artefice, intuire il mondo storico et interiore che lo guidò nella sua creazione, non è forse nutrimento dell’anima? Anche una sola, piccola tavola… ammirata con calma, più volte, nel dettaglio, studiata, compresa… ecco, non temono le Signorie Loro di perdersi, in codesto oceano di immagini della Loro epoca del terzo millennio? Non temono di restar divertiti, incantati dagli sbuffi dell’onde? Poiché è sul fondo che si trova il tesoro”.


Angelo Maria Bandini

performance site-specific per il Museo Bandini di Fiesole
di Marco Di Costanzo
con Erik Haglund
produzione Teatro dell’Elce
in collaborazione con Teatro Solare
con il sostegno di Regione Toscana, Unione di Comuni Fiesole-Vaglia
Vista domenica 1 maggio 2016.

Romeo e Giulietta: De Nitto e il dramma d’adolescenza in paese

RENZO FRANCABANDERA | In che modo è possibile far rivivere la parola di Shakespeare oggi? Nell’anniversario del quattrocento anni dalla sua scomparsa la parola del bardo rimane comunque una pietra di paragone un passaggio necessario per chiunque voglia fare esperienza di regia oggi. Ed è per questo che da alcuni anni Tonio de Nitto regista e giovane pensatore della scena di origini salentine ha scelto alcuni dei più celebri lavori del maestro per elaborare il suo pensiero sul teatro. Se ne deriva un’operazione che come tutte quelle della specie profuma di devozione e tradimento, con la partenza da una riscrittura in prima dell’intera opera a cura di Francesco Niccolini, in una versione capace di mantenere una sua integrità politica e semantica, E quindi adatta ad ospitare, come un nido, la covata di De Nitto.

RomeoGiulietta-21.jpgParliamo di un’operazione che ha già quattro anni ma che solo ultimamente ha trovato forze economiche e legami per circuitare a livello nazionale, con la possibilità di proporsi al pubblico milanese nella stagione del Tieffe Menotti.

Lo spettacolo inizia già fuori dalla sala e non di rado il movimento scenico invade la platea, specificando i contorni di una concezione di abbattimento della distanza fra pubblico e scena che il regista intende perseguire. Sul palco va in scena una sagra di paese, con tanto di luminarie da festa del santo patrono, di quelle che da Roma in giù fanno già ambiente, evento, storia e antropologia del consesso sociale.

Mentre fuori sala, all’ingresso, Chiarello in abiti di scena distribuisce dei santini elettorali per la parte politica dei blu, appena in sala siamo immersi nella sagra paesana e nulla guasta, in realtà, perché abiti e costumi di scena a parte che nei mille e mille allestimenti hanno vestito questi storici personaggi del teatro di sempre, quella Verona del 1600 o giù di lì era un paesone, le famiglie che si contrastavano erano simili a quelle delle faide di paese nel sud Italia, e gli accenti ironici, lo scontro fra bande, il rapporto con l’autorità sono temi che hanno ambientazione opportuna, nell’involucro di luminarie pensato da Roberta Dori Puddu per De Nitto.

La cifra del piccolo borgo chiuso su se stesso intona precipuamente, se non in modo totale, il codice recitativo della squadra di attori coinvolti: Lea Barletti, Dario Cadei, Ippolito Chiarello, Angela De Gaetano, Filippo Paolasini, Luca Pastore, Fabio Tinella. Parliamo di esponenti di alcune delle formazioni attorali fra le più radicate nel territorio salentino, da Nasca Teatri di Terra con Ippolito Chiarello nei ruoli del padre di Giulietta e dello Speziale, a Principio Attivo Teatro con Dario Cadei nei ruoli della Balia e del Principe di Verona (super partes sui trampoli), fino a Induma Teatro con Lea Barletti nel doppio ruolo anche lei della madre di Giulietta e del padre di Romeo. L’attenzione della regia è volta a focalizzarsi sulle problematiche relazionali all’interno del nucleo familiare, sulla diversità di aspettative fra genitori e figli, che qui porta alla tragedia assoluta.

Le cose interessanti: sicuramente l’attenzione al microcosmo dei giovani, al dramma adolescente, che viene incorniciato, nella sua bella lettura complessiva, in un finale poetico, da processione popolare e molto ben riuscito dal punto di vista del movimento scenico, con Giulietta sacrificata che resta martire dentro le luminarie che piano piano si spengono in modo suggestivo; funziona anche la cifra pop che in generale anima l’allestimento che, pur pretendendo di mantenere filologia e rima, rimanda anche ad alcune caratterizzazioni caratteriali mutuate da Il ballo di Irène Némirovsky.  Quella della scrittrice francese è una vicenda che per contesto anagrafico e relazione con l’universo genitoriale sfuma fra quella di Romeo e Giulietta e quella di una Cenerentola vendicativa, che pur incapace di cambiare il proprio destino, decide comunque di compiere un atto di ribellione.

Forse qualcosa in più nei prossimi allestimenti è lecito aspettarsi sia sulle originalità del commento sonoro che su alcune spigolature attorali che rimangono un poco troppo carattere, impedendo in alcuni tratti della recita di abbracciare completamente la parte più poetica e profonda dello spazio tragico.

 

ROMEO E GIULIETTA

traduzione e adattamento di Francesco Niccolini

scene di Roberta Dori Puddu

realizzazione scene L.C.D.C. luminarie Cesario De Cagna

costumi di Lapi Lou

luci di Davide Arsenio

assistente alla regia Paola Leone

regia di Tonio De Nitto

produzione Factory Compagnia Transadriatica in collaborazione con Terrammare Teatro, Teatri Abitati

Sin Aire: sospesi fra la vita e la morte

ESTER FORMATO | Lo spettacolo “Sin Aire” a cura di Silvana Pirone e Luigi Imperato appare immediatamente frutto, probabilmente da noi colto ancora nel bel mezzo del suo evolversi, di un processo creativo che conduce i tre giovani interpreti ad una costruzione sinergica delle loro voci e dei loro corpi.
Questo lavoro prodotto dal Nostos di Aversa esprime, dunque, un percorso verosimilmente interiore che gli attori mostrano a chi è in sala. Si tratta non tanto di una vera e propria narrazione – e difatti l’azione che ne risulta è posposta alla conclusione e svela così la storia – piuttosto “Sin Aire” appare come una rappresentazione emotiva, una ricreazione di un luogo fortemente simbolico che diviene inquietante giardino di anime perse fra la vita e la morte, strette poi da un fatale nodo d’amore.

Al centro del piccolo palcoscenico della sala aversana, vi è in alto una piramide rovesciata dalla quale granelli di sabbia scendono sul pavimento, un’enorme clessidra che scandisce non un tempo ordinario, quanto uno d’apnea, fluido e al contempo immobile, smarrito in questo oscuro luogo che né luce e né ossigeno attraversano. Solo il fruscìo di una veste, paragonato a quello delle foglie morte sul manto erboso, pare l’unico suono abilitato ad echeggiarvi. Una fanciulla, priva di vista, è l’anima vagante che si rinviene in questa “foresta dei suicidi” che si sdoppia in un’immagine altra di sé in cui riconoscersi (“lei sono io, io sono lei”), effetto- specchio che le due attrici Sara Scarpati e Maria Teresa Vargas riescono a rendere attraverso la sinergia dei loro corpi; la danza si rivela non orpello, ma veicolo essenziale di questo spettacolo e forse, più della parola, ne trasmette il senso.
Immaginando genesi e processo di creazione di “Sin Aire” siamo portati a trascendere dalla stessa drammaturgia che quasi informe rimanda allo spettatore brandelli di stati dell’anima, dalla colpa alla violenza, dall’amore al dolore di non poter vedere (“Bisogna vedere per amare”). Perlopiù il lavoro del Nostos sperimenta la compartecipazione dei sensi e coinvolge con il linguaggio del corpo; il buio dell’assito illuminato solo da una fioca luce, i suoni che disseminano nell’udito fruscii di entità umane, riprese nel loro passaggio dalla vita alla morte, una sorta di limbo nel quale l’amore si trasforma in sacrificio, l’altare sponsale in quello d’immolazione, l’innocenza e la gratuità di uno sguardo cieco in colpa, e la pena di chi è amato senza quella luce che promana dagli stessi occhi che lo cercano, in tragico epilogo.
L’impressione che lascia uno spettacolo come “Sin Aire” è quello di un percorso in divenire (le cui radici provengono da precedenti lavori della Pirone) verso un’identità artistica, un iter che la giovane compagnia porta alla luce su di un palco. La cecità, il buio fisico e dell’anima divengono quindi una condizione creativa entro la quale interiorizzare i linguaggi del teatro e con essi sperimentarsi attraverso l’immediatezza del corpo ed una poetica che rifugge da precisa struttura drammaturgica.

SIN AIRE
una produzione NOSTOS TEATRO
ideazione e regia SILVANA PIRONE
con GIOVANNI GRANATINA, SARA SCARPATI, MARIA TERESA VARGAS
drammaturgia LUIGI IMPERATO e SILVANA PIRONE
disegno luci PACO SUMMONTE
selezione musicale DAVIDE GIACOBBE
scenografia MONICA COSTIGLIOLA
ANGELO DE TOMMASO costumi : GINA OLIVA
supervisione ai movimenti di scena DIMITRI TETTA
supporto tecnico LUIGI VUOLO

La Storia è un cupio dissolvi nei Colloqui di Elena Bucci

ANGELA BOZZAOTRA | Il Teatro di Roma programma in stagione una serie di opere teatrali ispirate al tema della guerra, per la maggior parte in scena al Teatro India, tra le quali è inserito la “drammaturgia in musica” di e con Elena Bucci Colloqui con la cattiva dea – piccole storie dalla grande guerra. Poiché risulta sterile una critica che non contempli il luogo di riferimento dove si allestisce un’opera teatrale è opportuna una premessa. Cos’è diventato il Teatro India, questo luogo che Mario Martone aveva tra mille difficoltà adibito a spazio di ricerca, dove si tenevano i laboratori dell’Odin Teatret e dove si tentava di rinnovare la scena teatrale romana, che doveva rintanarsi in spazi quali il Rialto Sant’Ambrogio e l’Angelo Mai? Perché al Teatro India non c’è pubblico e soprattutto non ci sono giovani? Lo spazio si presenta arido, per bere qualcosa bisogna rivolgersi alle macchinette, non un evento collaterale, non una strategia costruttiva per fidelizzare lo spettatore, abbandonato a un uso e consumo sterile del prodotto artistico. Non sorprende, dunque, la semi-totale assenza di calore e adunanza al cospetto della prima di Colloqui con la cattiva dea di Elena Bucci (che qualcuno paragona a Eleonora Duse per l’immensa bravura e presenza scenica), allieva e proselite del geniale Leo de Berardinis. Così si snoda l’ennesimo spettacolo da commemorare, da mettere in una teca, dove la vitalità è lontana anni luce, e il meccanismo di azione-sguardo è una cupio dissolvi, arginata nel suo impietoso accadere dalla figura stessa dell’attrice, la quale con il proprio spirito e la propria carne riesce dar vita a quello zombie senza battito che è il palcoscenico di un teatro stabile in decadenza.

Perimetrando lo spazio scenico, tra sagomature, veli neri e gestualità ritualistica, la Bucci incarna esattamente ciò che narra, muta identità voce postura, prova a colloquiare con la “cattiva dea”, la guerra, figurandosi ogni protagonista e deuteragonista del dramma reale della storia. Il disertore, il poeta, il soldato semplice, la mignotta, persino le bestie da soma, i neo-nati già morti, il partigiano, l’anarchico. Accompagnata dalla fisarmonica  di Simone Zanchini che vuol essere una macchina da guerra anch’essa, l’attrice diviene una dea guerriera a colloquio con un’altra, e per un istante copre ogni disappunto: la decadenza del Teatro India, le ingiustizie della sala non pienissima al cospetto di una grande attrice in quanto si sceglie una modalità di programmazione che la esalta poco, svanisce anche il senso di perdita di figure quali de Berardinis, con una direzione chiara in mente, che non si lasciavano mercificare o impoverire moralmente dall’andazzo oscurantista e commerciale che questo paese aveva preso negli anni Novanta.

colloquiconlacattivasito.jpgSvanisce il pensiero, e resta lo sguardo magneticamente attratto da un corpo che si muove e si pone talvolta come quello del suo Maestro, con un controllo superbo di vocalità e gesto; le parole si librano in tal modo dalla coltre di polvere e oblio che le seppellisce e risorgono, spade nel ventre sfoderate a ribadire che lasciare tracce è quasi un’ossessione dei sopravvissuti, per non dimenticare, per ricordare, ri-portare al cuore, dalle vicende ufficiali al “fango sangue e merda” triade artaudiana ritrovata nelle scritture che sono rimaste alla storia edulcorata in cifre statistiche. La tessitura drammaturgica dei Colloqui è frutto di una mole immensa di lavoro di ricerca effettuato dall’attrice e autrice; uno scavare incessante in archivi, diari, pubblicazioni dei reduci di guerra, assieme a una riflessione attenta sull’epoca storica di riferimento, traumaticamente segnata dal passaggio tra Belle Époque e genocidio.

“Qui moriremo, vedrai, e non ho ancora capito per quale patria”, e non c’è bisogno di una guerra (nonostante lo stato attuale delle cose sia questo, basti vedere il plotone di militari concentrato in ogni stazione ferroviaria e metropolitana di Roma), basta un vuoto, un battito di ciglia, e il velo che nasconde la dea cade, gettando via la sua “maschera di bonomia” [Junger] e rivelando un buco nero spazio-temporale, nel quale la prima Guerra Mondiale si ri-attualizza nella sua brutalità attraverso il potere del racconto.

 

Colloqui con la cattiva dea – piccole storie dalla Grande Guerra
una drammaturgia in musica di e con Elena Bucci

musiche originali alla fisarmonica di Simone Zanchini
luci di Loredana Oddone
cura, registrazione e ricerca dei suoni di Raffaele Bassetti
collaborazione ai costumi Marta Benini
cura Nicoletta Fabbri
Produzione Le Belle Bandiere e Ravenna Festival 2014
con il sostegno di Regione Emilia Romagna, Comune di Russi

Visto al Teatro India di Roma il 3 Maggio 2016

 

Il Niño di Caspanello, simbolo di una salvezza negata

Nino3BENEDETTA BARTOLINI | A teatro esiste solo un tempo, il presente di ciò che accade davanti a noi. Così la parola, anche quella che ci parla di eventi passati, nel suo farsi presente sulla scena, viene liberata, espressa, redenta. La redenzione è stata la necessità che ha condotto Tino Caspanello a portare in scena Niño, la storia segreta e taciuta di una donna emigrante, di cui si è fatta interprete Cinzia Muscolino il 2 maggio per il Teatro Cerca Casa. Lo spettacolo si origina da una storia vera avvenuta negli anni ’50, ma conosciuta, per caso, dalla famiglia Caspanello soltanto a distanza di molti anni.

Protagonista di Niño è una donna che ci racconta la sua storia attraverso una sorta di monologo onirico, un viaggio che ripercorre e rivive come se fosse la prima volta, non solo perché esso ha cambiato per sempre la sua vita, ma soprattutto perché è rimasto soffocato nel silenzio del suo pudore. La vicenda ha inizio nel dopoguerra italiano, in una famiglia della media borghesia contadina in cui, nonostante il contesto storico, si conduce una vita abbastanza agiata e serena, vissuta tra l’amato giardino di limoni e la vocazione della donna per l’insegnamento ai bambini di strada. La protagonista si ritrova, per volontà del padre, sposa per procura di un uomo del suo paese emigrato in Argentina e visto soltanto una volta.

Il viaggio in nave è rappresentato sulla scena dal salire in piedi sulla sedia blu, una sedia da cui, per tutta la durata dello spettacolo, l’attrice non scenderà mai. È questa l’immagine di un momentaneo ma lungo purgatorio tra il paradiso lasciato e l’inferno che sta per raggiungere. Al termine di esso, infatti, le arriva tra le braccia da una sconosciuta un fagotto bianco, che a prima vista la donna scambia per un fazzoletto da sventolare al suo uomo che l’aspetta. Ma in quel fagotto è custodito qualcosa di pesante e da esso arrivano degli strani suoni, vagiti, poi un pianto. La donna si ritrova tra le braccia un bambino senza nome e il suo destino cambia per sempre. Il marito che dovrebbe accoglierla, credendo che il bambino sia suo, usa l’avvenimento come alibi per sfogare la sua violenza, psicologica e fisica, e la costringe ad abbandonare il piccolo innocente.

La scrittura di Caspanello è puntellata di metafore e la liricità delle parole viene equilibrata da tempi teatrali lenti e misurati. Le pause, che sono in fondo il recupero di una poetica geografica, legata al mondo siciliano e ai suoi tempi, sono una cifra della sua scrittura, di cui più volte ha fatto uso nei suoi testi. La scelta dell’italiano, e non del dialetto siciliano, è motivata dall’autore nel dibattito post spettacolo, dal non voler sottolineare la regionalità della storia, ma la sua universalità. Anche per questo, forse, nessuno ha un nome in questa vicenda, poiché il nome rappresenta un particolare superfluo rispetto al dramma personale della donna e all’impossibilità di aver conosciuto l’identità di quel bambino innocente tenuto, anche solo per poco, tra le braccia.

Cinzia Muscolino, sola sulla scena, riesce a catturare l’attenzione del pubblico soprattutto nella seconda parte dello spettacolo in cui sfrutta maggiormente i due oggetti presenti nella stanza: la sedia che diventa la nave su cui sogna l’approdo ad una nuova vita, e il suo vestito da sposa che diventa il fagotto in cui è avvolto il niño abbandonato. Bianco è anche il colore che rappresenta la purezza, sua e quella del niño, che presto verrà violata. La Muscolino con un’interpretazione dalla mimica trasognante restituisce tutte le diverse emozioni che il personaggio prova durante il ripercorrere un viaggio che dalla speranza la conduce alla rassegnazione di una vita, in quell’inferno del quale tacerà per sempre. Gli occhi lucidi dell’attrice, sul finale dello spettacolo, sono sia occhi sognanti di attesa e speranza, sia occhi nostalgici del ricordo di casa, sia occhi commossi di dolore per senso di colpa.

Niño comincia come sogno e termina come incubo. Gli eventi travolgono la vita della donna, le cui speranze vengono rimpiazzate da un senso di colpa a cui non può trovare consolazione. Nel presente la protagonista compie sempre gli stessi gesti accompagnati sempre dalle stesse parole: insegna il ricamo, che dev’essere preciso e pulito come la vita che le è stata negata, e legge parole in spagnolo senza riuscire a ricordare quella per lei più importante. Lo spettacolo si chiude com’era cominciato: con l’impossibilità, da parte della donna, di ricordare come si pronuncia la parola “bambino” in spagnolo, niño, che fa riecheggiare nella mente degli astanti il titolo del racconto scenico e accende improvvisamente le luci sull’interlocutore taciuto. Caspanello non ha potuto che liberare così l’animo di questa donna, con la verità della sua storia e l’immagine del suo presente inevitabilmente segnato.

Niño

di Tino Caspanello
con Cinzia Muscolino
regia Tino Caspanello

 

Archivio Zeta, l’uomo e il teatro

Edipo re @ Franco Guardascione
Edipo re @ Franco Guardascione

MATTEO BRIGHENTI | La storia di Archivio Zeta è legata al Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa, nell’Appennino tosco-emiliano, come lo sono le parole alla punteggiatura. Dal 2003 del più grande sacrario di vittime tedesche della Seconda Guerra Mondiale hanno fatto prima una “agorà tragica” e poi, recentemente, un “teatro di marte” con Gli ultimi giorni dell’umanità – macerie e frammenti dalla muraglia di Karl Kraus. Gli ampi luoghi aperti si addicono a Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, come confermano anche le creazioni per VolterraTeatro La Ferita/Logos-Rapsodia per Volterra e Pilade/Pasolini, quest’ultima replicata in forma di maratona anche nella città di Bologna.
Per questo il “Dittico sull’essere umano” proposto da Elsinor alla Limonaia di Villa Strozzi e al Teatro Cantiere Florida (dal 27 al 30 aprile scorsi) ci è parso oltremodo importante, nel merito più generale di averli riportati a Firenze, da cui mancavano almeno da dicembre 2000: ci ha permesso di osservare come la compagnia riesca a declinare la sua acquisita spazialità dentro il rettangolo del palcoscenico, cioè di considerare come un teatro che ha espanso i confini del suo accadere, facendo di necessità una scelta, possa restringersi entro le pareti di una sala. Renzo Francabandera ha recensito per PAC entrambi gli spettacoli: al suo sguardo rimandiamo per il racconto e l’analisi dei due spettacoli presentati, L’uomo e le cose ed Edipo re.
Guidotti e Sangiovanni parlano a passo di marcia: tutto quello che dicono deve essere compreso, ogni singolo fiato è essenziale per far correre la frase dritta e spedita come un proiettile dal ragionamento al senso. Le parole sono calce, ampliano lo spazio d’azione, ne forzano il raggio a descrivere il tragitto del pensiero, rivelato prima a sé e poi agli altri. E come le maschere Nō hanno una funzione mediatrice, servono a richiamare entità superiori e a costruire un punto di incontro tra il mito e la storia, in un procedere a ritroso, dagli effetti alle cause, dalle conseguenze all’origine. Tiresia è cieco, il copione invece è muto: se per profetare bisogna trovare la luce dentro i propri occhi, per Archivio Zeta per recitare bisogna dare voce ai propri silenzi.
In scena, infatti, i due hanno una fermezza ieratica, quasi statuaria. I movimenti sono estremamente stilizzati e ridotti all’essenziale. Le braccia e le gambe disegnano distanze e profondità che vanno a ricomporsi quando si ritrovano, e capita spesso, di fronte, su una scacchiera di potere e fede, notte e sangue. È un teatro questo della riflessione, rinuncia all’interpretazione in favore della dimostrazione di una tesi, cui segue sempre un’antitesi, in una spirale che puntella la partitura attorale e si avvita fino alla fine, ovvero finché una non prevarica sull’altra.

L’uomo e le cose @ Franco Guardascione

Potrebbe venire un terremoto e sarebbero ancora là, perché partecipano di qualcosa (rito, energia, comunità) che è prima di loro e continuerà anche dopo. Violenza e precisione, il passaggio dall’ordinario al sorprendente non è ghiribizzo, ma espressione risolta. Nel loro mondo c’è più maestà e passione, intensità, visione, che tenerezza. Non (si) commuovono, vedono, ricordano, meditano, sparano e colpiscono il segno, come quel fucile di cui scriveva Emily Dickinson: “la mia vita era rimasta – un fucile carico – negli angoli – finché un giorno il proprietario passò – identificò – e mi porto con sé”.
Gli spettatori, il coro/città, rimangono al buio: ormai abbiamo cessato di vedere e la vita è sempre più un’emergenza, un’incognita piena di trabocchetti, tesi dal denaro, dal potere, dalla sopraffazione. Così, Archivio Zeta ci sottopone a una critica poetica, ironica, talvolta risentita, la doppiezza degli dei (chiunque essi siano, il mercato, le ideologie, le paure) nel creare il cattivo e poi punirlo non cessa di suscitare la loro protesta. Vivono la crisi delle relazioni, del rispetto, della speranza, una crisi che però non si placa nell’adesione o nel rifiuto definitivo.
Il loro teatro, allora, è sospeso, c’è il sogno di un momento risolutivo, di riconciliazione e riunione, c’è la consapevolezza delle lacune degli insegnamenti tradizionali e dell’imprescindibilità del dolore odierno, c’è anche il suggerimento che, comunque, la scena decisiva dell’uomo è solo e sempre nel presente della sua esistenza, fuori dal tempo tanto quanto è nel tempo.
L’artista sente e vede per tutti, dal suo punto di vista defilato eppure centrale. Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, più antichi degli antichi e più moderni dei moderni, colgono l’umanità sul nascere, in tutta la sua ambiguità, complessità e rara felicità. Tutto sta nell’incorniciare il flusso della realtà per fissarlo liricamente e rivelarne il segreto ossia che “il male è troppo forte per poterlo sopportare”.
La parola in scena è tutt’uno con quel segreto. Il destino di Edipo è scritto nel bastone di Tiresia, legno nodoso di cui sono fatte anche le assi del palcoscenico. Incontrarci serve a farci capire che siamo meno soli e diversi di quanto crediamo.

Per approndire, leggi anche:
Manuela Margagliotta, “La ricerca senza fine: Dittico sull’essere umano di Archivio Zeta”, su [paper street].

Conversazione con Daniele Albanese: il ciclo di trasformazione e l’arte

FRANCESCA GIULIANI | In occasione della residenza creativa per la produzione del nuovo spettacolo abbiamo incontrato il coreografo e danzatore Daniele Albanese – Compagnia Stalker, al teatro Petrella di Longiano. Random Title Goes Here (Selachimorpha 04) /Assolo è il titolo provvisorio del progetto che ha vinto – insieme ad Artificious (non qui non ora) del performer albanese Glen Caci – “Vorrei fare con te quello che la primavera fa con i ciliegi”, un progetto condiviso da Teatro Petrella di Longiano e L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, con l’obiettivo di favorire la produzione di nuove opere contemporanee nell’ambito della danza d’autore.

Come è nato e su cosa riflette Selachimorpha, il progetto che è stato selezionato per questa residenza? C’era una produzione da tempo fissata per un festival e un centro coreografico francese ad Avignone, “Les Hivernales”. A questa produzione si sono aggiunti altri partner tra i quali la regione, il tavolo regionale della danza e Torino Danza. Ho iniziato il progetto con una residenza a Bruxelles a novembre 2015 alla quale è seguita la seconda alla Lavanderia a Vapore 3.0 di Torino in febbraio-marzo e questa a Longiano è la terza. Il debutto è previsto nel febbraio 2017 ad Avignone. Il lavoro è già a uno stadio avanzato. Ha già delle strutture: un duo con Marta Ciappina e Giulio Petrucci, un mio solo e un progetto collaterale con la mia assistente Virginia Canali che, a lato, farà un suo solo. La tematica principale sulla quale stiamo lavorando stumblr_inline_o5u65cwn8h1rhquk2_500ono le forze. È un ambito vasto ma cerchiamo di essere molto concreti. Per fare degli esempi dal mondo naturale: c’è il vento che muove qualcosa attraverso una forza invisibile; ci sono i magneti, l’attrazione e la repulsione dei campi magnetici. Ci interessa capire come funzionano le forze sui corpi: riflettiamo sia sulla dinamica sia sulla trasformazione. Da una parte c’è la ciclicità, il gioco sulle forze, la ripetizione; dall’altra la trasformazione, la mutazione del corpo, dello stato psicofisico.

Come lavori alla scrittura coreografica? Parti dalle forze che lavorano sul corpo per creare delle forme o al contrario parti dall’immaginario di forme per costruire il movimento? Come fissare i materiali è per me una tematica centrale. C’è il metodo classico in cui fissi il movimento A, B, C e li leghi nella sequenza. È quello che fai nella lezione di danza, lo faccio anch’io quando insegno perché è utilissimo ma è un po’ limitante. Il movimento non sarà mai uguale, anche se attraversiamo la strada allo stesso modo non faremo mai un gesto uguale all’altro. Mi interessa capire come si può fissare una cosa che cambia sempre. Ci sono tanti sistemi. Si può lavorare sulle direzioni, le sensazioni e cercare di ricordarle ed è una cosa che ho fatto per tanto tempo. Un altro sistema, che ho usato anche nell’insegnamento, è quello di immaginare dei percorsi “energetici” – parola abusata che cerco di non usare troppo: immaginiamo delle forze invisibili nello spazio e il corpo le segue. Non è importante la scrittura fisica. Ripetendo l’azione, si fissa una sequenza di movimento partendo dall’esterno, visualizzando altro. Di recente, in questo lavoro e soprattutto nel duo, mi sono chiesto se ci siano delle forme che servono a far aumentare l’intensità e a far circolare le forze per permettergli di creare il ciclo di trasformazione che ci interessa. Allora stiamo lavorando su alcune forme particolari come il cerchio, o la combinazione di due cerchi. È una doppia lettura dall’interno e dall’esterno.

Lo spazio, la musica e la danza: come avviene il confronto creativo? Il movimento è lo spazio. Il cambiamento dello spazio influenza il comportamento del corpo. Il suono è molto importante perché crea paesaggi completamente differenti. In questa residenza la relazione suono-corpo è stata centrale e l’incontro con il musicista Luca Nasciuti ne è stato il tema. Avevamo intuito di avere dei sistemi di pensiero molto simili e qui abbiamo avuto una conferma. Entrambi lavoriamo su piani differenti che cerchiamo di far intersecare o sincronizzare e ci interessa molto il passaggio da un piano all’altro. Io lo faccio a livello fisico, a livello di direzioni, di sensazioni a cui cerco di accedere, di pensieri sullo spazio, lui lo fa a livello sonoro e le due cose sono in stretta comunicazione. La cosa interessante è che c’è un pensiero di composizione simile.

Selachimorpha è il titolo di questa residenza e si rifà all’immagine dello squalo che rimanda all’idea di forza predatoria del movimento. Questo immaginario può essere una metafora per leggere il mondo artistico o in generale il mondo contemporaneo? Questo era l’incipit del progetto. Sicuramente il titolo non sarà più questo ma cambierà. Selachimorpha più che titolo provvisorio è un’idea un po’ generale per racchiudere tutta una serie di ricerche e di eventi tra i quali una rassegna di danza che inizierà tra poco a Parma e che sto curando con Europa Teatro. Selachimorpha è anche il titolo di questa rassegna di danza perché può essere appunto un tema, una metafora della danza e del movimento nel mondo di oggi. È il volersi riappropriare di uno spazio di espressione. La danza contemporanea in Italia è sempre stata una delle ultime arti a differenza di altre nazioni; questa metafora potrebbe servire per illuminare un’altra visione, un’altra possibilità, una presa di spazio del movimento e di quest’arte.

Come vedi la situazione della danza d’autore nel nostro paese rispetto a quando hai iniziato e rispetto all’estero? Si avverte una diversità da dieci anni a questa parte. Il cambiamento del panorama della danza è indubbio. Ci sono degli ottimi coreografi, degli ottimi programmatori e degli ottimi spazi. Dieci anni fa probabilmente non era così. Sta cambiando la cultura generale. È ovvio che siamo indietro, soprattutto economicamente. Non si può fare un discorso culturale senza fare un discorso economico. C’è ancora una grandissima discrepanza. Le residenze pagate in Italia stanno iniziando ora, con l’art. 45, all’estero era la base. Essere in residenza non è solo avere a disposizione uno spazio ma significa avere la diaria: questo è un grosso cambiamento. Poi ci sono differenze di base come ad esempio il valore economico di un assolo: a Berlino viene pagato, come minimo, 40 mila euro. In Italia con 11 mila euro viene pagato un trio. Il problema è che tu sarai sul mercato, nel resto del mondo, con questa differenza e la tua responsabilità artistica non sarà valutata considerando lo scarso contributo italiano ala creazione. Quello che manca in Italia è anche un senso di comunità tra gli artisti e i programmatori. Manca un senso di appartenenza a un movimento. Con tutte le differenze possibili, le reazioni di altre compagnie a un lavoro possono essere feconde quando c’è il senso di essere alla ricerca di qualcosa di comune. Invece spesso ci sono delle differenze, delle guerre. L’Italia è fatta di campi isolati, è difficile fare sistema; e questo in generale è una caratteristica del nostro paese in arte, in politica.