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lunedì, Maggio 13, 2024
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Per un teatro “popolare”: Lanera rilegge Pasolini

FRANCESCA GIULIANI | In occasione della prova aperta a L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino abbiamo incontrato Licia Lanera / Fibre Parallele. Dai 10 anni della compagnia all’adattamento drammaturgico di Orgia che debutta domani al Festival delle Colline Torinesi, l’artista barese ci ha accompagnato nel percorso che l’ha portata alla messa in scena del testo che Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1966.

Da Mangiami l’anima e poi sputala a La Beatitudine quali sono i momenti di svolta in questi 10 anni di Fibre Parallele? 

Mangiami l’anima e poi sputala è il primo spettacolo. Daniele Timpano lo vide alle semifinali del premio “Scenario” e ci propose di partecipare all’ultima edizione di “Ubusettete” a Roma. 2.(DUE) fu uno spettacolo gettonatissimo, che ancora gira ma di cui vorrei liberarmi. La svolta venne con Furie de Sanghe, il primo con una produzione, in un teatro con altri attori. È in questo momento che si sono definiti meglio anche i nostri ruoli – drammaturgo Riccardo e regista io. Poi Duramadre che ha avuto una serie di brutte vicissitudini produttive e non solo. È uno dei lavori meno riusciti ma da qui si generò una crisi che portò al nostro lavoro più solido e compiuto, Lo splendore dei supplizi. La beatitudine ha segnato altri momenti difficili che riguardavano la nostra vita privata, la nostra separazione come coppia. È uno spettacolo fatto in un tempo lampo ma molto compiuto, raffinato, che denota come dopo tanti anni abbiamo sviluppato un metodo di lavoro molto solido.

 E ora Pasolini.

Orgia nasce su commissione. Rodolfo di Giammarco mi invita alla rassegna “Garofano Verde” consigliandomi la lettura di Orgia e proponendomi di fare l’uomo. Con lui avevamo già collaborato per “Trend”, la rassegna sulla nuova drammaturgia inglese, dove avevamo messo in scena il testo di Edward Bond Have I non. IMG_4858Quando lessi il testo di Pasolini rimasi folgorata perché alcune cose del testo erano in forte connessione a come mi sentivo in quel momento della mia vita. Lo trovai molto appartenente e decisi di farne l’adattamento drammaturgico. A Roma feci una “lettura agita” La donna nell’uomo che andò molto bene e Antonio Calvi mi chiese di metterlo in scena nella stagione successiva. Questi furono gli input che mi spinsero a terminarlo. Per una questione di diritti ho utilizzato il testo integrale e si è presentata la sfida per come metterlo in scena, come sviluppare entrambi i ruoli, come trovare una forma unica, se avere o no un’altra attrice per il ruolo della ragazza. Io vivo da un lato la gioia di aver dominato un testo e di averne fatto una regia assolutamente mia dall’altro il terrore di essermi confrontata con un autore così mastodontico e di averlo in qualche modo destrutturato nella sua forma teatro anche se la lingua è quella, io non ho aggiunto una parola e non ho cambiato nulla. La mia autorialità, nonostante sia molto forte, in Orgia è puramente registica. Praticare quella parola e tenerla sempre viva è stato un lavoro attoriale molto faticoso.

È cambiato l’immaginario di riferimento in questi 10 anni? 

Non è tanto cambiato. Prima eravamo molto carichi di quell’immaginario pop che già da Furie de Sanghe si è più rarefatto. C’è sempre l’immaginario della violenza. È cambiato il nostro modo di lavorare, è come se avessimo raffinato il palato con gli anni, gli incontri, le letture, gli spettacoli visti – noi che non abbiamo seguito nessuna scuola di teatro siamo stati degli spettatori accaniti. Per me l’incontro con Ronconi ha segnato un passaggio come attrice e come regista. Se non lo avessi incontrato non so se sarei riuscita a fare La beatitudine, ma sicuramente non sarei riuscita a mettere in scena Orgia come l’ho fatto oggi sia registicamente sia attorialmente.

La figura retorica dell’ossimoro sembra caratterizzare la vostra poetica: in Orgia è forte la commistione tra immaginario pop e pittura seicentesca. È il contrasto necessario a creare il cortocircuito in teatro? 

Mi piace che il teatro, che dovrebbe raccontare la vita, crei questo cortocircuito che nel quotidiano c’è sempre. In più si sta sviluppando anche un esercizio di stile rispetto a questo elemento. Esteticamente cerco la commistione tra basso e alto. In Furie de Sanghe c’è la scena più cruda della violenza sessuale fatta su una canzone popolare barese; in Orgia c’è la replica del Caravaggio che crea questo contrasto con Eminem e il mondo del rap.

Quando e come sposti la tua attenzione durante la creazione allo sguardo dello spettatore?

Sempre. Per me il teatro è un mezzo innanzitutto politico in quanto fa parte della polis. È un’arte comunicativa e se non comunica perché è difficile, ermetico, non si sa spiegare non è riuscito. Io sono per un teatro popolare nel senso di Leo de Berardinis, un teatro che possa parlare a tutti. Se non riesce ad arrivare si perde il suo essere atto rivoluzionario. Sono molto per l’empatia, ci si deve emozionare, si deve entrare in una storia, non amo gli spettacoli che svelano continuamente il meccanismo scenico. In Orgia manca la contrapposizione tra l’elemento alto e basso, quell’aspetto popolare che aggancia, non in senso ruffiano ma nel prendere per mano lo spettatore per portarlo nel mondo più alto. È il testo a essere così: l’ironia non c’è quindi io spingo attorialmente l’acceleratore sul sarcasmo per rendere la parola più concreta perché ho il terrore di essere troppo elitaria.

Orgia
di Pier Paolo Pasolini.

con Licia Lanera
e Nina Martorana
regista assistente Danilo Giuva
consulenza artistica Alessandra Di Lernia
luci Vincent Longuemare
costumi Antonio Piccirilli
dipinti Giorgio Calabrese
tecnico di produzione Amedeo Russi
assistente tecnico Cristian Allegrini
organizzazione Antonella Dipierro
regia e spazio Licia Lanera

produzione Fibre Parallele
coproduzione Festival delle Colline Torinesi, CO&MA Soc. Coop. Costing & Management
e con il sostegno di L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
si ringrazia Garofano Verde

Nuovi ciliegi all’Elfo: il realismo elegante di Bruni

ROBERTA ORLANDO | Anche in questa stagione teatrale che si avvicina al termine, l’eco di Cechov ha dato vita a nuove rappresentazioni, soprattutto a rivisitazioni in chiave contemporanea. Villa dolorosa di Rustioni ci ha fatto rivivere le Tre Sorelle, ma menzioniamo anche il ben riuscito Vanja della Compagnia Oyes.
Eppure l’Elfo, benché di teatro contemporaneo sia da sempre portavoce, sceglie di riportare sul palco, a dieci anni dal debutto (e per la prima volta nella sede di corso Buenos Aires), un classico di Cechov: Il Giardino dei Ciliegi, ultima opera dell’autore.

Ferdinando Brungiardinoi, che questa volta cede il suo ruolo di Lopachin (a un ottimo Federico Vanni) e si concentra sulla regia, ce lo propone così: con un testo fedele, di cui ha curato anche la traduzione, con costumi eleganti e con una scenografia che sembra pensata per creare spazi (anche non visibili) e accogliere un cast di 12 attori senza mai appesantire lo spazio scenico. Le azioni, che si svolgono principalmente nella stanza dei bambini, continuano anche fuori dalla villa e in altre stanze, anche se ne vediamo solo le porte e le luci (di Nando Frigerio) che penetrano dalle finestre. Un’atmosfera calda, come dev’essere quella di una casa che è luogo di riunione per una famiglia non sempre unita, luogo di ricordi nostalgici e ultimo appiglio prima della rovina e del cambiamento. I mobili e i quadri dei primi due atti si diradano negli ultimi due, cedendo il posto a sedie e bauli; pochi oggetti che simboleggiano una decadenza economica e uno spostamento, fisico e psicologico. Il suono di un pendolo è un frequente sottofondo, e risalta ancor più nei diversi momenti di pausa, come dei fermo-immagine, che il regista inserisce soprattutto nella prima metà dello spettacolo, per mettere a fuoco i momenti più rilevanti. Ed è di nuovo un effetto sonoro (se ne cura Jean-Christophe Potvin) che ci annuncia, nell’ultimo atto, l’abbattimento dei ciliegi del giardino, per mano di Lopachin, il nuovo proprietario della villa.

Questo testo è lo specchio della Russia di inizio Novecento, quando la società soffriva la decadenza economica e politica, mentre la borghesia cavalcava l’onda dell’industrializzazione acquisendo sempre più potere. Ciò che però caratterizza la versione di Bruni è una tangibile leggerezza, concessa da un lavoro corale sorprendente e dalla forte e precisa caratterizzazione di ogni personaggio. Una leggerezza difficile da intravedere in un’opera che lo stesso Stanislavskij, dirigendo la prima assoluta a Mosca nel 1903, aveva letto come dramma sociale, provocando il disappunto di Cechov che l’aveva concepita come una commedia.

Nel cast di questo Giardino rivediamo gli “evergreen” dell’Elfo: Ida Marinelli (nel ruolo di Ljubov), che cavalca bene l’incostanza emotiva di un personaggio passionale quanto fragile; il fratello Gaev, interpretato da Elio De Capitani, in una delle sue migliori interpretazioni; Elena Russo Arman (Varja) e la sua indiscussa intensità interpretativa. Tutte ottime prove attoriali quelle degli altri attori in scena, con qualche stonatura nel caso di Liliana Benini (Anja) e Carolina Cametti (Duniaša), all’interno della spontanea sintonia e della coerenza scenica degli altri interpreti.

 

IL GIARDINO DEI CILIEGI
di Anton Cechov
regia di Ferdinando Bruni
con Ida Marinelli, Elio De Capitani, Federico Vanni, Elena Russo Arman, Luca Toracca, Nicola Stravalaci, Corinna Agustoni, Carolina Cametti, Fabiano Fantini, Vincenzo Giordano, Marco Vergani, Liliana Benini
luci di Nando Frigerio
suono di Jean-Christophe Potvin
produzione Teatro dell’Elfo

 

L’Italia della spettacolazione: quando la padella stecchisce Morganti & C. Da Castiglioncello a Venezia e Albenga, storie di non-teatro

RENZO FRANCABANDERA | Che strana l’Italia della “spettacolazione”.
È questo il termine con cui l’amministrazione pubblica che sovrintende su Castiglioncello chiude la lunga storia del Festival Armunia negli spazi di Castello Pasquini (la meravigliosa cornice del parco di Castiglioncello), per relegare il tutto in una sede periferica, in barba agli anni di storia di questo esperimento in quel luogo. Nel tempo degli appetiti edilizi, degli show cooking e del turismo russo danaroso, certamente lasciare un luogo del genere in mano agli artisti è davvero uno spreco intollerabile, cui la pubblica amministrazione ha deciso di porre rimedio, senza cercare mediazioni di sorta dal punto di vista logistico e programmatico.
UnknownPerfino la natura la cospirato contro, con le raffiche di vento che l’inverno scorso hanno danneggiato in modo irreparabile la tensostruttura. A quel punto pare quasi di vederli gli amministratori, da tempo interessati a mettere a reddito la struttura distogliendola dagli attuali scopi di residenza culturale multidisciplinare, stringere le spalle e dire: “Che peccato, ma così proprio non si può”, aprendo così il Castello ad un esercito di spadellanti festosi a caccia di show cooking. Mentre il buon Claudio Morganti, interrotto nelle sue prove al castello dai fumi del soffritto, come Girolamo Savonarola, lanciava dal suo sito moniti alla morale, la pubblica amministrazione della nota località turistica Toscana ha deciso che il dado era ormai tratto, che nel parco del castello sorgerà una grande arena per eventi da migliaia di persone, di quelli che portano i soldi veri, non quella roba da straccioni del teatro italiano. Roba grossa, Panarielli, spettacolazioni.

Un pensiero che deve aver fatto, passando dalla costa tirrenica a quella adriatica, un’altra amministrazione, con ricchezze non inferiori a quelle del Comune di Castiglioncello, ovvero quella di Venezia, dove il 31 maggio 2016 l’Associazione Vortice terminerà la sua attività di gestione del Teatro Fondamenta Nuove, iniziata nel gennaio del 2003. Anche qui la sindrome della spettacolazione colpisce, sebbene in un’altra variante. Nonostante un ruolo di eccellenza nella programmazione e nella produzione nazionale di arte contemporanea nelle sue diverse declinazioni (ruolo onorato da premi e dal riconoscimento dell’attività come best practice in più di una circostanza), nonostante un riscontro di pubblico e di critica sempre eccellente, l’Associazione si è vista già nel 2014 più che dimezzare il sostegno da parte dell’Amministrazione Comunale (attività già  svolte in gran parte e concordate con l’Amministrazione stessa).
Unknown-1Nella città della “fighissima” Biennale, dove ogni spettacolo viene proposto per una sola replica con costi esorbitanti, un ridicolo contributo di pochi spiccioli ha stretto il nodo al collo di Fondamenta Nuove, che ha provato a mantenere il suo progetto attivo per tutto il 2015, riducendo gli appuntamenti per non far venir meno la qualità: ma la resistenza non può andare avanti ad oltranza; Enrico Bettinello, succeduto nel 2008 a Massimo Ongaro dichiara: «Concludiamo addolorati questa avventura con la rinnovata convinzione che Venezia abbia bisogno di politiche culturali innovative e coraggiose, che la sua doverosa centralità sulla scena artistica e culturale europea non possa essere lasciata solamente alle grandi istituzioni ma che, come in ogni altro centro di eccellenza culturale che si rispetti, debba passare anche attraverso progettualità e strategie di sistema che al momento ci sembra di non scorgere sul territorio». Sono stati ospitati fra queste mura Uri Caine e Virgilio Sieni (beffardamente diventati poi anche direttori di Biennale), Matmos e Carolyn Carlson, e tanti altri da Teho Teardo ai Santasangre, Romeo Castellucci, i Konono n.1, Fennesz, Accademia degli Artefatti, Barcelò, Thurston Moore, Roy Paci… E ancora produzioni e residenze. Insomma mentre il premier sfreccia in motoscafo sul Canal Grande, la Venezia dei progetti che dovrebbero rendere l’Italia quel magnifico incubatore di eccellenza del fare, ecco, quella Venezia lì imbarca acqua.

1463387430664320-TCF-2014-016Deve essere la vicinanza al mare che non fa bene al teatro se è vero che, e qui chiudiamo questa piccola rassegna delle difficoltà della scena italiana, anche esperimenti ricchi di successo e pubblico come il particolarissimo Festival di nuovi linguaggi del teatro Terreni Creativi, che si tiene ad inizio Agosto in Liguria, è in sofferenza. L’alternativa culturale che Kronoteatro in questi sei anni ha garantito al territorio di Albenga, un bellissimo festival in cui teatro, convivialità e profumi delle serre si fondono, in cui il basilico d’estate inebria le narici degli spettatori, adesso solleva bandiera bianca. Cioè, non proprio.

Il festival multidisciplinare, capace di portare il teatro contemporaneo nell’entroterra di una città di provincia, dentro le aziende agricole che in quei tre giorni di Agosto si aprono al pubblico, diventando luogo di spettacolo e cassa di risonanza della cultura, non ha più il sostegno di chi negli ultimi anni ha garantito questa magica possibilità, questo tentativo di integrare le realtà produttive, economiche ed enogastronomiche del territorio con le eccellenze teatrali e musicali nazionali, con la danza contemporanea, in un modo alternativo di vivere lo spazio teatrale e nuove forme di convivialità.

Dopo sei anni Terreni Creativi è in difficoltà. Economica e perciò progettuale. In questa parte di Liguria così culturalmente demotivata, rischia oggi di sgretolarsi,  l’esperienza di Terreni Creativi rischia di trovarsi al capolinea, al tramonto senza essere passata per il suo mezzogiorno. “Le realtà che operano una percorso culturale e di formazione del pubblico vincente, non possono essere lasciate sole, siamo qui per dire a chi di dovere che investire in cultura è investire nel futuro del Paese”, dicono da Kronoteatro che organizza l’evento.

Nelle possibilità che ci attengono, parliamo di PAC, ovviamente, invitiamo quindi i nostri lettori a sostenere l’iniziativa di “colletta digitale” o più figamente di “crowdfunding” che è possibile sostenere qui: https://www.eppela.com/it/projects/8566-terreni-creativi-coltiviamo-cultura

Chiediamo anche noi, insieme a Kronoteatro, il vostro sostegno quindi, sottoscrivendo questa caccia all’autofinanziamento, diffondendolo attraverso i canali che a ciascuno sono propri.

Speriamo che, come l’imbranata comparsa indiana Hrundi V. Bakshi in Hollywood Party interpretata da Peter Sellers, anche noi, goffi guerrieri nel deserto si riesca ancora a suonare ostinatamente la nostra trombetta di guerra, nonostante il fuoco incrociato, a volte anche “amico”: noi che tifiamo ancora per lo spettacolo, e che vorremmo ancora monologhi di Amleto, ascoltati senza che l’odore di cipolla che rosola nella sugna prenda le narici proprio mentre parte l’ “essere o non essere”; noi che adoriamo invece essere accarezzati dal profumo di mare e dal sentore di imprenditoria, efficienza della pubblica amministrazione e cultura che vanno a braccetto. Non esclusione, occorre, ma ripensamento intelligente, altrimenti moriremo soffocati, stretti dalle nostre stesse mani.

DUE // Dittico teatrale di Habitas & Esercitazioni Invisibili

EDOARDO BORZI | DUE, dal 26 al 29 Maggio al Teatro dell’Orologio, non è solo il titolo dell’esito di un progetto di esercitazione e di condivisione artistica fra due compagnie diverse ma forse è anche il manifesto in scena delle ragioni etiche e politiche grazie alle quali è stato ideato lo stesso lavoro.
Un’azione di dimostrazione artistica e di impegno sociale attraverso un progetto solidale dal basso, condotto in uno spazio comune che resiste  come l’Ex 51 a Valle Aurelia in Roma – luoghi fertili di conoscenza e apprendimento, luoghi autogestiti e centri sociali in cui è sempre più difficile creare arte a causa di continue diffide e relativi sgomberi. Dunque un atto estetico e politico in risposta alla proliferazione di una evidente quanto pericolosa condizione di estremo settarismo che serpeggia e divide luoghi di creazione e gli artisti in un sistema istituzionalizzato che sempre meno lascia spazio e possibilità a qualsivoglia interazione intellettuale e/o a una commistione artistica verticale, cioè fra contesti socio-culturali e individui di provenienza sociale diversa.
In DUE, terra di lavoro per due compagini teatrali, Compagnia Habitas, fondata da Niccolò Matcovich e Livia Antonelli ed Esercitazioni Invisibili, formazione diretta da Federico Cianciaruso, Cristiano Di Nicola e Simone Giustinelli, è stato possibile convivere in quel sogno di libera associazione che ha visto loro, giovani-ssimi artisti della scena romana, forti e coesi nel generare un’esperienza di comunione di idee, di pratiche e di bellezze artistiche e noi, spettatori distaccati, spesso ignari delle aspre lotte per quel pezzo di pane essere partecipi di una congiunzione tra due astri i cui estri brillano di pari lucentezza.

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foto di Simone Galli
Uno di DUE: dallo “spudorato omaggio” a Karl Valentin e Liesl Karlstadt, celebre coppia di cabarettisti bavaresi della cui linfa artistica si nutrirà nella prima metà del XX secolo Bertolt Brecht, prende le mosse “L’imbroglietto”, corto teatrale di apertura firmato dalla Compagnia Habitas: Livia Antonelli e Niccolò Matcovich, nelle vesti sgargianti di due mimi parlanti, sono intenti ad escogitare un piano per entrare in teatro dove avrà luogo lo spettacolo successivo, forse per vedere il complesso teatrale, per attraversarlo oppure perfino per mangiarlo. Una composizione scenica surreale, diremmo di matrice dadaista, tagliata e ricomposta secondo un’ironia clownesca che si impernia sul lavoro meticoloso di rigorosa aderenza dei due attori rispetto alla forte caratterizzazione dei personaggi.
Un nuovo codice linguistico coniato ad hoc risulta l’elemento centrale nella rappresentazione, il lessico italiano rielaborato attraverso molteplici mutazioni fonetiche delle parole costituisce un vocabolario a sé facendosi strumento espressivo di grande portata caricaturale. La dialettica scenica non si esaurisce però nella parola ma trova mediante la complessità dei movimenti frenetici ma ben calibrati di scuola mimica un’ulteriore chiave comica. L’interrelazione emotiva tra i due interpreti diviene dunque vera e propria compenetrazione attorale, le due facce dello stesso simbolo si caricano di significati allegorici intensi e profondi in una prospettiva di ridanciana drammaticità.
Fra loro e l’ingresso a teatro si paventa lo spettro di un Macbook Pro, automa meccanico di sbarramento burocratico, l’emittente vocale di una signorina virtuale alla biglietteria che deve pur richiedere un prezzo da pagare perché si possa entrare a presenziare allo spettacolo. I due, pur di vivere quel mondo sì tanto agognato, sono disposti a mettere in gioco sé stessi e tutto ciò che hanno, perdere ogni cosa per avere quel poco che in realtà è il loro tutto: il teatro. Una denuncia satirica, con alcuni connotati di auto-critica, verso la situazione paradossale del teatro entro cui molti sono costretti a sottostare; un monito e al contempo un impulso a fare e a farsi resistenza alle condizioni di sfruttamento e di isolamento in nome del diritto di ogni attore, attrice, tecnico, critico, promotore stampa o regista di reclamare a gran voce la propria dignità umana e professionale.

Due di DUE: conclusa la propria messinscena, una volta sedutisi in platea, i due mimi parlanti si apprestano finalmente a toccare con mano la meraviglia del teatro. O MI AMI O TI ODIO (come mettere la solitudine in provetta con un atto di dolore), questo il (sotto) titolo del monologo interiore affrescato da Niccolò Matcovich per Simone Giustinelli che ne cura anche la regia. È lo strazio del silenzio esploso in versi sciolti, a prendere voce in sala, è il lucido delirio a tacerne ogni speranza di abiura. Buio in scena, un puzzo di sigaretta alberga nella stanza stretta, in fondo s’intravede solo una piccola luce rossa che ad ogni boccata si riempie piena. “A promise, is a promise” dice lei. Non le importa nient’altro che di quella fottuta gita in barca. Lei che tanto ha amato, lei che l’ha ingannato, lei che non può parlare se non attraverso la voce di lui essendo un’anima gemella siamese in simbiosi come un’appendice allucinante che nasce dalla testa e fuoriesce eterea in tutta la sua significanza. All’aurora dell’io onirico rinviene il sembiante di lui.
Nella folta barba si aggrappano parole fagocitate e tenute troppo a lungo dentro alle fauci prima di essere liberate in aria. I jeans neri e la giacca di pelle scura lo dipingono sulla tela scenica come un killer solitario a cena. Sull’unica sedia posta a capo della tavola preparata al consumo di un pasto frugale a base di rape rosse, pare solo eppure lo spettro di lei si muove per dialogare attraverso i ricordi delle speranze infrante riposte nelle sorde stanze del passato. Nella dimensione inesatta e caotica dell’inconscio il tempo della narrazione compie funambolici salti digressivi, è abile Simone Giustinelli nel mantenersi in armonia con le note della partitura psico-emotiva attraverso cui prende vita la messa in scena. L’attore e regista romano riesce a seguire l’andamento ritmico lento e doloroso e le tonalità vocali della quotidianità nei dialoghi immaginari senza falsificare le dinamiche comunicative fino a scatenarsi in un parossismo di rancore e collera, con un coltello affilato in mano che vibra stridulo sul tavolo metallico, teso a fendere l’aria mentre il corpo brucia acre di furore come l’odore di rape schiacciate in una rivolta di odio e sangue.
Cannibale del suo stesso dolore che trova nella propria fantasia l’unica via di libertà, l’attore, si inoltra nella lunga notte dell’obnubilamento, convulso e scatenato traccia il perimetro in cui si consuma il possibile disastro di quel naufragio relazionale. Durante la gita in barca, ricreata nell’interno metallico del tavolo ribaltato su un lato, ci guida onda per onda attraverso un mare sempre più aperto e pericoloso, il vero mare dove l’onda non può arrivare, un mare immobile in cui la disperazione inesorabilmente si tramuta in rassegnazione. La luce guidata dalla mano ferma di Federico Cianciaruso in lenta dissolvenza apre uno squarcio nel petto da cui fuoriesce un canto straziato di perdono che perdono non sa chiedere, l’acme tragico di uno spirito coagulato nella sua cristallina alienazione ridotto ad un flebile afflato disciolto nel sale delle proprie lacrime amare.

L’IMBROGLIETTO
(durata 20’)
spudorato omaggio a Karl Valentin e Liesl Karlstadt
di Niccolò Matcovich
con Livia Antonelli, Niccolò Matcovich, un MacBook Pro
produzione Compagnia Habitas

O MI AMI O TI ODIO
(durata 50’)
come mettere la solitudine in provetta con un atto di dolore
di Niccolò Matcovich
con Simone Giustinelli
regia Simone Giustinelli
luci Federico Cianciaruso
assistente alla regia Chiara Aquaro
produzione Justintwo, Esercitazioni Invisibili

Il tempo che si sente dentro: il Prometeo danzato di Bertozzi / Nexus

FRANCESCA DI FAZIO | Sentire e non capire. Questa la necessità della danza di Simona Bertozzi, ospite con il suo quadro coreografico Prometeo: il Dono all’interno della rassegna di danza contemporanea Selachimorpha organizzata da Europa Teatri di Parma e tenutasi dal 15 al 22 maggio.

Il quadro fa parte di un progetto biennale di Bertozzi / Nexus e comprendente cinque diversi quadri coreografici, tutti incentrati sul mito di Prometeo, prodotti tra il 2015 e il 2016.

Il Dono è una danza intensa di 30 minuti in cui i corpi delle due danzatrici (Simona Bertozzi accompagnata dal talento magnetico di Stefania Tansini) emanano energia vitale di muscoli sospinti da una tensione estatica. Protagonista è il corpo e il suo movimento: il volto ne segue l’anatomia. Lo sguardo è come organizzato dalla partitura del movimento, non parte da uno stato psicologico deciso a priori, non è affezionato a un elemento emozionale. Non narrativa, dunque, ma di sensibile forza questa descrizione corporea delle conseguenze scaturite dal vitale dono di Prometeo agli esseri umani, quello del fuoco. Senza riferimenti allo statico Prometeo confinato su una rupe solitaria per l’eternità, in questo lavoro è restituita quell’energia vitale per cui il titano osò sfidare gli Dèi e andare incontro all’Uomo, quell’ardimento che lo spinse al sacrificio in virtù di una necessità demiurgica.

Prometeo Il Dono (3).jpg

Il dono è quel Fuoco creativo che informa i viventi della technè che li distingue da ogni altro animale, un magma che introduce l’umanità alla capacità di creare, di inoltrarsi nell’articolazione di un agire che si fa tensione alla cura, e si trasforma in un linguaggio di gesti e movimenti che creano visioni mutevoli. Il quadro danzato si svolge quasi esclusivamente nel silenzio: solo a un certo punto comincia a farsi sentire una musica. I movimenti si susseguono veloci e scanditi, in una rigida partitura gestuale che, nonostante affascini per la precisione, lascia talvolta poco spazio a un coinvolgimento emotivo.

Aristide Rontini, il terzo danzatore previsto nella performance, non ha potuto essere presente a causa di un infortunio. La mancanza è stata generosamente sopperita dalla presentazione di un estratto da un altro dei quadri del progetto Prometeo di Bertozzi/Nexus, Prometeo: Contemplazione, che vede in scena le danzatrici muoversi ai ritmi ancestrali delle modulazioni vocali del baritono persiano Dara Nowroozi. È un esercizio in corso questo frammento, un momento in cui lo spettatore è introdotto a contemplare da vicino uno dei più primitivi processi di creazione artistica, quello che trascina un corpo a muoversi al ritmo di una voce.

Di grande interesse è stato il confronto finale di Simona Bertozzi con il pubblico, in cui la danzatrice è stata generosa di parole articolate in discorsi di profondità di senso. Una voce dal pubblico fa osservare come dal lavoro presentato traspaia il tempo occorso alla sua preparazione: parla di un “tempo che si sente dentro”. È una frase che colpisce Simona Bertozzi stessa. Il tempo che si sente dentro. E infatti nel guardare la performance si percepisce il tempo dedicato al lavoro, la costruzione del processo e il rigoroso esercizio fisico. Da questa disciplina è nato un disegno coreografico di perfetta scansione, in cui movimenti secchi e precisi mettono a confronto i due corpi delle danzatrici, una una donna matura, l’altra una giovane adolescente, quasi a farli esecutori speculari di una medesima tensione che li accende da dentro.

 

CREDITS:

Secondo quadro del Prometeo – Prometeo: il Dono
Progetto: Simona Bertozzi, Marcello Briguglio
Ideazione e coreografia: Simona Bertozzi
Interpreti Aristide Rontini, Stefania Tansini, Simona Bertozzi
Musiche originali: Francesco Giomi, Eliane Radigue
Produzione: Compagnia Simona Bertozzi / Nexus 2015

 

Trasparenze Festival a Modena, tra santi, balene, profeti e burattini di legno

andante immagine Trasparenze 2016MATTEO BRIGHENTI | “Il motto del Murialdo: Fare e tacere”. Poche e semplici parole su una targa in pietra, affissa a uno dei muri esterni di San Pio X, all’angolo tra via Bellini e largo Murialdo, 20 minuti a piedi dal Duomo di Modena. La chiesa parrocchiale fa parte della Congregazione di San Giuseppe, fondata da San Leonardo Murialdo, sacerdote nella Torino di metà e fine ’800 che si interessò dei giovani di strada, dei carcerati, e degli oratori, insieme con San Giovanni Bosco, cui è intitolato il parchetto a fianco della chiesa. Non poteva che essere qui, in questo rettangolo che cerca e custodisce il sacro nel profano, il cuore pulsante di Trasparenze, il Festival promosso dal Teatro dei Venti: la compagnia di Modena, che ha sede nel Teatro dei Segni all’interno del parchetto, è attiva e nel teatro di strada e nel teatro in carcere.
Diretta da Stefano Tè e Agostino Riitano, affiancati nella scelta degli spettacoli dalla Konsulta, una squadra di giovani dai 16 ai 25 anni, la IV edizione (5-8 maggio scorsi) è andata a caccia della città come Achab di Moby Dick. La grande balena è stata immagine e simbolo del Festival, stampata su magliette, borse e volantini, con il mammifero diviso in due silhouette rovesciate: a sinistra quella a testa in su, grigia con la spina dorsale in bianco, a destra quella a pinne in su, arancione con un uomo al posto della spina.
Giulio Sonno ha già affrontato su Paper Street l’ossatura di Trasparenze e, con la sua tipica capacità di analisi ‘prospettica’, ha rilevato punti fermi, inciampi e opportunità per migliorare la precisione degli arpioni rispetto alla velocità e distanza dell’imprendibile cetaceo. Ciò che cercheremo di fare qui, invece, è rendere conto dell’uomo (il programma) dentro la balena, per come descritto dai quattro lavori che abbiamo visto: Mangiami l’anima e poi sputala di Fibre Parallele, Vania di Oyes, H+G di Teatro La Ribalta / Accademia Arte Della Diversità – Accademia Perduta / Romagna Teatri, Crash Flight di Ondadurto. Quell’uomo lo si direbbe perlopiù un Giona che al posto delle visioni parla per bocca delle sue bugie sul presente. Il naso gli cresce come a Pinocchio ed è il suo unico contatto con l’orizzonte che gli sta davanti.
Il primo spettacolo che ci accoglie a Trasparenze è l’esordio della premiata ditta Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, selezione Premio Scenario 2007. Una donna in nero, una perpetua del Sud, la catena della religione al piede, porta fiori alla Madonna, fiori bianchi sbocciati dal cemento. Prega, invoca, supplica, finché un Gesù extracomunitario non scende dalla croce posta in fondo a una scena oppressa dal vuoto. Chiede una sigaretta e quando la prende punta l’indice come Dio nell’atto di creare Adamo sulla volta della Cappella Sistina. Poi usa la croce come posacenere. Ci sono già, in potenza, tutte le Fibre Parallele che verranno, la disperazione di un’umanità grottesca e inservibile, in un teatro fisico e anche sporco, sanguigno, che squarta ideologie e bigottismi. Gesù è l’incarnazione di un amore fisico, reale, mentre la pia donna insegue un sentimento assoluto e quindi irreale: la Pietà è invertita, è il Figlio che tiene tra le braccia il corpo della Madre, che porta stimmate fatte con la Nutella. Mangiami l’anima e poi sputala è la bulimia della nostra fame di redenzione. Ma se non cominciamo a salvarci da noi nessuno potrà farlo. Nemmeno venisse Cristo in persona.

Mangiamo l'anima e poi sputala @ Rosaria Pastoressa
Mangiami l’anima e poi sputala @ Rosaria Pastoressa

Tra un non vita e una non morte si affannano i personaggi di Vania, progetto vincitore del premio nazionale “Giovani realtà del Teatro 2015” che la compagnia Oyes ha tratto da Zio Vanja di Čechov. Le piantane e le altre luci che illuminano le tre sedie centrali, il tavolino e la porta in fondo, la sedia in proscenio, sono tutte legate con fili bianchi a un mixer in scena e a una flebo, il ‘capezzale’ del Professore attaccato a un respiratore artificiale, in cui si alterano la giovane moglie Elena, il fratello Ivan, la figlia Sonia, il Dottore. Parlano degli altri per parlare a loro stessi, fantasticano del domani e rimuginano sulle proprie solitudini, e l’amore lo chiedono, ma non lo danno, mentre la morte aleggia sulle loro teste come un avvoltoio. Ecco il punto: al contrario di Mangiami l’anima e poi sputala aspettano le risposte come se dovessero arrivare da fuori, e non da dentro di loro, raccontano un’attesa passiva, mentre in Čechov l’attesa, in fondo, è attiva, operosa, si rimbocca le maniche nonostante tutto inviti a mollare la presa. Vania, allora, dice cose banali per problemi piccoli e le battute di spirito sono l’alibi per non andare a fondo nelle questioni. Si sentono sconfitti in partenza, appena arrivano sotto i riflettori. Ma a nave rotta ogni vento è contrario.
È un tratto di gessetto bianco su una lastra di metallo, due finestre, un tetto e comignolo che sbuffa, la nuova casa di Hansel e Gretel al sicuro dai genitori: la madre/strega adesso è un’ombra che non li può più toccare né fare altro male. Per arrivare, o meglio tornare lì, i due sono passati attraverso la fame, il freddo, il buio dell’abbandono e della foresta, costruiti artigianalmente su un sentiero di ferro e ruggine in mezzo al pubblico, seduto su due tribune in posizione speculare. H+G, realizzato in collaborazione con Compagnia Teatropersona, Eolo Award 2016 “alla migliore novità di teatro ragazzi e giovani” assegnato dalla rivista Eolo, è la conferma che a teatro la magia è fatta di semplicità, un panno steso a terra può essere un letto e l’obbedienza un pianto che non dà tregua agli occhi. Gli artisti di-versi e la danzatrice Chiara Michelini hanno incarnato un linguaggio immaginifico in questa scena di strada e strade, gesti comunque gioiosi e vitali, anche nella più terribile e gotica violenza, perché, come diceva Chesterton, le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono (lo sanno già), ma che possono essere sconfitti. Basta solo non crederli invincibili.
Di semplicità è vestito anche Crash Flight di Ondadurto, ma è una stoffa artefatta, intrecciata per abbagliare, stupire, meravigliare con effetti che poi svaniscono come fumo al vento. La compagnia, nata in palcoscenico e cresciuta nel teatro di strada, imbastisce dunque una sequela di numeri da ‘nouveau cirque’ per ripercorrere il viaggio indietro nel tempo e nell’amore di un vecchietto che ha perso sua moglie in un incidente aereo. “La vita non è quella vissuta, ma quella che si ricorda per raccontarla”. Il percorso dell’eroe per ritrovare il suo posto nel mondo è un giro vorticoso tra fumetti, varietà, macchine sceniche, cuore e impegno degli attori. Ma il sogno di futuro in cui vola Crash Flight è la porta girevole di un’illusione.

Per approfondire, leggi anche:
Sergio Lo Gatto, “Trasparenze e la sfida del farsi luogo”, su Teatro e Critica.
Andrea Porcheddu, “Le Trasparenze fanno festa a Modena”, su Gli stati generali.
Tommaso Chimenti, “Trasparenze 2016, a Modena un festival dove il teatro si fa annusare e si fa scoprire”, su IlFattoQuotidiano.it.
Lorenzo Donati, “Teatro dei Venti, Angeli e demoni, Trasparenze”, su Altrevelocità.

Di miniere, trentenni e fiabe dark / Impressioni dal Torino Fringe Festival 2016

GIULIA RANDONE | Fare meno, fare meglio. Potrebbe essere questo il motto della quarta edizione del Torino Fringe Festival, che dal 4 al 15 maggio ha animato il capoluogo piemontese con spettacoli, laboratori, concerti e feste. Fare meno non certo per risparmiarsi – ché le giovani realtà teatrali torinesi responsabili della direzione artistica e organizzativa (Crab Teatro, Damiano Madia, Fools, Gianluigi Barberis, La Turcacane, Le Sillabe, Mulino ad Arte, Officina per la Scena, Onda Larsen Teatro) lavorano un anno intero alla realizzazione della kermesse – ma per offrire una qualità più alta. La prima novità di questa edizione riguarda infatti il numero degli spettacoli selezionati, che rispetto all’anno scorso è quasi dimezzato: quest’anno le compagnia accolte sono state 28 e le proposte hanno spaziato dal teatro di narrazione alla performance, dalla danza al circo e dal teatro di strada alla clownerie. Meno spettacoli, dunque, ma il ritmo resta sostenuto: 46 repliche in 9 giorni e in orari differenti per garantire a tutti la possibilità di assistere agli appuntamenti. E per avere un immediato riscontro del pubblico circa la qualità dei lavori scelti, da quest’anno il Fringe ha introdotto la possibilità di commentare sul sito gli spettacoli, potenziando il più tradizionale passaparola. L’idea, sicuramente ottima, è mutuata dal progetto Tips Theater, piattaforma virtuale creata un paio di anni fa da tre giovani torinesi e divenuta un punto di riferimento per la comunità teatrale. Altra novità della quarta edizione, la vittoria del bando Funder35, che ha premiato l’iniziativa dell’Associazione culturale Torino Fringe offrendole supporto organizzativo e gestionale.

Veniamo ora alle prime riflessioni su tre lavori visti in questo Fringe 2016. Danlenuàr, racconto che prende avvio a 1035 metri sotto terra, negli abissi di una miniera incendiata, ha trovato perfetta ospitalità nello Spazio Ferramenta, un ambiente che si sviluppa nelle cantine di un ristorante siberiano-piemontese. Il monologo di Giacomo Guarneri, già apprezzato interprete di Vita mia della Dante, ci immerge nell’oscurità assordante che nell’estate del 1956 inghiottì oltre duecento minatori nella miniera di carbone di Marcinelle, in Belgio. Seduto su una sedia, Guarneri dà voce ad Antonio, giovane siciliano che per sfuggire alla miseria accetta di trasferirsi all’estero per lavorare in condizioni infernali insieme ad altri immigrati, in gran parte italiani. La drammaturgia poggia sullo scambio epistolare tra Antonio e la moglie Genoveffa, con la quale il giovane condivide gli stupori dell’esule, le timide affettuosità di un matrimonio vissuto a distanza e la paura del buio e della morte: emozioni che esplodono attraverso le gambe e le braccia di un fisico minuto e gioioso, affaticato ma mai contratto dall’amarezza. L’attore costruisce una partitura scenica che dosa con intelligenza dettagli comici e commozione, dando vita a un corpo che eccede la cornice dell’emigrato da cartolina.

Più tentennante, invece, il monologo scritto e interpretato dal piemontese Paolo Faroni, andato in scena nei sotterranei del Lab. Con le tue labbra senza dirlo è la confessione tragicomica di un uomo che si accorge di avere di fronte a sé un pubblico e decide di inondarlo di dubbi e sogni a occhi aperti. In questo stralunato racconto di formazione, il protagonista si trova a ottenere risposte da guru sempre più deludenti – l’insegnante delle medie, il medico, il professore della scuola di teatro – per scoprire che in realtà attingerà le poche indicazioni utili alla vita da un nonno muto, una donna immaginaria e un attore gay con un discutibile passato da performer. La drammaturgia si muove incerta tra frequenti cadute di stile e alcune vette di amara comicità: la prima parte del monologo, infatti, ricalca in maniera stereotipata il canovaccio del “trentenne precario in tutto”, comprensivo di battutine e battutacce, di cui – da trentenni – siamo arcistufi; con il progredire della narrazione, però, il racconto guadagna spessore e originalità, culminando in una scena grottesca in cui la solitudine del protagonista è messa a dura prova dall’assedio di coppiette in calore, e in un intenso confronto con l’amico attore Vinnie sul senso dell’esistenza.

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Uno sviluppo inverso rivela, invece, Grow, operetta dark prodotta da IF Prana e dalla Compagnia Lombardi-Tiezzi e ispirata alla fiaba di Hänsel e Gretel. Lo spettacolo ha suscitato l’entusiasmo del pubblico del Fringe, che ha riempito il sito di commenti positivi e affollato la sala dell’Unione Culturale anche nell’ultima sera di replica, ridendo e applaudendo con foga le interpreti: Caterina Simonelli (anche ideatrice del lavoro) e Silvia Bennett, nei panni dei fratellini abbandonati, e Marcela Serli (responsabile della struttura drammaturgica), nel doppio ruolo della madre degenere e della strega. Alla Serli spetta il compito di avviare lo spettacolo, una lettura attualizzata della fiaba dei fratelli Grimm in cui la povertà della famiglia dei bambini non è miseria economica ma spirituale e la crudeltà della strega scaturisce da pulsioni nevrotiche e libidinali. E l’incipit di Grow è energico e felicemente spiazzante: in un tornado seduttivo di ammiccamenti metateatrali, citazioni pop, rime e balletti sgangherati la strega irretisce il pubblico, che si trova disorientato e ammaliato al pari di Hänsel e Gretel; all’alluvione verbale della strega si contrappone la danza dei bambini, gemelli vestiti da scolaretti che tra giochi e litigi maturano la consapevolezza di essere stati abbandonati e di dover decidere se fidarsi della donna che li ha accolti. Il loro rapporto di simbiosi sarà spezzato proprio dalla strega, che li metterà di fronte al male e alla possibilità di affacciarsi all’età adulta. E qui sorgono i problemi. In primis perché quando anche i bambini prendono la parola si scopre che l’espressività fisica delle due danzatrici non è sostenuta da un’analoga qualità attoriale; in secondo luogo perché, man mano che deve tirare le fila, lo spettacolo perde tensione e non mantiene la promessa di attualizzare la fiaba se non con un’esile trasformazione, tutta esteriore, dei bambini.

 

Danlenuàr

di e con Giacomo Guarneri
Con le tue labbra senza dirlo

di e con Paolo Faroni

regia Paolo Faroni

luci Massimo Canepa

costumi Luisa Ludovico

 

Grow

idea Caterina Simonelli

testo Tobia Rossi

struttura drammaturgica Marcela Serli

con Silvia Bennett, Marcela Serli, Caterina Simonelli

coreografie Silvia Bennett

consulenza artistica Federico Tiezzi

tecnica Attila Horvath

produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi/IF Prana

Il colorato maggio torinese / Impressioni dal Torino Fringe Festival 2016

GIULIA MURONI | È riconfermato il dodo come logo grafico del Torino Fringe Festival. Sui toni dell’azzurro, si rinnova – nella sua natura ibrida di teatro off ma non proprio – il fringe sabaudo che ha animato la prima decade di maggio torinese. Otto luoghi dalla vocazione non teatrale hanno ospitato il concitato succedersi delle performance e, insieme a quattro punti nevralgici del centro cittadino (Piazza Vittorio Veneto, Piazza Santa Giulia, Piazza Castello, Piazza Carignano), hanno fornito uno scenario composito alla kermesse torinese, ormai giunta alla quinta edizione.

Tra le performance osservate abbiamo scelto di segnalare il solo di Vittoria De Ferrari Sapetto, “088” co-prodotto da Dejà Donné e visto al CAP 10100. Gli spettatori vengono timbrati con un numero, senza alcuna spiegazione. Dentro una piccola stanza quadrata il pubblico viene fatto distribuire raso alle pareti e la danzatrice, indossando un lungo chador scuro percorre a piccoli rapidi passi il perimetro della stanza. Fissa gli astanti negli occhi fino a quando viene risucchiata, in un movimento vorticoso, al centro della stanza dove, attraverso una dinamica concentrica, svela prima le gambe, marchiate da piccoli numeri colorati e infine, ribaltandosi, si mostra in una nudità integrale. La chiusa è affidata a un’immagine forte: il corpo riverso su una parete, lo chador rovesciato, copre il viso, mostrando i genitali e la gambe.

Finita la breve performance viene richiesto al pubblico dove fosse situato nel corpo di Vittoria quel numero – diverso per ogni spettatore- che gli era stato impresso all’inizio della performance. A risposta corretta l’operatore ringrazia per aver guardato Vittoria sotto occhi diversi. Questa trovata ci lascia un po’ perplessi: forse che l’obiettivo perseguito fosse di far ignorare la nudità per concentrarsi su una visione micrologica dei vari numeretti qui e lì disegnati? La nudità in sede performativa peraltro è pratica talmente diffusa dall’essere di molto depotenziata nella semantica della cultura di massa.

La luce sotto cui si mostra Vittoria è intensa, gioca su una contraddizione forte, sulla percezione della donna islamica, sul femminile tra i poli di donna sottomessa o violata. L’operazione di sovvertimento dei materiali vuole mostrare la radicale grossolanità dello sguardo sul corpo femminile, e la performance è intessuta di segni che meriterebbero uno sviluppo ulteriore magari in direzione dell’articolarsi di una,  seppur minima, partitura fisica che sorregga le interessanti e vivaci idee e la buona capacità scenica della performer.

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Di tutt’altra natura è il lavoro di CRAB, storica compagnia piemontese, presente anche nell’organizzativo del Fringe. Il Garage Vian ha ospitato “Memoria del vuoto”, spettacolo a partire dall’omonimo romanzo di Marcello Fois, portato in scena da Pierpaolo Congiu. La vicenda del bandito ogliastrino Samuele Stocchino racconta le asprezze del servizio militare nel continente, le angherie subite dalla famiglia in sua assenza e le faide al suo ritorno. Pierpaolo Congiu, solo sulla scena, indossa un lungo cappotto e racconta in terza persona, riportando nei dialoghi le asperità dell’accento ogliastrino. La scena è essenziale: spoglia, vede scorrere sul fondale immagini campestri in movimento che, rarefatte nel tessuto mediale della proiezione grafica, diventano tratti astratti, lampi di colore. Dei brevi intervalli musicali contrappuntano la ricca narrazione di Congiu che domina la scena con abilità.

I racconti sul filo della mitopoiesi di una Sardegna rarefatta e ancestrale corrono il rischio di inciampare a pie’ pari in una rappresentazione stereotipata dell’isola, costituita più dallo sguardo altrui che da una propria identità la quale, per sua natura, richiede ampi e sfaccettati orizzonti di rappresentazione. Il testo di Fois, il quale ha peraltro conosciuto la drammaturgia, aiuta tuttavia a tenere una certa dose di distacco e consapevolezza rispetto a un equivoco cui si incappa facilmente, quando è la Sardegna a essere oggetto di narrazione. In conclusione, sono vari gli elementi di pregio: testo, impianto scenico e capacità attorale di Congiu si congiungono in una prova di ben maggiore levatura rispetto ai canoni medi del Fringe.

Questa è infatti la nota dolente: il Fringe è entusiasmante e vivace, ambizioso e vorace in questo tentativo di far vivere per dieci giorni spazi non teatrali della città, grazie alle energie di compagnie giovani. Tuttavia il pubblico latita e molti spettacoli – escludendo di netto quelli citati nell’articolo – non mostrano uno sguardo edificante sulla situazione teatrale italiana. Dilettantismo, lavori raffazzonati, penuria di creatività sembrano tristemente emergere come cifre che ricorrono. Certo che la scarsità di sovvenzioni non rende facile la programmazione, ma rinnoviamo con forza l’invito a concentrare le risorse su un minor numero di spettacoli, inseguendo così con nettezza un criterio di qualità che si distingua dalla diffusa congerie rumorosa e arrangiata dei molti media dominanti.

 

Fermata Bari Nord: fra Vico Quarto e La luna nel letto

RENZO FRANCABANDERA | La storia dell’arte è sempre un po’ paradossale perché spesso i frutti arrivano al punto giusto di maturazione mentre il contadino distratto sega l’albero. E’ quindi buffo vedere sia giovani sia anche consolidate compagnie nate dal fermento delle residenze e dei teatri abitati in Puglia arrivare e popolare i teatri della città del teatro, Milano, mentre in Puglia i bandi per la assegnazione degli spazi e dei fondi sono fermi, le residenze paralizzate e così anche l’attività artistica delle compagnie, a cui pare essere venuto meno l’interlocutore pubblico che negli otto anni precedenti aveva garantito la necessaria continuità progettuale che ha generato un fermento molto interessante.
Facciamo questa riflessione a margine della visione di due prodotti del teatro pugliese nato nell’ultimo quindicennio, figlio del miracolo del Kismet degli anni 90, e di tutto quello che è seguito. Parliamo, ad esempio, del talento molto formale ma anche molto tecnicamente “animale” di Michelangelo Campanale, regista della vivace e numerosa compagnia La luna nel letto, o il più giovane ma non meno frizzante progetto Vico Quarto Mazzini di Terlizzi, con il talento attorale di Gabriele Paolocà e la guida registica di Michele Altamura. E dei lavori Cinema Paradiso e Amleto FX.
Forse per combinazione i due spettacoli, il primo della compagnia ruvese ospitato all’interno del Festival di teatro per ragazzi Segnali a Milano, il secondo vincitore di In Box, sono stati ospitati sul palcoscenico del Teatro Sala Fontana, realtà che nell’ultimo biennio ha conosciuto una crescita notevolissima insieme a quella dell’associazione che lo gestisce, Elsinor.
banner.jpgAmleto FX di Vico Quarto Mazzini è una creazione che ruota intorno al talento di attore di Gabriele Paolocà, che tra l’altro e autore del testo e regista. In quella che appare visibilmente una scrittura di scena, elaborata sul corpo dell’attore e sui suoi talenti, la regia (supportata dallo sguardo di Michele Altamura e Gemma Carbone) riesce a scolpire una lettura interessante di uno dei personaggi più universali della storia del teatro. Aggiungere novità a questo personaggio è difficilissimo, eppure questo Amleto capriccioso chattatore, chiuso in un solipsistico universo autoreferenziale, in cui si nutre di cocktail sorseggiati dal biberon come un drugo sfigato, che parla e rivisita i suoi monologhi per slogan e citazioni filmiche, è un Amleto che incontra l’universo hikikomori della adolescenza e tarda adolescenza della nostra società. L’interprete è bravo e sfodera una prova in cui si leggono in controluce tutti i topoi della scuola attorale romana, dalla imperitura ispirazione di Antonio Rezza fino alla scrittura-bestemmia di Eleonora Danco.
Quelli che le note di sala definiscono “i propositi maniaco (essere)-depressivi (non essere)” del forse principe di Danimarca, hanno per sfondo una stanza sulla cui persiana di ferro è riprodotta la silhouette della stanza di Vincent Van Gogh ad Arles. E anche Amleto medita il suicidio. Riesce? Non riesce? Non è dato saperlo anche in ragione di un doppio finale che forse aggiunge poco ad un lavoro che ha già mostrato la sua compattezza ed irriverente capacità di riscrittura prima. Ben letta la scena con i suoi oggetti. Ben pensate le luci nel loro sviluppo dinamico. Ulteriore creatività occorre sulla creazione musicale.
Passiamo ora al Cinema Paradiso di Campanale, pièce affollata di interpreti come tutte quelle della compagnia La luna nel letto, che si sviluppa come nel film di Tornatore cui si ispira drammaturgicamente e non solo, con uno sdoppiamento, quasi una sovrapposizione di immagini, fra l’identità bambina e quella adulta del protagonista che, perso nelle sue memorie di celluloide, rivive qui, più che al cinema, l’immaginario fantastico del grande schermo.
La scena è divisa in due da un tulle trasparente che diventa superficie di proiezione e di tanto in tanto si fa permeabile a quanto accade dietro, il mondo dell’oggi, abitato dal protagonista adulto che si siede in sala e guarda sotto i suoi occhi scorrergli il passato, la memoria e l’universo del sogno condensato nelle pellicole.
IMG_0590.JPGMa se Nuovo Cinema Paradiso è un racconto di vita, questo spettacolo indaga invece lo spazio che alimenta la fantasia dello spettatore, portando all’incarnazione di eroi e supereroi. Mentre Spiderman fa le sue capriole fra le piccole file di poltrone che abitano la parte anteriore dello spazio scenico, il giovane protagonista scappa in triciclo agli incubi dei suoi primi horror, per poi trovarsi con i Blues Brothers seduti di fianco e Chaplin che rotea il bastone, in una sorta di epico romanzo dello sguardo, che fa vivere l’infanzia come un sogno autobiografico che non fatichiamo a pensare possa essere quello del regista stesso, che non a caso si sceglie come alter ego adulto del bambino, senza parlare mai, silente a guardarsi la vita e i fotogrammi davanti, come una pellicola ai tempi in cui ancora si riavvolgevano.
La creazione conferma l’abilità di Campanale come direttore d’orchestra suggestionato dall’immaginario filmico, detentore di strumenti di creazione estetica complessi ed eleganti, in cui i segni sono difficilmente fuori posto. La sua cifra è nel creare ambienti, spazi mentali cui corrispondono sulla scena spazi fisici reali, agiti da attori di cui è capace anche di celare (ove occorra, ma qui non ne appaiono di significative) qualche mancanza, privilegiando una coralità che, alla lunga, diventa il tratto dominante delle sue creazioni. Romantico e preciso l’inserto videoblob di Mario Bianchi sugli addii nel cinema. Forse ridondanti qui i due (o più) finali. Un lavoro, comunque, nel complesso preciso, ben fatto e ben interpretato da tutti, compreso il piccolo ma già meritevole talento di Giuseppe Di Puppo.

AMLETO FX
di e con Gabriele Paolocà
collaborazione alla regia Michele Altamura, Gemma Carbone
scene Gemma Carbone
disegno luci Martin Emanuel Palma
prodotto da VicoQuartoMazzinI, Progetto Goldstein, Teatro dell’Orologio
SELEZIONE IN-BOX 2015
 GABRIELE PAOLOCA’ – PREMIO HYSTRIO ALLA VOCAZIONE 2015

CINEMA PARADISO
regia luci e scene Michelangelo Campanale
con Giuseppe Di Puppo, Annarita De Michele, Erica Di Carlo, Paolo Gubello, Daniele Lasorsa, Leonard Lesage, Salvatore Marci, Maria Pascale, Palmiriana Sibilia, Luigi Tagliente assistente alla regia Antonella Ruggiero
supervisione coreografica Aline Nari | cura del testo Katia Scarimbolo | tecnico luci Tea Primiterra
costumi Maria Pascale
video omaggio agli addii Mario Bianchi
video Ines Cattabriga e Michelangelo Campanale | in collaborazione con la Scuola di Danza Artinscena
durata 60 min

Indifferenza e musica come difesa dal tempo: Federica Santoro al PimOff

ROBERTA ORLANDO | È una teoria beckettiana quella secondo cui “non c’è niente da esprimere, ma c’è l’obbligo di esprimere”; teoria che trova spazio nella produzione teatrale e narrativa dell’autore irlandese, nonché nei suoi Testi per Nulla (1950-52), pensati senza un plot e senza personaggi, ma solo con una voce narrante. Il titolo (in francese Textes pour rien) prende spunto da “mesure pour rien”, che nel lessico musicale indica una battuta a vuoto, che serve a indicare il tempo.
Questo riferimento ci offre una chiave di lettura interessante per interpretare In Società, andato in scena per la prima volta a Milano, al PimOff, dal 9 all’11 maggio.

Lo spettacolo inizia al buio. Sentiamo solo la voce di Federica Santoro (interprete e regista) al microfono, in un monologo che passa dalla descrizione di sontuosi componenti d’arredo, a riflessifotooni sul tempo e sulla percezione di esso in genere come un problema. Un flusso di coscienza dal ritmo (dapprima) pacato, che sembra invitare lo spettatore alla concentrazione e all’immaginazione. E l’invito è lecito, vista la complessità di questo testo dalla struttura sregolata, che non presenta una trama definita.

Le luci si accendono, ma di mobili sontuosi non vi è neanche l’ombra. Solo una poltrona, un comodino, alcune sedie pieghevoli malmesse “arredano” un soggiorno immerso nel nero del pavimento e delle pareti, insieme a pochi altri oggetti, tra cui spiccano un trombone, un violoncello, una ciotola per cani (ma dov’è il cane?). Un senso di confusione e di occlusione è percettibile sin dall’inizio e cresce con l’ingresso dei tre personaggi, che per lo più si alternano in scena, a volte incrociandosi.

La Sorella (Federica Santoro), il Fratello (Sebi Tramontana) e Lui (Luca Tilli) hanno una non-relazione difficile da decifrare, tanto che non è chiaro nemmeno che rapporto li leghi. Il personaggio di Lui pare essere un domestico o più sempliceme
nte un coinquilino. Lo troviamo per tutta la durata dello spettacolo in un totale isolamento: suona il violoncello, emettendo lamenti che sostituiscono lo sfogo verbale di una rabbia di cui non conosciamo l’origine, ma che lo caratterizza. Non parla quasi mai, se non in una scena in cui dichiara, nel più tormentoso fervore, di “aver ricevuto una buona educazione”, come a volersi difendere da una condizione di degrado attuale. È molto evidente il senso di smarrimento e di solitudine di questo personaggio, come degli altri due. La Sorella passa da lucidi monologhi dal linguaggio talvolta colorito, ma più spesso ricercato, a sproloqui isterici, in cui manifesta le sue delusioni (l’uso del microfono sottolinea la distinzione tra questi diversi momenti espressivi). Il Fratello è imprigionato da se stesso in casa, in vestaglia e pantofole.
Sono pochi i contatti tra loro, pochissimi i dialoghi. I due uomini si trovano a suonare nella stessa stanza, ma non insieme. Nessuno presta attenzione ai sentimenti dell’altro. Non c’è reazione alle azioni dell’altro. Non c’è comunicazione, ma solo espressione individuale.
Intima sofferenza, quindi, che sfocia nell’indifferenza, nell’ansia, oppure nella musica.

In Società è un percorso nell’interiorità di tre personaggi, feriti e spaventati da qualcosa di più grande, di esterno, che non ci viene mostrato, ma che possiamo supporre. È un’opposizione a una società che costringe al confronto continuo, alla comunicazione come veicolo di futilità e menzogna.  L’effetto è un’importante partecipazione emotiva, favorita soprattutto dall’abilità indiscussa dei tre artisti in scena e dall’ironia data dall’esagerazione di alcune azioni sceniche. Un altro effetto, però, è una serie di domande irrisolte, che portano il pubblico ad apprezzare lo spettacolo più in un secondo momento, dopo un’attenta riflessione. Questo ci fa pensare che si possa lavorare ancora di più sul linguaggio, per un risultato più d’impatto e più riconoscibile, per alleggerire esteticamente lo spettacolo, senza intaccarne la profondità.

 

In Società – divertimento
ideato e diretto da Federica Santoro
con Luca Tilli (violoncello) e Sebi Tramontana (trombone)
prodotto da Fattore K