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venerdì, Aprile 26, 2024
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Se i classici hanno ancora ragione d’essere

SILVIA TORANI | opera_la_bella_addormentata_nel_bosco_coreografia_di_chalmer_11498Ci domandiamo che senso abbia oggi assistere a uno spettacolo come La bella addormentata nel bosco, al Teatro dell’Opera di Roma fino al primo giugno. È solo uno status symbol? Una conferma autoreferenziale della nostra identità culturale? Un recupero nostalgico di un passato che non c’è più? Perché in questa versione del 2002, da allora riproposta ciclicamente ogni due, tre anni, il coreografo Paul Chalmer non si allontana dall’imponente e magnifica ombra di Marius Petipa?

Non siamo ancora stanchi dei principi stranieri stereotipati, con la pelle di leopardo sulla schiena seminuda? Delle principesse adolescenti, ingenue e fiduciose? Vogliamo ancora vedere teli trasparenti che calano atmosfere oniriche sul palco?

Eppure altre strade si sono tentate. Conosciamo l’Aurora disagiata e ribelle di Mats Ek, punta dal fuso della droga per cadere preda di un sonno senza sogni; ricordiamo le tinte gotiche della Belle di Jean-Christophe Maillot. Ma il problema delle rivisitazioni contemporanee è che spesso non ci dicono molto di più, non aggiungono latenze che non fossero già presenti nell’originale. Senza allontanarci dal canone del balletto classico, perfino un lavoro poetico, scanzonato e ironico come Swan Lake, della giovanissima (e bravissima) coreografa sudafricana Dada Masilo, in scena al Teatro Argentina lo scorso novembre, rende esplicite tensioni omosessuali già insite nell’amore “diverso” che porta il principe a rifiutare le belle pretendenti cui i genitori lo vorrebbero fidanzato per inseguire la chimera di un cigno.

La moda delle attualizzazioni, interessanti se intelligenti, e pur sempre lecite, rischia di togliere tutto il piacere al pubblico, la soddisfazione di leggere tra le righe, di costruirsi la sua storia, di andare oltre quell’apparente banalità del visibile. Certo, resta il piacere della danza. Ma quello rimane anche nel più classico dei classici.

L’Aurora delle prove generali è dolce, a tratti leziosa. Incerta nel difficile Adagio della Rosa, recupera durante il grande passo a due del terzo atto, preceduto da una sfilata esemplare di tecnica e virtuosismi: alcuni personaggi mancano, ma le ottime variazioni della principessa Florine e dell’Uccello Blu, della fata Diamante e delle sue compagne riescono a compensare la debolezza di un secondo atto un po’ fiacco. Degno di nota il vivace pas de caractère dei due gatti.

Mentre l’uso uniforme delle luci non valorizza abbastanza i passaggi coreutici e narrativi, costumi e scenografia ben caratterizzano i ruoli mimici dei cortigiani e della strega Carabosse, antagonista fiera e convincente nella sua intensa gestualità, moltiplicata come in un incubo dall’espressivo corteo infernale dei corvi.

L’allestimento potrà forse essere lo stesso di dieci anni fa, la coreografia simile a quella del secolo scorso, ma di certo non stiamo assistendo allo stesso balletto di allora. Non esistono ricostruzioni filologiche neutre, perché il passato non si resuscita e nessuna rievocazione di esperienze potrà mai dirsi assoluta: possiamo imparare tanto della vita di un falsario dal modo in cui crede di riprodurre fedelmente lo stile di un capolavoro.

La différence, il senso, è nell’incontro tra le storie, tra le persone: ballerini, scenografi, costumisti, tecnici, spettatori. Perché le persone eccedono ogni schema.

Interplay e la danza israeliana di Assaf e Fridman

ph: Andrea Macchia
ph: Andrea Macchia

GIULIA MURONI | Nello sterminato ventaglio di possibilità del corpo c’è la reazione creativa alla guerra e alla sofferenza. Il corpo umano in condizioni di guerra si dà come soggetto reale, strumento attraverso cui è vissuta l’esperienza bellica e quindi oggetto, bersaglio da abbattere, umiliare, annichilire. Luogo vivo della difesa e dell’offesa, porta i segni della mutilazione o i fregi di vittorie temporanee. Nel corpo sopravvissuto le cicatrici vi disegnano un luogo della memoria.

Abbozzo dello sfaccettato panorama su cui si staglia la danza contemporanea israeliana, ne abbiamo avuto due notevoli esempi alla serata inaugurale di Interplay al Teatro Astra. La prima parte è stata dedicata a The Hill, la nuova creazione di Roy Assaf, il quale ha preso spunto dalla canzone popolare Givat Hatahmoshetche. Il brano, con una base vivace e incalzante, racconta della presa da parte dei paracadutisti israeliani di un avamposto giordano durante la Guerra dei Sei giorni. Benché si sia trattato di una vittoria, l’esercito israeliano ha perso molti uomini e il testo della canzone sottolinea l’amarezza di un traguardo che perde esponenzialmente di senso. Il lavoro di Assaf ha visto un trio maschile, improntato su quella stessa leggerezza ritmica della canzone, mosso da una qualità fisica peculiare, energica e estroversa, capace di dispiegare il movimento in proiezioni importanti. Questo menage à trois maschile fatto di rimandi all’hora israeliana(danza tradizionale), inclusioni, esclusioni e giochi infantili ha costituito un ritratto di una maschilità che non rinnega il gioco e l’emotività. Lo spettacolo si è chiuso un attimo dopo aver raggiunto l’achmè emotivo, risultato finale di un crescendo drammatico inaspettato. Questo gioco, in grado di mutare registro con disinvoltura e di scorrere dal cameratismo ai toni drammatici, è connotato da una fisicità sapiente in grado di dare voce a vicende legate al proprio processo storico, astraendole in una narrazione antinaturalistica di segni del reale.

ph: Andrea Macchia
ph: Andrea Macchia

Alle 21 è stata la volta di Sharon Fridman, israeliano adottato in Spagna, con Caìda Libre in anteprima nazionale. Lo spettacolo ha portato in scena 6 interpreti della compagnia e 15 partecipanti al laboratorio con il coreografo, i quali hanno costituito una importante cornice entro cui si è sviluppata la drammaturgia. L’istanza centrale su cui si è imperniata la ricerca è quella della sopravvivenza e delle sue implicazioni, a cui viene conferito un continuo movimento dall’alto al basso e viceversa, in un perenne cadere e rialzarsi che intesse l’esistenza umana e che, in questa sua ripetizione costante, va a definirsi in un andamento circolare, lo stesso dell’hora israeliana e di molte danze rituali.  La danza di Fridman è giunta alle conseguenze estreme della contact improvisation, e come nel duo Hasta Donde…?, la tensione e il peso dei corpi raggiungono vette virtuose, ai limiti delle loro potenzialità. Dal momento che qui il focus è sulla sopravvivenza, quella qualità di movimento si presta ad essere collante e disgregante del gruppo nello stesso momento, materiale esplosivo e mastice, in un quadro, fatto di percussioni e tagli di luce calda laterali, che non disdegna i toni epici e vi arriva con potenza e pathos.

Interplay dà il via alle sue serate con il botto, la sala in standing ovation e il quadro di una danza, frutto di un proficuo melting pot di danza moderna americana, tradizionale araba e contemporanea europea, in stretto dialogo con un vissuto profondamente segnato dalle sofferenze inferte e subite.

Interazione scenica, sguardo sornione sull’America

interVINCENZO SARDELLI | Occhi fissati sul pubblico, cristallizzati in un sorriso sornione. Sguardi dietro occhiali dalla montatura rossa, filtro, rimando ai mondi artificiali del web. Così Enoch Marrella di Interazione scenica accoglie il pubblico di Zona K a Milano, in occasione di Play With Food, La scena del cibo, teatro + perfomance + arti visive, selezione dal Festival Play With Food 2014 di Torino. Nel terzo week-end di maggio, Zona K ospita tre giorni di performance, installazioni, teatro, opere video e opere d’arte sui temi dell’imminente Expo 2015. Nel monologo Thanksgivingday-Episodio 1, drammaturgia e regia di Andrea Ciommiento, Marrella è Fausto, un diciassettenne che, nell’ambito di un programma di scambio culturale, lascia l’Italia per trascorrere un anno in America. Fausto contempla questo mondo nel Giorno del Ringraziamento, con curiosità e quel minimo di criterio. Lo percorre con gli occhi aperti in un ghigno di fascinazione. Fausto interagisce con i vizi e gli eccessi che abitano gli USA: college party, strampalati motori di ricerca, armi a portata di mano, culto dello sport. Soprattutto, eccessi alimentari: patatine e palle di pollo, pepsi e aragoste, salsicce e pomodori verdi fritti, banane e burritos: e pensare che il background erano fettuccine e scaloppine, trangugiate a ritmo di tarantella. L’incontinenza alimentare è viatico ai richiami dell’eros. Entrambe sono metafore delle seduzioni e delle fantasie di un intero continente. Il che ricorda i temi dominanti in Angelo della Gravità di Massimo Sgorbani. Solo che in Sgorbani il cibo, compensazione di tormenti esistenziali, degenera in obesità, incoscienza, follia e colpa. Qui prevale uno sguardo sorridente e leggero di fondo, aperto sulle contraddizioni, ma anche conquistato dal dinamismo del mondo americano. Fausto attraversa il labirinto e ne esce vivo. Non si perde. Non si snatura. Fa affidamento su quei valori della cultura italiana che vanno dalla pasta al pomodoro cucinata a regola d’arte (non quel pastrocchio colloso condito con ketchup degli USA) a un Dante versione Bignami fai-da-te, passando per Ramazzotti, Jovanotti e Battiato. Le bizzarre esplosioni emotive non compromettono l’equilibrio delle relazioni di Fausto, neppure il suo autocontrollo. La regia di Andrea Ciommiento segue il percorso di Fausto con una supervisione lieve ma non evanescente, intrigante e discreta. La scena è vuota, le luci ferme, in qualche modo surreali. Gli oggetti scenici sono inesistenti, salvo che non si consideri la virtuale palla fantasma che il protagonista continua a lanciare agli spettatori: un esercizio basilare di training teatrale, che provoca un brio collettivo. Che non è risata, piuttosto ironia dilatata. Di questa bislacca storia che è l’America, portiamo a casa l’ottimismo del Yes we can, la curiosità del why not.

Un registro drammaturgico un po’ monocorde, una regia spoglia, secondo la formula dello stand-up drama anglosassone. Ma ci può stare. Anche per la durata minimalista dello spettacolo, che non supera i tre quarti d’ora.

La suite californiana dello scandalo

Appartamento_1221_del_st._francis_hotel_di_s._francisco,_5_settembre_1921SILVIA TORANI | Nel gergo musicale con il termine “suite” si intende una composizione per strumento solista, orchestra o complesso da camera divisa in quattro movimenti di danze dal ritmo diverso. Nel corso degli anni ’60 e ’70 il termine tornò di moda nell’ambito della popular music, tanto che nel 1976 Neil Simon poté sfruttarne l’ambiguità semantica e intitolare la sua commedia in quattro atti California Suite. Una suite ispirata alla California e ai suoi miti, a Hollywood, ai pionieri e alla corsa all’oro, per un viaggio attraverso la deforme mediocrità dei desideri umani.

Quella portata in scena al teatro Manzoni di Roma, dopo una lunga tournée in giro per l’Italia, è una versione leggera, senza pretese, con riduzioni e aggiunte al testo originale: su uno degli episodi più famosi, quello della prostituta ubriaca nel letto del marito infedele, si innesta un secondo atto inedito, che segue i personaggi dieci anni nel futuro, per trovarli ancora (in)felicemente devoti alle loro schiavitù. Persa la struttura quaternaria della suite musicale, sopravvive però l’eredità fisica e iterativa della danza.

Gianfranco D’Angelo e Paola Quattrini, star incontrastate di questa commedia a due voci, percorrono la scena in una parodia di balletto, una coreografia che rincorre la comicità circense e impacciata di Stanlio e Ollio. Marvin, bugiardo cronico con pretese di furbizia e autorità, e Millie, moglie svampita e ingenua, si spartiscono gli archetipi che furono il marchio di fabbrica del duo hollywoodiano. Declinazioni contemporanee di clown bianco e augusto, allestiscono un diabolico gioco di rispecchiamenti che entrambi perdono credendo di aver vinto.

Del resto non c’è dubbio che la comicità di Simon guardi a sicuri modelli cinematografici, come Chaplin, Keaton e tutte quelle star del muto che popolano il suo immaginario di bambino. Come ignorare poi il ricordo di un’altra suite californiana, quella dello scandalo che negli anni Venti coinvolse il divo dello slapstick “Fatty”Arbuckle e aizzò la nazione contro i ruggenti eccessi di Hollywood?

Le fotografie dell’appartamento 1221 del St. Francis Hotel devastato dall’orgia, masticate e digerite dalla macchina del cinema per giungere fino a noi nella suite semidistrutta del Caesars Palace di Una notte da leoni, dovettero calare un velo inquietante sulle facce bonarie e sorridenti che dallo schermo avevano a lungo confortato e divertito il pubblico americano. L’assoluta, perfetta coincidenza tra arte e vita su cui così tanto il cinema aveva investito iniziava a scricchiolare.

Lo spettacolo di Massimiliano Farau riesce a rendere conto, involontariamente, di questo che è in fondo il trauma del moderno: una suite troppo spoglia, troppo candida per ospitare il quotidiano dramma dell’umano. Sullo sfondo una gigantografia posterizzata del Sunset Boulevard, strada icona della società dello spettacolo da Gloria Swanson a Lynch, sede dello scandalo, luogo del rimosso, spazio del cortocircuito. Ecco così trasparire, oltre il cabaret e le improvvisazioni comiche tra sala e scena, l’orribile volto del Reale con cui ridendo cerchiamo di venire a patti. Ancora.

Di cosa parliamo quando non parliamo d’amore

confluenzeGIULIA MURONI | E’ dove le acque di Torinodanza incontrano quelle di Unione Musicale che nasce “Confluenze”, serate-evento che vedono la compresenza effettiva di entrambe le arti, in un’ottica di spettacolo/accadimento senza confini di genere. Pregevole l’obiettivo, andiamo ora ad approfondirne alcuni esiti.

Abbiamo visto “Ne parlez pas d’amour” al Teatro Vittoria di Torino. Sulle musiche del compositore Carlo Boccadoro, eseguite dal vivo dal Trio Debussy (violino, violoncello e pianoforte) i movimenti della danzatrice Daisy Ransom Phillips e dei due performer Vijaya Bechis Boll, Hervé Guerrisi, sotto la guida di Gaia Saitta. La musica, composta ad hoc da Carlo Boccadoro, notevole, è stata vivificata dall’ottima esecuzione dal vivo del Trio Debussy. Un’opera d’arte a sé stante, da sola valeva la serata.

L’azione coreografica risulta essenziale, si direbbe in posizione ancillare rispetto alla musica.

I due performer eseguono azioni semplici, prima da soli, poi in coppia, poi di nuovo da soli. Arrivati sulla scena vestiti, si spogliano e si rivestono. In questo dialogo silenzioso, di cui a tratti invero resta oscura la grammatica allo spettatore, la presenza della danzatrice Daisy Ransom Philipps e della sua qualità fisica duttile e densa dona movimento alla scena, in un ruolo di controcanto rispetto alla narrazione principale. Un’eco del ruolo di Pina Bausch in Cafè Muller. Una figura sognante, marginale e allo stesso tempo in primo piano rispetto a ciò che accade sulla scena. Ma se il lascito del Tanztheater è esplicito per quanto riguarda l’estetica e l’uso del linguaggio del gesto, non arriva altrettanto forte il segno dello slancio creativo che fu della grande coreografa, quella sua eccezionale verità nella lettura del reale, la radicale messa in gioco esistenziale e la cultura espressiva ricchissima e poliedrica.

L’esperienza forse più profondamente attorale di Saitta mostra qui ancora dei limiti nell’approccio alla profondità più coreutico performativa del linguaggio del corpo, vissuto nella sua totale padronanza e preservando la necessaria autonomia dei linguaggi, specie a riguardo di una drammaturgia in grado di dare sostegno ai segni dei corpi che, quando non completamente allocati di referenti di senso, corrono il rischio di scivolare nell’esteriorità formale. Si avverte quindi la sensazione della necessità che risulti più rafforzata l’idea coreografica che soggiace a questa creazione, di schiudere maggiori varchi di senso, correndosi all’opposto il rischio di stringersi nello spazio di una cornice estetizzante, di una danza di accompagnamento mentre ai musicisti, fissi al centro del palco, è riservato il fuoco dell’attenzione, in una ripartizione fra le parti non abbastanza equilibrata. E questo, anche a livello simbolico funziona poco. Si avverte l’urgenza di un dialogo efficace tra le due parti, di una partitura musicale che non inghiottisca i vocaboli dei corpi e di una danza che si faccia carico di una scrittura scenica realmente corale. E va anche bene se già dal titolo ci intimate “Ne parlez pas d’amour”, ma allora…Parlons d’autre chose, au moins, s’il vous plaît!

Ci vuole Rodari per leggere il mondo con gli occhi degli altri

suiterodarifoto1LAURA NOVELLI | Proviamo a capovolgere la realtà e ad immaginare un filobus birichino che non rispetta orari e tragitti, un semaforo che diventa improvvisamente azzurro, delle macchine industriali che si rifiutano di costruire armi, una Cenerentola romana eletta Miss Universo, un re stagliato sul pentagramma senza corona, un funerale con epilogo tragico, un’eclissi di sole scambiata per un cerchio nero e un imperatore così sciocco da sentirsi adulato per un vestito che non indossa e da scambiare la sua nudità per sontuosità. Ne ricaveremmo un mondo rovesciato prodigo di poesia; un universo sghembo, delicato, naïf, che ce la dice lunga sulla stupidità degli uomini – tanto più degli adulti e dei potenti – ricordandoci quella massima senza tempo de Il piccolo principe secondo la quale “l’essenziale è invisibile agli occhi”. E non poche affinità con l’incantevole inquilino dell’asteroide B612 possiede la fantasia di Gianni Rodari, scrittore per l’infanzia che andrebbe letto e riletto in diverse stagioni della vita e che, in quanto a mostrare ciò che risulta invisibile agli occhi, è stato un impareggiabile genio.

Il filobus numero 75, Il semaforo blu, La rivolta delle macchine, Miss Universo dagli occhi color verde-Venere, Il sole nero, Il funerale della volpe, Un re senza corona e Il vestito nuovo dell’imperatore appartengono alla sua produzione di racconti e costituiscono le diverse tessere che Roberto Gandini (regista) e Attilio Marangon (drammaturgo) hanno messo insieme nell’arioso Suite Rodari. Allegretto, surreale con moto, ennesima bella produzione del “Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli” (un’esperienza formativa unica nel suo genere, di cui ho scritto nei precedenti contributi www.paneacqua.info/2012/07/allenareleemozioni-tra-scuola-e-teatro e www.paneacquaculture.net/2013/05/14/diciannoveragazzieilmiracolo) ed ennesima riprova che il palcoscenico può fare miracoli quando si tratta di educare i giovanissimi ad accettare le proprie fragilità, a comprendere quelle dei coetanei, a condividere un’esperienza creativa che è e vuole essere innanzitutto un’occasione di crescita umana.

I diciotto ragazzi coinvolti nel progetto (alcuni dei quali con disabilità) si muovono perfettamente a loro agio tra le montagne russe surreali (ma sarebbe meglio dire surrealista) di Rodari: passano da un quadro all’altro con naturalezza spiazzante, aiutati dallo splendido accompagnamento musicale di Roberto Gori che, scherzoso e frizzante, funge da personaggio vivo sempre presente, interlocutorio, espressivo, imprescindibile dalla drammaturgia delle parole. Quello che ne deriva è dunque un gustoso suiterodarifoto2cabaret dai toni funambolici e stralunati, un montaggio della attrazioni fluido, organico e divertente dove, complici le agili scenografie di Paolo Ferrari e gli accurati costumi di Loredana Spadoni, gli interpreti (anche ottimi cantanti) azzerano le differenze, fanno piazza pulita delle gerarchie, ridicolizzano cliché e luoghi comuni, confondono i confini tra perfezione e imperfezione, entrando a gamba tesa nella filosofia di Rodari, nel suo pensiero altro. “La parola singola (gettata lì a caso con la sua forza evocativa di immagini, ricordi, fantasie, personaggi, avvenimenti del passato…) – scrive nella Grammatica della fantasia – agisce solo quando ne incontra una seconda che la provoca , la costringe ad uscire dai binari dell’abitudine, a scoprire nuove capacità di significato…Una storia può nascere solo da un binomio fantastico”.

Qui di binomi fantastici ce ne sono a iosa e costituiscono l’essenza del lungo e appassionato lavoro fatto prima di andare in scena. In quel tempo del gioco, delle acrobazie dell’immaginazione, delle sfide fisiche e psicologiche, delle relazioni profonde senza il quale anche uno spettacolo curato e prezioso come Suite Rodari, debuttato all’Argentina nei giorni scorsi e ottavo allestimento del Laboratorio dedicato all’immaginario dell’autore di Omegna (basti ricordare titoli come Circo Rodari, La sirena di Rodari, La storia di tutte le storie) perderebbe di significato.

E il significato autentico di questo festoso viaggio nel fantastico nessuno ce può raccontare meglio di Gandini stesso: “Siamo nel 1995, durante il primo Laboratorio Teatrale Integrato “Piero Gabrielli”: un ragazzo con la sindrome di Down, sta facendo l’improvvisazione delle scarpe, un esercizio che consiste nel fingere di indossare un paio di scarpe e di muoversi di conseguenza […]. Ebbene, Diego, questo il nome di quel ragazzo, dopo aver indossato delle misteriose calzature, si mette a ballare soavemente coinvolgendo tutti i presenti, ragazzi e adulti. Io gli dico: “Belli questi movimenti, Diego, ma… di chi erano le scarpe? Chi stavi facendo?” E lui: “Ero una farfalla, ballavo!” […] I ragazzi con disabilità come Diego si trovano perfettamente a proprio agio nel mondo surrealista, e anzi, molti comunicano quasi esclusivamente in maniera surreale. A volte è un surrealismo involontario, cioè legato a quella disinibizione per cui ragazzi con disabilità esprimono pensieri e sentimenti così come vengono, senza star troppo a pensare, senza valutare tutte le conseguenze. Altre volte invece è un modo cosciente, provocatorio, una maniera di essere che vuole stimolare l’interlocutore a un confronto disinibito e che permette di non prendersi troppo sul serio” (www.pierogabriellinellescuole.it).

D’Aquino vs Raimondi: le Regine antagoniste di Alberto Oliva

regineVINCENZO SARDELLI | La ragion di stato, nelle logiche di potere, prevale sulle ragioni del cuore e del sangue. Fino a schiacciarle e a eliderle.

“Dura lex, sed lex”, in queste Regine, Elisabetta vs Maria Stuarda, che abbiamo visto al Teatro Oscar di Milano. Con due primedonne del palcoscenico, Annig Raimondi e Maria Eugenia D’Aquino, dirette da Alberto Oliva. Al regista piace osare, misurandosi con situazioni e attori diversi, e azzardi drammaturgici che s’incuneano nella sperimentazione, partendo però da una base di scuola. Acrobazie timide, con la rete aperta, a proteggere da eventuali svarioni.

La vicenda, tratta da Friedrich Schiller e rivisitata da Paolo Bignamini, è quella di Elisabetta I e Maria Stuarda, le due regine che nella seconda metà del XVI secolo si contesero il potere in Inghilterra. Elisabetta I Tudor, protestante, “Regina Vergine” figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, dovette fronteggiare varie tensioni religiose e tentativi di congiura. Maria Stuarda, sovrana di Scozia, regina consorte di Francia dal 1559 al 1560, e regina d’Inghilterra per i legittimisti inglesi (che non riconoscevano Elisabetta) tornò in Scozia alla morte del primo marito, il francese Francesco II. Qui la attendeva lo scontro con la nuova religione calvinista. Rifugiata in Inghilterra, pensava di poter essere aiutata proprio da sua cugina Elisabetta. Che invece la imprigionò per quasi vent’anni. Maria divenne il fulcro del cattolicesimo inglese. Molti complotti furono organizzati in suo nome per assassinare Elisabetta. Invece fu Maria a rimetterci la testa. La sua esecuzione fu una mannaia sul prestigio della monarchiai: per la prima volta nella storia una “regina consacrata da Dio” fu giudicata e condannata a morte.

Questa pièce, della durata di un’ora, si apre con una fuliggine che materializza le protagoniste da un tempo indistinto. Le musiche elettroniche di Maurizio Pisati, unite alle luci livide di Fulvio Michelazzi, creano un’atmosfera straniante. Come quella gabbia (di Giuseppe Marco di Paolo) che sembra racchiudere la scena. Una ragnatela, la torre-galera che imprigionò Maria. Che con il suo slancio piramidale mozzato e i suoi pioli estemporanei esprime la scalata al potere, con quel tanto di logorio e precarietà che comporta.

I costumi baroccheggianti di Ilaria Parente danno risalto alla mimica di queste regine, inizialmente fantasmi surreali, bambole silenti da teatro di figura. Poi affiorano le parole, centellinate, tremanti; quindi maestose, di solennità shakespeariana. Nasce un dialogo ambivalente tra le due donne, antagoniste e complici: odio e amore, trame e desideri repressi.

Sogni, ricordi, rimpianti, proiezioni: il registro espressivo oscilla tra pantomima e grottesco, farsa e tragedia. Esilarante Raimondi quando abbandona i panni di Maria e dà vita al fantasma decapitato di Anna Bolena. Flashback e flashforward, ripetute escursioni nella contemporaneità, dosano sorrisi accompagnati da una smorfia. Come quando Maria rievoca la Francia, l’amore con Francesco II, le corse lungo la Costa Azzurra in auto sportiva decappottabile: il ricordo proietta nel futuro. O quando l’inquieta D’Aquino-Elisabetta percorre la platea in lungo e largo, telefona al cellulare, si accomoda in sala chiedendo al pubblico che spettacolo (si) stia recitando.

La lotta per il potere è sempre la stessa: una commedia. Vince non necessariamente chi rimane sul trono. Ecco perché, a esibirsi sul cubo al centro della scena, è Maria, amante, sposa, madre. Semenza di quel Giacomo che succederà proprio a Elisabetta, regina confinata a rappresentazione astratta e patetica del potere: mai pienamente donna, interprete di una vita vissuta a metà.

Uno spettacolo senza sussulti geniali, ma calibrato. Che ha il suo nerbo nell’interpretazione maiuscola e nel carisma scenico delle attrici. Qualche debolezza sta nel testo, nelle escursioni anacronistiche umoristiche che rimangono sopite, e fissano negli spettatori un sorriso incerto. Ma forse è giusto così. Di fondo, nelle trame dei potenti, l’amarezza prevale sulla satira.

Quello che resta de Il retro dei giorni

Ph. di Stefano Ridolfi
Ph. di Stefano Ridolfi

ANNA POZZALI | Ci sono volte in cui si sceglie uno spettacolo per il suo titolo, per quel titolo che emerge nel cartellone di un teatro. È stato così per Il retro dei giorni della compagnia romana Clinica Mammut in scena al teatro Vascello lo scorso 8 e 9 maggio.

A questo punto, si ricerca e ci si informa prima di andare a vedere lo spettacolo: Alessandra Di Lernia, drammaturga e protagonista di questo lavoro, e Salvo Lombardo, protagonista maschile, drammaturgo del suono e regista, hanno creato la loro compagnia nel 2012 a Roma; la nuova formazione ha avuto il subitaneo merito di emergere dal magma creativo della giovane sperimentazione romana vincendo con il primo studio de Il retro dei giorni dal titolo L’anticamera il Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti 2012. E allora si va a teatro con curiosità e un briciolo di aspettativa.

Lo spettacolo si apre in una stanza che incornicia una finestra sul nulla: una tensione verso il buio dell’altrove; e Il retro dei giorni forse ci attende proprio là, appena dopo e oltre la fase di impasse di questo tempo che tende alla fine ma sembra non finire mai.

Questa stanza anonima è sgombra di superfluo e accessori: è tutto contenuto e nascosto nelle due file di buste bianche ordinate ai lati della scena. Eppure la camera resta piena di interrogativi e di un fiume di parole che i due protagonisti, un fratello e una sorella, lasciano scorrere come un flusso di coscienza. Il retro dei giorni sembra essere allora un contenitore di frustrazione e di delusione: è la vita, una casa asettica in cui i fratelli cercano di ricordare il loro padre tra l’astrazione del suo ”entusiasmo vergine” e la concretezza della sua consapevole finitudine.

Una riflessione, un ricordo che si compone progressivamente in un questa narrazione dai tratti beckettiani in cui il senso e il non senso si confondono in un diffuso distacco e in una spiazzante apatia. A risvegliare l’emotività sono i lampi coreografici che nella loro misurata dimensione cercano – e non sempre trovano – il grottesco; e le parentesi musicali, il cui preciso disegno curato da Fabrizio Alviti è tratto dai grandi reperti sonori di Carotone, Matmos, Wagner, Verdi, Mascagni, Lambarena, Monteverdi, Giordano, The Hafler Trio, Camus, Guidi|Gibbons. L’impressione è che questi attimi durino troppo poco.

Il tempo, il luogo presente, le dinamiche e gli affetti familiari e i processi storici: non risparmia nulla questo lavoro, vuole interrogarsi sul tempo presente, guardandone le crepe e cercando di “rintracciare le responsabilità sociali, politiche”. Vuole dunque comprendere la fine nella quale tutti noi stiamo per incappare, inciampare, ma nel farlo intraprende una “lenta rincorsa all’indietro” che finisce per travolgere lo spettacolo: “lo spasmo di ricerca di senso” resta chiuso su se stesso, sul proprio passato e sembra procedere per tentativi e errori senza dirci nulla di più di ciò che è chiaro, di fronte a noi, tutti i giorni. Si resta sospesi in uno stato di frustrazione ed è Carla Tatò a rimuoverci dall’immobilità con la sua presenza video e voce, è vibrante e sembra raccontare tutta un’altra storia, più drammatica e tremenda, ricordando poco il resto di quel retro dei giorni.

Se pure è vero che Clinica Mammut riesce davvero bene a snocciolare i nostri giorni, a considerare le sfaccettature del nostro tempo, quelle “crepe” dentro le quali ricercano le responsabilità della crisi e della frustrazione dilagante non si rivelano così profonde, lasciando un sapore di incompiuto, di un grande potenziale non attuato. Senza prospettive passiamo quasi tutti i nostri giorni, forse il teatro dovrebbe avere il merito di offrirci una possibilità in più, una strada da intraprendere o, al limite, una via di fuga.

Il Manzoni utile e necessario al nostro tempo: Piero, e quella mostra imperdibile a Milano

4-7-4-8-manzoni-living-sculpture-1961-copy1RENZO FRANCABANDERA | L’Italia in campo artistico ha perso prematuramente due grandi menti nel secolo scorso. La prima è stata quella di Umberto Boccioni, la seconda quella di Piero Manzoni. Entrambi nell’intorno dei trent’anni. Entrambi in epoche di turbine artistico internazionale.

Boccioni corse. Precorse. Attraversò il divisionismo, sentì le passioni del fauve e pensò al futurismo nella forma più limpida e avanzata. Tanto avanzata da parere cubismo ben prima di Picasso.

Manzoni corse. Precorse. Attraversò il figurativo nel suo passaggio all’informale, superò la tela intesa come superficie pittorica e visse il periodo di Fontana e la crisi del supporto, verso forme d’arte concettuale di cui fu assoluto e geniale precursore.

Morì 10 anni prima che la video arte diventasse forma di pensiero performativo, ma negli anni in cui Klein faceva lasciare a modelli nudi e intinti nel suo blu le loro impronte su enormi fogli, Manzoni realizzava linee d’inchiostro lunghe kilometri con l’aiuto di rotative da giornale, firmava la propria scarpa (e quella di Mario Schifano) come opera d’arte, vendeva palloncini gonfiati da lui medesimo come respiro d’artista e vendeva merda in scatola a peso d’oro. Lasciava l’impronta delle sue dita intinte nell’inchiostro su uova sode servite poi da mangiare agli spettatori della sua performance. Fu fra i primi a intendere l’arte oltre l’oggetto, come evento, momento effimero di rappresentazione irripetibile tal quale, al confine con il teatrale.

Forse Manzoni, prima di molti altri in Italia, intese l’arte come gesto di pensiero, manifestazione concreta di un immateriale cui però dare forma in modo anticonvenzionale e radicalmente estraneo al sentimento comune: capace di assordare, di disturbare, di lasciare interdetti. Immaginarseli i suoi coevi, sessant’anni fa, ad assistere a sue iniziative che ancor’oggi appaiono rivoluzionarie e potrebbero tranquillamente essere proposte, per modernità reale, in gallerie di ogni dove.

Ecco perché attraversare gli ambienti di cui si compone la bella mostra ospitata fino al 2 Giugno a Palazzo Reale a Milano è un dovere per chiunque voglia anche solo intuire la portata del fare arte nel nostro tempo e cosa significa essere rivoluzione, pensiero e azione performativa.

Lo diciamo da osservatori del fermento che dovrebbe stazionare al crocevia delle arti, e che spesso si nutre di plastificati deja-vu. A 50 anni dalla sua morte, l’iniziativa di Palazzo Reale, in collaborazione con lo Städel Museum di Francoforte, arriva davvero a far luce sull’uomo e sull’artista.

Il percorso, sostanzialmente cronologico, attraversa tutte le fasi creative della sua produzione, conducendo anche il più rigido dei visitatori, che solo avesse voglia e tempo di leggere le didascalie della mostra, a lasciarsi invadere dal pensiero creativo, dalla capacità dell’artista di invogliare al tatto, all’esperimento, a guardare con i polpastrelli, a sentire l’arte come manifestazione tangibile di un creativo primigenio, arrivando a vette di complessità concettuale non banalmente provocatorie, ma davvero primitive e fanciullesche.manzoni

Manzoni, infatti, in questo percorso stupisce e urla la sua modernità non solo con le sue opere celebri, quelle che riempiono i libri di storia dell’arte nelle pagine che mai vengono studiate (a prescindere dal fatto che ora non si studia proprio più la storia dell’arte). Manzoni si avvinghia al presente con quelle opere materiche di polistirolo o di pelouche, che ci si ferma a guardare poco dopo aver seguito le impronte dell’artista sui gusci d’uovo o immaginato la linea di 7km, o essersi persi su quelle tele bianche modellate nel gesso a formare senquenze di movimento indescrivibile.

Perché è in quella semplicità tattile, effimera, così glamour e imperitura formalizzata cinquant’anni fa, e che invece ancora oggi piccoli artistoidi del nostro tempo, ignari della storia dell’arte, considerano vette del loro proprio percorso creativo, che si intuisce come Manzoni abbia attraversato la sua epoca guardando oltre la Storia che stava vivendo, comprendendo la relazione e il dilemma ancora contemporanei riguardo i concetti borghesi di “utile” e di “necessario”.

E lui che era riuscito a trasformare un atto necessario, come il defecare, in utile, riuscendo a farlo ritenere gesto d’arte, forse ha da insegnare molto più di qualche predicozzo clerical-politico; utile, anzi necessaria la visita a questa mostra, per toglierci di dosso per un paio d’ore il dramma dell’esistente e proiettare la felicità istantanea in una dimensione davvero di genialità esplosiva, oltre i confini del pornografico di cui si nutre bulimicamente il nostro oggi. Imperdibile.

Se un ritorno alle origini confonde la coscienza: Harrower, grande contemporaneo

Gwp_ARGOTLAURA NOVELLI | Ciò che più mi affascina nella drammaturgia britannica contemporanea è l’intelligenza di una scrittura che, in molti casi, persegue con rigorosa – ma inventiva – geometria lo schema strutturale dell’enigma. Voglio dire cioè che spesso, nei testi inglesi, scozzesi e irlandesi appannaggio degli autori viventi, il palcoscenico diventa una tribuna dialettica le cui dinamiche relazionali esistono e sussistono in virtù di un’ambiguità di fondo (chi sono realmente i personaggi? cosa li lega? chi dice il vero e chi no? quale passato si nasconde dietro le loro vite? quale futuro li attende?) che lascia al pubblico il privilegio di un’indagine agganciata ad appigli rivelatori mai esaustivi, eppure molto emblematici.

Quando poi questo stimolo speculativo, erede soprattutto di Harold Pinter, possiede la forza di muovere il ragionamento attraverso una lingua lontana da ogni enfatica tentazione letteraria e insinuando il dubbio che si tratti pure di questioni sociali/politiche/morali di interesse collettivo, la violenza sghemba della drammaturgia, quella capacità di guardare il mondo da un’altra parte, non può che risultare ancora più efficace.

E faccio un esempio. Negli ultimi anni mi è capitato diverse volte di assistere a lavori dello scozzese David Harrower, nome di punta della scena d’Oltremanica, quarantottenne nato e cresciuto ad Edimburgo, traduttore/adattatore di Schiller, Cechov, Pirandello, Fosse. La sua drammaturgia, secondo me, risponde a pieno titolo a quanto dicevo sopra. Ne ho avuto limpida riprova nello spettacolo che ce lo ha fatto maggiormente conoscere, l’allestimento prodotto nel 2010 dal Piccolo di “Blackbird” (regia di Lluís Pasqual, interpreti Massimo Popolizio e Anna Della Rosa). Poi ne ho avuto ulteriore conferma quando Gianpiero Rappa ha proposto “A Slow Air” nel circuito off della capitale, affidandone l’interpretazione a Nicola Panelli e Raffaella Tagliabue. In queste sere, infine, Tiziano Panici presenta all’Argot “Good With People”, un testo forse non così forte e coeso come i precedenti ma non meno “enigmatico” che, ottimamente tradotto da Natalia di Giammarco, il regista romano mette in scena riservando per sé il ruolo del giovane Evan ed affidando ad una straordinaria Vanessa Scalera quello di Helen, una donna di mezza età. Bastano loro per aprire il racconto di due vite lontane eppure in qualche modo connesse. Qualcosa (cosa?) del passato li lega infatti l’uno all’altra, ma lo scopriremo solo dopo un po’. Probabilmente anche in futuro si rivedranno. Noi non lo sapremo mai. Lo immaginiamo. Lo presumiamo. E in fondo non ci deve interessare visto che è proprio in questo tempo/spazio sospeso tra ieri e domani che si gioca tutta la partita di una relazione raccontata con una lingua corposa, ma secca, che vibra di continue ambiguità.

Una fragile struttura scenica di luci al neon (la firma Andrea Giansanti) restituisce efficacemente l’idea di una piccolo albergo goodwithfotodella provincia scozzese affacciato sul mare – i fatti si svolgono a Helensbourgh – dove Helen lavora alla reception e dove Evan arriva, con il suo carico di energia giovanile e ribelle, per trascorrere una nottata. Entrambi sono di lì: il ragazzo ci è tornato dopo molto tempo per partecipare al matrimonio della madre e del padre, divorziati pentiti; la donna sopporta da anni l’asfittico ambiente della cittadina e non ha mai trovato il coraggio di andarsene. In questo giovane dall’aria ruvida e dal fare smargiasso (cui Panici regala una prova equilibrata e matura) ella intravede subito qualcosa di familiare. Poco dopo veniamo a sapere che è stato proprio lui, mosso da una sorta di invidia sociale, l’esecutore di una feroce atto di bullismo ai danni di suo figlio, Jack Huges, all’epoca dei fatti compagno di classe di quell’intrigante cliente. Dunque, un evento tragico pesa su questo ritorno che potrebbe essere anche interpretato come una ricerca di perdono (casuale? premeditata?) o, per lo meno, di riappacificazione con le proprie radici. Fatto sta che lo scontro – non privo di qualche lentezza e ripetizione – si trasforma progressivamente in qualcos’altro: via via che il dialogo prosegue, intervallato da brevi stacchi di luce, parziali cambi di abito e note di Beethoven, le recriminazioni materne (quel “J’accuse” di storica memoria che tanto riecheggia il nome di Jack) cedono il posto ad una vibrante infatuazione, ad una curiosità più erotica che materna, tanto che la rigida Helen, contratta in un golfino vecchio stile e in uno chignon fin troppo rigoroso, diventa sempre più femminile, più accogliente, più seduttiva (sfumature emotive che l’interprete insegue con estrema bravura). Si sprigiona insomma una strana energia che, complici la birra, la notte, le confessioni intime, potrebbe far pensare all’inizio di una storia d’amore. Alla fine i due si salutano. Ma forse no. Come già in “Blackbird” (un controverso caso di abuso/passione tra una minorenne e un uomo maturo) e in “A Slow Air” (un ritrovarsi familiare sullo sfondo di Al Quaeda), anche qui non c’è moralismo. Non ci sono prediche né giudizi etici. Harrower non si schiera né da una parte né dall’altra. Troppi sarebbero d’altronde i recessi dell’animo umano da indagare per poter dire chi è nel giusto e chi ha torto. Dove sia il bene e dove il male. E i recessi umani – si sa – sono da sempre assolutamente enigmatici (http://youtu.be/eyIrzWTwuxI).