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venerdì, Maggio 9, 2025
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Zia Severina, donna contro la mafia

zia severinaVINCENZO SARDELLI | “A Milano la mafia non esiste. Ci sono altri problemi, neri, albanesi, zingari. La mafia no, è roba del Sud. Cosa loro”.

I pareri rilevati alla rinfusa tra la gente del quartiere Isola denunciano l’inconsapevolezza, secondo l’associazione Libera, di quasi il 60 percento dei milanesi.

A Cinisi il 9 maggio di ogni anno, anniversario dell’assassinio di Peppino Impastato, gli organizzatori del Forum Sociale Antimafia espongono lo striscione storico di Radio Aut, da cui Peppino denunciava le malefatte del boss Badalamenti. C’è scritto: «La mafia uccide, il silenzio anche».

Ma qual è il silenzio peggiore? Quello dei disonesti o quello degli onesti?

I dati smentiscono gli stereotipi. A Milano negli ultimi anni sono stati inflitti più ergastoli che a Palermo. Solo tra il 1989 e il 1994 ci sono stati 3mila anni di condanne per reati di mafia. Un anno fa, proprio a Milano, si celebravano i funerali di Lea Garofalo, testimone di giustizia uccisa dal compagno Carlo appartenente al clan dei Cosco. Abitava nella centralissima via Montello. Sotto la Madonnina la mafia dilaga.

Ecco perché è doveroso parlare di Zia Severina è in piedi, monologo teatrale con Valentina Scuderi che la compagnia Baby-gang ha messo in scena al Teatro Sala Fontana.

Meritevole l’impegno della spagnola Carolina De La Calle Casanova, autrice e regista della pièce. Zia Severina è parte di una trilogia che comprende lo spettacolo Quinta mafia e il monologo La bestia dentro, oltre a percorsi di formazione scolastica. Spettacoli proposti con coraggio nelle vie e nei cortili dove la mafia agisce. Come Niguarda, dove Zia Severina ha vissuto una vita intera.

Zia Severina, vedova, anziana, donna sola, è stata capace di denunciare il racket delle case popolari sfidando le cosche. Qui la vediamo in una scena claustrofobica curata da Petra Trombini. Trapela, invisibile e inquietante, la presenza di Mongolfiera, giovane recluta della ‘ndrangheta infiltrata nella minuscola casa popolare della donna per intimidirla e indurla a svignarsela.

Zia Severina, raccontata da Giuseppe Catozzella nel romanzo Alveare, è quel tipo di nonna che tanti hanno in mente. Poltrona con plaid, tavolino con vaso di fiori, lumino e foto del marito defunto. Uncinetto e gomitolo di lana. Borse della spesa e televisore. Cuffie sulla testa, grembiule e pantofole. Una bottiglia di sambuca a portata di bocca. E un telefono, foriero di cattivi presagi.

Ciò che caratterizza le regie di Carolina De La Calle (qui supportata da Chiara Boscaro) è lo studio sul personaggio, la centralità dell’attore. Valentina Scuderi anima una donna del popolo dalla psicologia semplice, dai gesti rituali, con un accento settentrionale impastato che strascina le consonanti. Se Leonardo da Vinci affermava che di una figura ritratta il pittore deve dimostrare ciò che ha nell’animo, qui, anche senza parole, basterebbe il volto a evocare una coscienza: occhi lucidi dentro le occhiaie, fronte rugosa madida di sudore, guance pallide. Quel guardarsi circospetto tra tensione e paura. La solitudine e la rabbia. La forza d’opporsi, trovata chissà dove.

La voce stridula mischia dialoghi e imprecazioni, silenzi e bestemmie soffocate sotto il segno della croce. Il rimpianto del passato, i ricordi, sono quelli di una persona avviata al tramonto. Qui il crepuscolo è affrettato dal ricatto.

Zia Severina non si arrese, faceva le barricate. Carolina De La Calle la libera facendone affiorare l’identità. Con buona maieutica registica, poche luci dosate, musiche sospese, ottimizza l’abilità interpretativa della Scuderi.

La fattoria biblica di Alessandro Garzella

10712664_661368873970857_1461808786766510980_oELENA SCOLARI | Una cosmogonia del male tra oche e bovi, manzi e daini, cavalli e falchi? Uno spettacolo ispirato all’Antico Testamento in campagna, in una fattoria? Di più! In una stalla? Noi l’abbiamo visto. A Verdello, un paese a sud di Bergamo dove la Fondazione Emilia Bosis collabora con Cascina Germoglio e insieme realizzano attività varie con una comunità di malati psichiatrici.

Il regista Alessandro Garzella ha creato Nel segno di Caino proprio qui, provando nel Teatro Stalla, all’interno della grande area di Cascina Germoglio. Il teatro è un rettangolo gigante di sabbia, sul fondo una porta magica, dalla quale entrano ed escono personaggi – umani e non – per il pubblico sulla tribunetta, uno spazio che riunisce in sé diverse suggestioni legate ad altri luoghi simbolici, a noi ha ricordato il circo, lo zoo, gli ippodromi, le aie contadine della bassa Lombardia, ma anche le arene clandestine dove combattono i galli e corrono i cani. Prima di entrare nel teatro però, è bello gironzolare per la fattoria, si incontrano bestie d’ogni genere, non solo quelle classicamente campagnole come oche, vitelli, capre e pecore ma anche lama e cigni, daini e asini. E si intravedono gli attori, già truccati e in costume, aggirarsi tra ovili e scuderie, visi bianchi di biacca tra i covoni di fieno e figure dark-punk tra i recinti. Una sensazione curiosa: l’arte calata nel bucolico, la finzione fantastica immersa in quanto di più “terreno” possiamo immaginare.

La vicinanza con la terra e il rapporto diretto con animali e odori sono alcuni tra i principali temi attraverso i quali si sviluppa lo spettacolo che Garzella ha costruito con la sua variegata compagnia (Animali celesti, teatro d’arte civile), una galérie humaine et animale formata da una quindicina di ospiti della comunità e sapientemente guidata dalle bravissime Francesca Mainetti, Chiara Pistoia, Anna Teotti, Giulia Benetti, quattro attrici professioniste che tengono le redini (è proprio il caso di dirlo) del lavoro, a loro volta dirette dal regista, presente ai bordi della scena in veste di attore e anche autore del testo. Ecco, proprio il testo è l’elemento che ci ha lasciato qualche perplessità per il suo essere forse troppo composito: si attraversa una riscrittura dei capitoli biblici da Adamo ed Eva ai Farisei passando per Caino e Abele e Sodoma e Gomorra, un excursus per quadri scenici che frastorna un po’ lo spettatore già assai colpito dal contesto e dalla ricchezza visiva di ciò che gli è offerto, affascinato dai caroselli di oche in formazione, dai tornei di cavalli e attori in calesse, avrebbe più facilità a seguire una scrittura più piana. La riflessione che sottende a Nel segno di Caino è tutta rivolta alla comprensione di sé, una speculazione sulla Natura e sull’Uomo nel tentativo di capire chi siamo oggi, che ci si ritenga malati o sani. Per avvicinarsi a un obiettivo così ambizioso è sicuramente necessario affrontare molte cose, anche confuse, lasciarsi andare al peccato e risalirne, sporcarsi con il male per scegliere di allontanarsene, se possibile, ma ci aspetteremmo che questo viaggio di formazione abbandonasse per strada una parte degli elementi vissuti per alleggerire le proprie valigie, più consapevoli. Abbiamo invece l’impressione che l’autore abbia voluto eliminare poco, rischiando il sovraccarico di temi (si accenna anche al terrorismo, ai migranti, col pericolo di una mistica degli ultimi un po’ frusta).

Queste osservazioni critiche fanno però capire quanto il lavoro di Alessandro Garzella e Piero Lucchini (presidente della Fondazione Bosis) sia lontano da un teatro “di servizio”, a Verdello non abbiamo guardato con occhi condiscendenti un teatro terapeutico per e con disabili, abbiamo visto uno spettacolo a tutti gli effetti, pieno di invenzioni e fantasia, molto ben orchestrato e con una sorprendente presenza degli animali, mai decorativi e sempre funzionali al racconto. Abbiamo visto attori che hanno lavorato a un progetto teatrale comune, un impegno che pensiamo abbia anche potuto lenire i loro dolori ma che non ha la cura come prima finalità.

Un piccolo mondo che mostra un concentrato di vita, un luogo accogliente dove un’osteria ospita artisti e spettatori, dove la cosmogonia che ci sembra vincere è quella del bene. Andateci.

In scena nei giorni 8 novembre, 13 e 14 dicembre | Info su www.fondazionebosis.it

Adulto: Phoebe Zeitgeist nel passaggio fra identità e potere

1017139_364265373752252_5579021936031863559_nRENZO FRANCABANDERA | “This play is not about blow jobs” dice ad un certo punto uno dei personaggi de “Il vizio dell’arte” di Alan Bennett, in scena da qualche giorno al teatro dell’Elfo di Milano.

Adulto invece, potremmo scherzosamente dire, lo è.
O almeno lo è per una importante parte dello spettacolo. Perche’ per mezz’ora Dario Muratore interpreta le pagine di Petrolio di Pasolini in cui Carlo si affanna in una serie di pompini nella periferia romana degli anni Settanta, iniziandosi all’eros, e passando dall’adolescenza implume al virile e contemporaneamente femmineo rapporto con l’identità adulta.
Adulto è l’ultima creazione scenica di Phoebe Zeitgeist, da oggi in scena al Teatro della Contraddizione di Milano, una drammaturgia ricavata dai testi finali di Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante e Dario Bellezza, tre scrittori molto diversi fra loro per stile e personalità, ma vicini nella sensibilità per il fragile.
Giuseppe Isgrò, regista anche di questo nuovo progetto della compagnia milanese, affida a Dario Muratore il compito di incarnare in scena queste parole.

La scena è essenziale, con pochi oggetti, usati in modo coerente con l’intenzione registica: dei piccoli cumuli di sabbia, giochi da bambino, richiami ad un vintage dell’elettronica e della riproduzione sonora che, insieme ai costumi di scena, riportano ad un tempo, quello fra anni Settanta ed Ottanta, in cui si stava comunque formando una nuova morale, un nuovo pensiero sul corpo, sul genere e la sessualità, sul conflitto identitario e sul rapporto individuo società che tutti e tre gli scrittori da cui la drammaturgia e’ tratta, hanno affidato, alla fine dei loro giorni, al rapporto della persona col proprio corpo.
Non sappiamo dire se la questione della sessualità sia ancora così dirompente nel nostro tempo rispetto alla dinamica del potere quanto la scelta drammaturgica di Phoebe Zeitgeist ritenga, estrapolando dalle pagine di Petrolio, quelle che descrivono l’iniziazione di Carlo al sesso omo, con la descrizione che Pasolini per pagine fece, di una raffica di pompini fra ragazzi di borgata in quei parchi lungo l’acquedotto romano che prima erano periferia e ora sono le zone della movida, fra Pigneto, Mandrione e Tuscolana, fino ai centri commerciali e agli studi di Cinecittà.

Certamente le ultime parole dello scrittore, rivissute dal corpo di Muratore, si colorano di tinte coerentemente orgiastiche e ossessive, ma anche profondamente autobiografiche e umane, fragili. E sono questi i trait d’union che le uniscono a quelle della Morante e di Bellezza, il cui verbo viene riverberato da un nastro su cassetta, da un registratore d’antan, con le voci di Ferdinando Bruni e Ida Marinelli.

I punti di forza di Adulto, per chi scrive un passo in avanti della compagnia con riferimento al proprio linguaggio scenico, sono una tensione e una capacità di ricavare dall’interprete un’intensità che lo spettatore vive per tutta la durata dello spettacolo, senza ricorrere, come era avvenuto negli ultimi allestimenti, ad un eccesso di stimoli visivi e sonori centrifughi rispetto alla focalizzazione dello sguardo sul messaggio artistico.

Come con tutto ciò che implica un’assunzione di punto di vista, una scelta non accomodante e a suo modo radicale sul testo e il linguaggio del corpo, declinati con coerenza formale nell’ora circa di spettacolo, la reazione di chi si confronta con la messa in scena è contrastante. Ed è giusto che sia così.
Adulto si pone sul crinale, sulla fenditura, decide di usare un registro di umanità tragica, vogliosa e ammalata di vita allo stesso tempo. Quindi è giusto che il tema non si dia con riguardo al verbo “piacere”, ma all’intensità emotiva, alle reazioni indotte, al senso di agio, disagio, libidine e distanza che il tutto sa portare. A quel punto, forse, Pasolini come anche Bellezza e la Morante sono in fondo un pretesto letterario. Un pre-testo, che attende il corpo dell’attore per completarsi, in una delle possibilità che il teatro comunque offre di frequentare emozioni che è giusto indagare. E che in pochi fanno, anche correndo i rischi che sono connessi a queste operazioni.

Nella versione a noi proposta, con lo spettacolo ancora in elaborazione definitiva, è risultato poco fluido il passaggio dalle parole di Pasolini a quelle della Morante, con il disturbo sonoro già sperimentato in altri spettacoli, che qui rischia di sopravanzare la parola scelta come testo scenico e, in genere la tensione emotiva che per un po’ si perdeva, ritornando poi alta nel finale.

La prova di Muratore è degna di menzione e può ancora affinarsi: intensa, languida, porca e innocente insieme, nella prima mezz’ora costringe lo spettatore ad un’attenzione e una tensione bella, fino alla scena secondo noi più alta ed emozionante, quando nel buio il corpo del ragazzo resta illuminato dal neon rosso. I nostri piedi piantati al pavimento, le gambe tese, il corpo in avanti, il mio e quello di chi era con me, rivelano che comunque una forza, un movimento emotivo arrivava di lì a qui. E non è detto succeda sempre. Anzi.

Edward II: Marlowe a Londra in una rilettura coraggiosa

Harry Winterbottom as King Edward and Ramzi De Hani as Gaveston, photography by Paul Vitty

ROBERTA LEOTTI | La Venture Wolf Production ha proposto nelle scorse settimane al London Theatre l’Edward II di Marlowe, scegliendo coraggiosamente di proporre una trasposizione della vicenda nell’Inghilterra degli anni venti del secolo scorso.

Musica: mentre si svolge un party in maschera, tra lustrini e boa di struzzo, Edward apprende della morte del padre, di cui è il legittimo successore, ma, una volta incoronato re, il nuovo sovrano rivela in fretta di essere molto diverso dal defunto predecessore; alla mollezza dell’aspetto, corrispondono le scarse capacita’ di governo del re (personaggio affidato all’interpretazione dell’algido Harry Winterbottom), la cui ossessione per Gaveston, qui ben interpretato da Ramzi Dehani (al suo attivo produzioni al Royal Court e Soho Theatre) avra’ delle ripercussioni irreversibili sulla vita del suo regno.

A tenere le fila dell’equilibrio politico e’ il gruppo dei nobili; vera rivelazione della produzione.

In modo particolare nella prima parte dello spettacolo questo gruppo di attori è ben coeso e molto credibile. La loro performace mette in secondo piano quella dei protagonisti in cui spesso si riscontra una recitazione zoppicante e poco convincente. I nobili sono brillantemente interpretati da: Aw King (lo zio di Mortimer ), James Chadurn (Warwick), Philip Gill (Leicester) e Thom Short (Lancaster) che di fatto mettono in ombra un Mortimer forse un “po’ troppo acerbo” e poco usurpatore (Turan Duncan).

Sicuramente con un cast di sedici attori da gestire negli spazi angusti del London Theatre il regista Paul Vitty non deve aver avuto vita facile. Visto che le vie di fuga sono in mezzo al pubblico, il cast incontra qualche difficolta’ nelle uscite dalla scena, dovendo fare costantemente attenzione a non inciampare o non urtare contro gli spettatori.

Lo spazio è una limitazione importante per questa produzione, che riduce la scenografia a pochissimi elementi: una poltrona rossa nel centro della scena ed una grossa scatola di metallo a lato di questa.

Anche il sistema fonico sembra aver dato qualche problema. La musica in piu’ occcasioni tristemente intralcia i dialoghi in scena anziché fare da sottofondo: seppure paradossalmente non fuori luogo e forse volutamente, come nelle scene di lotta e di più aspro conflitto, condiziona pesantemente le prove degli attori che si vedono costretti ad alzare la voce.

Quel che rimane di questa produzione è una riflessione sulla natura del potere e la consapevolezza che di fatto non basta una corona per tenere le fila di un governo.

Vader: la vecchiaia secondo Peeping Tom

RENZO FRANCABANDERA | Peeping Tom torna in Emilia, a Reggio, nell’edizione 2014 del Festival Aperto dedicato alle arti e allo spettacolo dal vivo, in prima nazionale con Vader. È successo dieci giorni fa al Teatro Ariosto per il debutto in Italia del primo elemento di un trittico drammaturgico dedicato alla famiglia. Quello del nucleo familiare è uno dei primi temi attorno a cui ha lavorato la creatività di Franck Chartier, quando in Salon, esattamente dieci anni fa nel 2004, ritraeva un interno familiare con un bambino che passava di mano fra i genitori, nei loro voluttuosi abbracci.
Era una casa vista da dentro (sia architettonicamente che nell’indagine dei rapporti interpersonali),l’esatto contrario dell’esterno notte angosciante di 32 rue Vandenbranden, fatto di esterni notte, o dell’interno onirico, surreale di For rent, visto in Italia a Torino per Teatro a Corte.

Gabriela Carrizo nel 2004 era in scena; oggi, dieci anni dopo, firma l’assistenza registica e la drammaturgia, mentre alla danza e alla creazione pensano Leo De Beul, Tamara Gvozdenovic, Hun-Mok Jung, Simon Versnel, Maria Carolina Vieira, Brandon Lagaert, Yi-Chun Liu.

Dove siamo? In un ambiente chiuso, comunicante in modo indiretto con l’esterno, uno stanzone abbastanza triste con due tavoli lunghi ai lati, mentre sul fondo un palcoscenico piccolo. È l’interno di una balera di terz’ordine decaduta, un’aula magna di una scuola di vent’anni fa, di un circolo del popolo. E ad abitare questo ambiente, dopo un inizio un po’ fuorviante, sono effettivamente ben presto degli anziani.
Una voce dall’esterno, da un altoparlante, introduce ben presto un’ambientazione emotiva orwelliana. Si obbedisce, si ascoltano ordini, mentre una tristissima band di ottuagenarie intona una canzoncina assai poco allegra.

Irrompe un cinquantenne che deposita suo padre in comodato d’uso in questo poco felice consesso, andando via ben presto. Tornerà a trovarlo un paio di volte, senza che mai questo cambi alcun equilibrio fattuale. Il vecchio decide di non rassegnarsi alla reclusione solitaria, e si aggrappa non ad altri esseri umani ma al pianoforte, elemento di vitalità e manifestazione di un sé che nonostante la sedia a rotelle su cui è costretto, continua a battere forte, a vivere un impeto vero.

La seconda parte dello spettacolo, più leggibile e concentrata sulla vicenda dell’anziano, riesce a raggiungere una verità, una dinamica scenica di massa, che alterna finte aggregazioni e profonde solitudini, fino al finale dell’uomo, inghiottito dalla morte nelle sembianze del pianoforte stesso. È follia? Distacco dalla vita reale? Sogno? Incubo?

Peeping Tom non ci dà una risposta e lascia al pubblico il compito di rileggere in forma personale e interiore queste angosce che sommano il contemporaneo e l’epico, l’ospizio lager in cui la nostra società relega il disfacimento del vivere e il mito di Lear, nell’atmosfera equivoca e sospesa delle sue creazioni in contorsione, media res fra danza e teatro. L’abbandono filiale, l’esatto contrario dell’accudimento, ancorché fastidioso e fetido, di Castellucci, sotto lo sguardo mite e ieratico di dio.

Qui non c’è divinità: l’aldilà, un purgatorio sospeso e senza cielo, è già nel presente. È già ora. Mentre la vita trascorre. E l’anziano muore, non fra le braccia dei familiari, come la letteratura classica avrebbe raccontato, ma inghiottito, abbracciato da un oggetto, unico elemento di senso, di un vivere che ha smesso da tempo di avere a che fare con la vita.

Primo pannello di una trilogia della famiglia, cui seguirà Moeder (Madre) e Kinderen (Figli), Vader è una realizzazione certamente interessante dal punto di vista concettuale e di resa scenica, anche se forse meno compiuto di altri lavori recenti. La sua rilettura all’interno del trittico potrà forse aggiungere ulteriori elementi di riflessione come accade per un’opera che va inquadrata all’interno di un’ispirazione più ampia e poligonale.

 

VADER

Direction Franck Chartier
Directorial assistance and dramaturgy Gabriela Carrizo
Creation and performance Leo De Beul/Jef Stevens, Marie Gyselbrecht, Hun-Mok Jung, Brandon Lagaert,Yi-Chun Liu, Simon Versnel en Maria Carolina Vieira, with the aid of Eurudike De Beul
Artistic assistance Seoljin Kim, Camille De Bonhome
Sound composition and arrangements Raphaëlle Latini, Ismaël Colombani, Eurudike De Beul, Renaud Crols
Sound mixing Yannick Willox
Light design Giacomo Gorini & Peeping Tom
Costume design Peeping Tom & Camille De Bonhome
Set design Peeping Tom & Amber Vandenhoeck
Set construction KVS-atelier, Filip Timmerman, Amber Vandenhoeck
Technical direction Filip Timmerman

Production Peeping Tom
Co-production Theater im Pfalzbau (Ludwigshafen), KVS- Royal Flemish Theatre (Brussels), Festival GREC (Barcelona), HELLERAU – European Center for the Arts Dresden, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Théâtre de la Ville (Paris), Maison de la Culture (Bourges), La Rose des Vents (Villeneuve d’Ascq), Le Printemps des Comédiens (Montpellier), with the support of Sommerszene, Szene Salzburg (Salzburg).
Theater Im Pfalzbau (Ludwigshafen) and Taipei Performing Arts Center (Taipei) are acting as key partners in the creation of the trilogy ‘Vader’ – ‘Moeder’ – ‘Kind’.

Sales Frans Brood Productions
Peeping Tom wishes to thank Héloïse da Costa, Blandine Chartier, Emiliano Battista, Diane Fourdrignier and Seniorencentrum Brussel vzw

Volontariato critico: il teatro appaga ma non paga

"Frattura critica" @Rosanna Mattossovich
“Frattura critica” @Rosanna Mattossovich

MATTEO BRIGHENTI | Scrivere sul web è scrivere per il web. E il tuo primo lettore è Google. Se non stai alle sue regole sei destinato all’oblio e a lavorare gratis in eterno. La schiettezza di Andrea Esposito di FanPage (quasi 3 milioni di fan su Facebook) arriva come un macigno di realismo nel cerchio dei critici teatrali online convocati da Interno 5 al Teatro Bellini di Napoli per “Frattura critica – La necessità di un cambiamento: etica, innovazione e professionalità”. L’importante occasione di confronto ha chiuso “Turn Over – più spazio per crescere” ovvero cinque giornate (13-17 ottobre) in cui si è parlato anche di distribuzione, opportunità di finanziamento pubblico e privato, spazi occupati e autogovernati, nuove forme di produzione.

La geometria non è una metafora, è una condizione condivisa. Siamo seduti l’uno a fianco all’altro perché comune è il campo di azione, pur nella diversità di sguardi e prospettive: la critica è diventata un “non lavoro” che però dà lavoro, contribuendo, hanno confermato i presenti, all’incontro di offerta e domanda tra artisti e operatori teatrali, soprattutto i piccoli, fuori dai circuiti. Questa è la nostra “frattura critica” più urgente, per riprendere il titolo dell’incontro a cura da Michele di Donato e Alessandro Toppi (Il Pickwick), Emanuela Ferrauto (Dramma.it) e Napoleone Zavatto (Cinque Colonne Magazine), con la collaborazione di Rete Critica, di cui fanno parte anche PAC e Teatro e Critica, presente a Napoli con Simone Nebbia e Marianna Masselli. Il lavoro gratis è il granello da cui nasce la valanga delle questioni sull’etica, la funzione, la professionalità e l’affidabilità del critico teatrale sul web.

Andare online non è una scelta, è un obbligo. A causa, in breve, dei mutamenti di direzione del sistema economico e di politica editoriale di giornali, radio, tv e relativi siti, oggi chi vuole far critica teatrale (soprattutto donne, stando ai primi dati della ricerca di Margherita Laera della University of Kent) salvo rare eccezioni non ha altro luogo in cui esprimersi all’infuori di riviste di settore, magazine e portali su Internet, un bulimico impenitente che accumula, accumula, accumula. Qui tutto si crea, tutto si trova e niente si distrugge. Chiunque può svegliarsi critico, una mattina, e aprire un blog. La democratizzazione ha comportato un abbassamento generale della qualità, per via dell’assenza di filtri in entrata, come le vecchie redazioni, e ha dettato il passo al lavoro gratis. Solo il tempo riesce a dare la misura delle reali capacità di ognuno nel raccontare il mondo sulla scena. Chi resiste di più, tendenzialmente, vale di più, perché ha qualcosa in più da dire attraverso quello che vede. Capita così di entrare in contatto con la comunità dei critici sopravissuti alla selezione naturale del tempo, con i quali si crea una sorta di ‘redazione diffusa’ per la condivisione reciproca di link e punti di vista e la pianificazione di incontri, convegni, momenti di studio e riflessione.

Ma la cura della qualità dei contenuti può dialogare anche con le tecniche per ottenere un miglior posizionamento sui motori di ricerca e magari una qualche forma di retribuzione: aumentare la visibilità per aumentare i click per intercettare la pubblicità. Sul web bisogna saper ottimizzare la propria presenza su Google, cioè fare la SEO (Search Engine Optimization), è ancora il pensiero di Andrea Esposito di FanPage. Secondo Francesco Margherita, uno dei massimi esperti napoletani, significa “imparare qualcosa che non si può comprendere”. Questo però è semplice: di un titolo Google indicizza solo le prime tre parole, escluse le stop words, come le congiunzioni. Più si usano parole ricercate di frequente più l’articolo sarà in cima ai risultati del motore di ricerca. Questo è altrettanto facile: su un argomento Google privilegia la completezza, non la sintesi. Seguire tali regole di grammatica online permette di salvaguardare la libertà e l’indipendenza del discorso critico, dandogli in più gambe di sostenibilità economica o è puro asservimento alla Rete padrona come la chiama Federico Rampini nel suo ultimo libro?

Per ora la risposta al volontariato critico l’abbiamo trovata nel farci a pezzi. Una “generazione trattino” che per sostenere la propria identità non lavorativa la congiunge con quelle lavorative. Un po’ organizzatori, studiosi, artisti, comunicatori. Un altro po’ critici. Una frattura composta di vite ben rappresentata dall’immagine scelta per la cinque giorni di “Turn Over” al Teatro Bellini: una testa “unisex” (non si distingue se di uomo o donna), disegnata di profilo, rasata, che mostra il cranio ritagliato, sezionato, suturato. Sopra c’è scritto: “Più spazio per crescere”. Senza strappi sarà impossibile.

Il carnevale arcaico della «Vita cronica» per i 50 anni dell’Odin Teatret

odinVINCENZO SARDELLI | Uno spettacolo di grande fascino per celebrare i cinquant’anni di una compagnia multiculturale tra le più importanti d’Europa. Un teatro etico e artigianale che usa la metafora per sfumare gli aspetti drammatici della vita.
È un’umanità composita quella che l’ensemble dell’Odin Teatret di Eugenio Barba propone all’Elfo Puccini di Milano in La vita cronica fino al 25 ottobre. Ognuno è in fuga da qualcosa, in preda a un’inquietudine forse senza uscita. Ognuno brama quella normalità che per tanti è routine, qui un miraggio.
Una madonna nera (Iben Nagel Rasmussen). La vedova di un combattente basco (Kai Bredholt). Una rifugiata cecena (Julia Varley). Una casalinga rumena (Roberta Carreri). Un avvocato danese (Tage Larsen). Un capelluto musicista rock delle isole Faroer (Jan Ferslev). Un ragazzo colombiano che cerca suo padre scomparso in Europa (Sofia Monsalve). Una violinista di strada italiana (Elena Floris). Due mercenari (Donald Kitt, Fausto Pro). E un manichino, sola presenza stabile in scena.
La vita cronica è uno spettacolo sul dolore. Lo capisci subito dalla sala smembrata. Il palco è un rettangolo. Fanno da cornice, ai lati corti, da una parte ganci da macelleria; dall’altra tende nere: l’ignoto, il baratro. Ai lati lunghi stanno gli spettatori, assiepati come ai bordi di un’arena. Gli attori attraversano la scena. La riempiono in lungo e in largo, persino in verticale.
Le figure sembrano materializzarsi dal nulla. Ci proiettano in uno scenario postbellico futuribile non così remoto. L’azione si svolge in Danimarca e in altri paesi europei. Uomini come zattere confluiscono in un non luogo. Sono rifugiati vessati dalla fame, esiliati, deportati.
In questa babele di figura ognuno parla la propria lingua. Voci, canti, nenie e cantilene. Ballate struggenti. Lingue diverse, genti diverse. Manca la chiarezza del linguaggio, eppure si capisce tutto.
Potere della relazione. Eugenio Barba crea un melting-pot coreografico denso di sentimenti e suggestioni. Ciascuno espone la propria appartenenza. Battute delicate, parole centellinate È la storia individuale a creare i personaggi. I quali tessono, poi, il corale mosaico drammaturgico.
Assistiamo alla frammentazione-ricomposizione di esseri che provano a liberarsi delle inquietudini che li trattengono. Sono figure sospese, colte nel tentativo di ridefinirsi. Ecco perché li vediamo in scena ciechi o bendati, brancolanti zombie disarticolati, scossi da un vento senza misericordia né pietà: «Gli altri volano, e volano, e fra poco rimangono solo le ali». «Sono arrivata nel paese delle meraviglie»: «attenta a dove metti i piedi».
Vediamo stelle filanti e piogge di monetine. Tarocchi, rose e un candelabro a sette bracci: la vita è sorte, trucco, albero della luce. Vediamo costumi pieni di colori, oppure di un nero disperato. Parrucche da ballo in maschera che neppure Quentin Tarantino. Bicchieri in cocci e ghiaccio in frantumi: l’acqua è origine della vita, ma è oro in tempi di guerra. Un angelo fissa le ali azzurre ai ganci da macelleria. Strumenti musicali sono appesi come cetre alle fronde dei salici. Sorrisi nascondono la quotidianità e la banalità della tragedia. Una bandiera immensa fagocita dei corpi, simulacri immolati a una patria matrigna.
Le luci intime immortalano dettagli di visi o di oggetti. Proiettano lo spettacolo su un piano metafisico.
Un barile di petrolio rotola sulla scena: guerra ed economia sono i motori della storia. Una porta rimane chiusa: conduce, forse, verso l’abisso. La morte incrocia fantasie e incubi.
Eppure nulla sembra perduto in questo rito magnifico. Finché c’è arte, c’è vita. Come la vita anche la musica è zibaldone: qui mixa inno alla gioia, marcia nuziale e marcia funebre. Fa capolino persino un giro di pizzica: l’arte è follia.
Trapelano spiragli di luce. La fuga ha lo stridore avvolgente dell’archetto sulle corde di un violino. Gli attori esorcizzano la disperazione aggrappandosi, nel magma buio, al filo incorporeo della musica. Che guida anche noi fuori della sala. Con qualche certezza in meno, qualche pensiero in più. Ed emozioni a frotte.

La forma circolare della violenza e l’Antigone: intervista a Gigi Gherzi

Antigone 2RENZO FRANCABANDERA | Uno spettacolo che è un volo pindarico di cui fino a pochi metri dall’atterraggio non si vede la pista, perché molte tracce sono annodate. Ma alla fine sorprendentemente, le luci appaiono, l’aereo si mette in posizione e le ruote toccano, riportando lo spettatore su una pista di arrivo in cui i segni si riuniscono in un punto d’arrivo concettuale chiaro, comprensibile e che giustifica l’operazione.
Parliamo di Antigone nella città spettacolo diretto e interpretato da Gigi Gherzi, in scena con Lorenzo Loris, in replica al teatro Out Off di Milano fino al 2 novembre.
Una riscrittura? In parte, in piccola parte.
Un ragionamento sulle arti sceniche? Si anche, ma non solo.
Una riflessione sulla società? Sicuramente, come Antigone in fondo è.
Tante cose assieme, tanti personaggi, veri e finti della Storia, come il monaco cristiano Almachio, fra i primi martiri della cristianità, morto lapidato in un circo nel tentativo di fermare lo spettacolo crudele della violenza. E la corrida anomala di Pedrito in Portogallo, dove non si uccide il toro, e che invece nel 2001 aizzato dalla folla finì l’animale (cosa per cui è stato multato poi 100mila euro), fino ai salotti televisivi, agone mediatico, circo delle violenze del nostro tempo dove la violenza ritrova minuziose ricostruzioni maniacali. Società e violenza, rito e dinamiche di massa, legge e potere. E più di un rimando a Contro Ismene, testo interessante dello psicanalista Zoja che ha ispirato molte delle considerazioni di questo allestimento.
Antigone sa ancora essere tutte queste cose? Ne parliamo con Gigi Gherzi.
L’idea dello spettacolo si sviluppa intorno a quello che il teatro (e la società) era nella Grecia classica e quello che è nel nostro tempo. Sei davvero così convinto della differenza o è un pretesto drammaturgico?
No, non è un pretesto. Senza retorica, l’arte cambia, sempre, rito, funzione, senso, posto che trova all’interno di un mondo. Nel teatro greco dell’età aurea della tragedia, in quei pochi decenni, davvero si sperimenta un rapporto sconcertante tra teatro e città, teatro e polis. Il teatro non è visto come “arte”, nel senso che normalmente diamo al termine. E’ uno straordinaria punto d’incontro tra rito, festa e spettacolo. Nessuna nostalgia per quei tempi. Ma fascino per un’indicazione che ci porta a immaginare futuro, che si collega con le pratiche tutte, a livello teatrale e performativo più in generale, che cercano di ritessere fili tra arte e città, arte e vita, arte e festa.
Se davvero questa differenza esiste, perché Sofocle ha sentito l’esigenza di sottoporre questo dilemma fra etica e legge già ai suoi coevi? Forse che la questione che già interessava loro?
La discussione su questo è aperte, anche tra gli storici del teatro e gli studiosi della classicità. Ti posso dare una mia risposta, senza avere la presunzione che sia “oggettivamente” la giusta. Il conflitto che Sofocle indica non é tra “legge” ed “etica” in generale. E’ conflitto con la legge nata all’interno del sistema di potere retto dai “tiranni”. Sofocle era terrorizzato da quel modello di città e di potere, Atene stessa si stava staccando con forza da quel modello, nel terrore di un possibile ritorno dei “tiranni”. Antigone segnala quel conflitto, non con la “legge”, ma con un potere autoritario, arrogante, che andava contro tutte le leggi non solo dell’etica, ma anche del “sacro”, per come lo intendeva la cultura greca del quinto secolo. Antigone si presenta alla città di Atene, e la sua storia è un antidoto a ogni tentazione di tornare indietro, di distruggere il faticoso sforzo d’invenzione di una prima democrazia, nella città di Atene.
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foto Agneza Dorkin

Perché la dualità di interpreti che ha poi portato alla scelta di Loris?

Perché i protagonisti dello spettacolo sono due uomini di cultura, di teatro, radicalmente innamorati e impegnati nella loro arte. Un po’ come, diversi come siamo, io e Loris. C’è una tensione grande, in tutti i due personaggi, a trovare risposte, non sul ruolo del teatro in astratto, ma sul rapporto tra spettacolo e mondo, spettacolo e civiltà. Quelle parole ci è sembrato bello assumerle su di noi, recitarle noi, farle scontrare col nostro vissuto di uomini di teatro e di spettacolo, non affidarle a un attore esterno, ma radicarle nella nostra concreta esperienza di vita. Abbiamo fatto spesso, pur nel grande rispetto e amore reciproco per il nostro lavoro, un teatro differente, io e Loris. Questo spettacolo ci ha rimesso felicemente in gioco, come attori, come uomini. E’ stato un innamoramento artistico condiviso, che credo abbia portato a uno spettacolo sorprendente, atipico, fuori dai canoni.
Una nota su costumi e scene
Anche lo spazio teatrale che utilizzava la tragedia greca è sorprendente. Quel grande spazio semi circolare, dove il coro agiva davanti e gli attori dietro, il contrario di quello che si vede oggi a teatro! Il coro come ponte tra spettacolo e spettatori, ponte garantito dalla presenza dei “coreuti”, cittadini, non attori, che parlano ad altri cittadini. Quando in Grecia arriva la dominazione romana quel teatro viene spesso distrutto, o meglio cambiato nella forma. Dal semicerchio si passa al cerchio, il cerchio del Circo, al cui interno si fanno combattimenti e sfide mortali tra gladiatori, inaugurando così la stagione del teatro crudele, della pornografia del sangue, Così abbiamo deciso di annullare quasi totalmente lo spazio scenico dell’Out Off, utilizzando un grande schermo semicircolare e una piccola pedana, anch’essa semi-circolare, di lasciare l’azione scenica vicinissima agli spettatori, quasi proiettata su di loro. Da tutto il testo ci torna continuamente l’immagine che parlare di teatro è anche parlare di rapporto con la guerra, la violenza, per questo i personaggi hanno costumi astratti, un po’ da antichi sacerdoti, un po’ da guerrieri post moderni, con tanto di ginocchiere e di protezioni.
Antigone e Ismene. Davvero la nostra società ha scelto la seconda o è in fondo sempre stato così, ovvero che chi è disposto a compiere scelte radicali è sempre un po’ minoranza nei consessi sociali?
Antigone non è un personaggio storico! Però indica con il suo gesto un orizzonte, che va contro la legge costituita, che ne denuncia la sua storicità, il suo basarsi spesso su un delitto. Antigone è una visione, mette in discussione anche la vita, così come noi la conosciamo, con le sue paure, le sue furbizie, i suoi compromessi. Dialoga con la dimensione della morte, più collegata ai temi del sacro e dell’etica, combatte perché nessuna morte sia profanata, nemmeno quella dei “nemici” dello stato, indica un’orizzonta paradossale, per la sua epoca e per la nostra, quello di “non essere nata per condividere l’odio, ma l’amore”. E questa frase di Sofocle, che a molti di noi può sembrare retorica, oggi, ai tempi fondava un’altra idea di rapporto tra i cittadini, un’altra etica di rapporto con il mondo. E oggi, la nostra Antigone si chiede: “V’interessa ancora la mia storia? C’entra ancora qualcosa con voi o siete diventati tutti ormai troppo civili? Io v’interesso ancora, o sono solo ormai una citazione letteraria”. La nostra risposta è sì, c’interessa. E la sua storia racconta e interroga i buchi neri e le fratture della nostra vita, del nostro stare al mondo, e mette in discussione le leggi scritte e non scritte che governano il nostro agire.
Il vostro ragionamento finisce poi sulla morbosa sete di violenza, di sangue, a cui l’uomo pare non saper resistere. E’ un connotato tipicamente metropolitano? Perché la necessità nel titolo di specificare la questione della città?
Antigone, già in Sofocle, è un Antigone nella città. Antigone è la tragedia della polis per eccellenza, chiede alla città di schierarsi, si discute sul rapporto con la legge e il tiranno. La nostra Antigone è nella città di oggi, si chiede cosa succede quando i demoni fuori controllo dell’odio e del rancore invadono la vita. Nello spettacolo il contemporaneo cola sullo schermo attraverso le immagini girate e rimontate delle rivolte di Atene contro la crisi e le misure di “austerità” attraverso le immagini del crollo delle Torri Gemelle, che inaugura nel mondo una nuova stagione di odi e di vendette, attraverso la morbosità nel trattare il dolore e i corpi morti, tipica di molti talk show televisivi, a partire dall’ormai famoso plastico della casa di Cogne gentilmente offerto da Bruno Vespa ai suoi spettatori. Immagini che ci portano al nocciolo della questione: Antigone chiede rispetto per il corpo ucciso, anche quello del nemico, chiede non sia profanato. Oggi la profanazione è ovunque, è diventata industria dell’intrattenimento crudele, la profanazione fa spettacolo, audience. Antigone chiede una misura nel trattare il tema del dolore, un rispetto, proprio come tutta la tragedia greca in cui era proibito mostrare l’uccisione di un personaggio in scena, far vedere le viscere, il sangue, perché era considerato empio, una violazione delle leggi del ”sacro”. Oggi il dolore non viene più né rispettato né compreso, il più delle volte viene messo ai margini delle vite, o silenziato, quando riappare, riappare spesso come pornografia del dolore, business, intrattenimento. Insomma: “il nostro occhio feroce, belva, che vuole lo spettacolo!”. Ma Antigone aveva un’altra idea di spettacolo. E anche noi.

Ranuncoli#13 Wurm und Drang, per non parlare di Gina

illustrazione di Federico Maggioni promessi sposi - CopiaCOSIMA PAGANINI | Ora capisco cosa intendeva Gina, l’infermiera che assisteva mia madre ma si rifiutava di leggerle Orgoglio e pregiudizio, quando diceva: io le sorelle Brontë le odio. Presentano un mondo in cui le donne sono tutte stupide. Ed io le rispondevo: ma guarda che Orgoglio e pregiudizio l’ha scritto Jane Austen. Gina: E allora! Non è una scrittrice pure lei? Io: Austen è intelligente e non è stata infettata dal cattivo romanticismo. In tutti i suoi romanzi prende in giro quel mondo di sublimi sciocchezze sull’amore, l’amore oltre la morte, la bellezza del sacrificio d’amore, amore come unica verità, ecc., creato da donne, e uomini, che non conoscono ‘donne’ e ‘uomini’. La puoi leggere! Lei: …non voglio rischiare, sai quanti anni ci ho messo a liberarmi di Heathcliff e Kate?

E adesso parliamo di Intrigo e amore, “classico dramma romantico di Schiller”, visto al Piccolo Teatro.

 

Ragione di stato contro ragione del cuore? Con i presupposti che abbiamo: due giovani innamorati, Luise e Ferdinand (ma che amore è quello che soccombe alla gelosia?) separati dal censo, un padre aristocratico che non vuol perdere i suoi privilegi, anzi vorrebbe aumentarli (fino a prendere il posto del Duca?), una favorita di origini oscure (o per lo meno senza altre referenze che le proprie), le ‘ragioni del cuore’ sono destinate a perdere e anche perdersi. Perché deboli, provvisorie, poggiate sul vuoto… e la sconfitta dell’amore può far piangere moltissimo e farci annegare nel melodramma.

Lev Dodin però ha voluto evitare i toni del melodramma. Ha messo in scena un dramma ‘moderno’ in cui emerge la difficoltà di raggiungere la felicità per i troppi conflitti di genere, di classe, politici. E davanti alla scelta: la morte come sublimazione o come esito tragico, se Schiller, come Wagner e Verdi, sembra scegliere la prima, Dodin, grazie a una lettura più attenta, alla luce della “decadenza”, a me sembra porre in primo piano la seconda. Quindi c’è romanticismo e romanticismo.

Il senso del romanticismo è tragico in quanto coglie nell’umanità un paradosso irrisolvibile. L’uomo e la donna devono riconciliarsi con se stessi, con le proprie inclinazioni e con la propria natura “divina”. In questo senso devono amare anche se il loro amore li pone contro le convenzioni sociali e le opportunità politiche. La dismisura e la nobiltà dell’uomo e della donna, la loro infinità, non avrebbero senso se obbedissero ad un mero impulso utilitaristico. Ma la natura divina ama nascondersi e noi, pieni di impulsi non sempre puri, siamo ignoti a noi stessi. Solo un “genio”, un eroe puro, riuscirebbe nell’intento di vedere dentro di sé, ma un tale eroe è possibile? Non credo, in giro (vedi Ferdinand) si vedono per lo più caricature del genio.

Perché allora, nonostante i tentativi di Dodin di sfuggire al ‘cattivo’ romanticismo, continuo a pensare a quanto poco mi abbia convinto Intrigo e amore? Forse la risposta è che non credo che esista un romanticismo ‘buono’. O forse perché credo che Dodin non sia riuscito a evitare le trappole dell’iper romanticismo del tipo ‘amore e morte’.
Le storie di ispirazione romantica, nel migliore dei finali, portano alla morte prematura dei due amanti e, nel peggiore, alla catastrofe (magari sublime ma catastrofe). L’idiota atto assassino di Ferdinand vanifica ogni manifesto d’amore. Dodin avrà pure adattato il testo di Schiller per portarlo dalla sua parte, quella giusta, ma il pubblico quella doppia morte finale l’ha vissuta come sublimazione e come affermazione della verità (che molti scriverebbero con la v maiuscola), l’ha vista, quindi, alla maniera di Schiller.
In quanto a me: ho contato i candelabri della scena finale, che non erano innumerevoli come ha scritto qualcuno, ma solo 16 con 5 candele per uno e ho pensato: toh! Ecco la Russia. Ho seguito le smorfiette coreografate di lady Milford, incredibile (e un po’ non credibile) nel ruolo di chi vorrebbe spodestare dal cuore di Ferdinand, tutto sturmunddrang, la pura Luise. Ho sorriso all’altezzosa rivendicazione di Wurm del suo essere borghese (Wurm=verme: e si perdona alla giovane età di Schiller la scelta di un nome tanto evocativo quanto cretino). Ho visto il bacio, anzi i baci, quello iniziale e quello finale e tutti e due mi hanno lasciato alla mia domanda: perché non mi piaceva quello spettacolo “che sfiora la perfezione”?
Infine, mentre guardavo le persone intorno a me, plaudenti e felici, seppure in lacrime, mi sono convinta che nel ‘terribile’ romanticismo siamo ancora totalmente immersi e mi sono sentita sola in questo sentire. Ho rimpianto allora il tempo in cui leggevo Jane Austen e parlavo con l’infermiera Gina, cristallizzata nel suo ‘illuminismo’, e immaginavo un futuro in cui il sentimento sarebbe stato illuminato dalla ragione.

Lucia Calamaro e la condanna dei giorni senza peso

DIARIO DEL TEMPO. foto di alessandro carpentieri.03LAURA NOVELLI | L’ultimo – atteso – lavoro di Lucia Calamaro si intitola Diario del tempo: l’epopea quotidiana; arriva dopo la felice intuizione del “polittico” messo a segno ne L’origine del mondo: ritratto di un interno, premiato con ben tre Ubu; dura circa tre ore e preannuncia successivi sviluppi che in un certo qual modo andranno a comporre un’opera-fiume simile alla precedente. Simile in cosa? Anche in questa sua nuova produzione, la cui prima parte in due atti ha debuttato al teatro India di Roma nei giorni scorsi, l’autrice e regista romana, impegnata in scena insieme con una straordinaria Federica Santoro e con Roberto Rustioni, fotografa un’umanità disperatamente alle prese con nevrosi e fragilità contemporanee.

Stavolta però l’intento è quello di puntare l’obiettivo sulla dimensione del tempo: un tempo dilatato, vuoto, perso, speso a colmare l’apnea del non-sapere-cosa-fare. Un tempo tiranno proprio perché privo di azione e di senso. Un tempo da combattere, da annullare perché abbondante, da disinnescare in quanto minaccia quotidiana all’equilibrio personale. L’avere-tempo-libero sembra essere infatti la condanna principale della protagonista, Federica (la Santoro), una disoccupata che si mantiene affittando le camere dell’appartamento in cui vive e che cerca di riempire la sua esistenza a furia di corse e terapeutiche sedute di giardinaggio urbano. Tuta gialla, giubbottino arancione, scarpe da ginnastica e piantina in mano, questa quarantenne deprivata della riconoscibilità sociale ascrivibile ad un lavoro fisso (o perlomeno ad un lavoro qualsiasi), trema e vibra come un animale impaurito sulla cresta di un dirupo. I suoi oggetti – un materasso gonfiabile, un tapis roulante acquistato on-line, una finestra che non c’è ma che immaginiamo esserci – circoscrivono lo spazio limitato del suo agire (e, tanto meglio, del suo non-saper-poter-agire) e assorbono le ambivalenze di una personalità depressa, che barcolla continuamente tra l’intenzione di fare-correre-sudare e la tentazione di stendersi immobile a pensare la sua stessa stasi.

L’interprete è bravissima nel dare credibilità, spessore, mutevolezza al personaggio e il suo dire/raccontare (il dire proprio di un diario che è già di per sé un organizzatore di tempo) innesca sin da subito un gioco grazie al quale il linguaggio stesso – e dunque la scrittura – sfida la tirannia psicologica di questo tempo vuoto provocando, drammaturgicamente, un tempo lento, dilatato, ripetuto, persino esausto. Qualcuno del pubblico, all’uscita o nell’intervallo, diceva di aver avvertito una certa noia. Ma la noia è proprio l’esito voluto di questa provocazione estetica (prima che ideologica) che l’autrice architetta per far percepire allo spettatore quella stessa agonia del quotidiano, divenuta un’epopea che dalla necessità fatale del mito classico si sposta alla fluidità spaesante di un flusso di coscienza quasi joyciano, patita dai personaggi. Oltre a Federica soffrono, infatti, dello stesso malessere anche Roberto (Rustioni), un impiegato pubblico costretto al part-time con il quale Federica ha imbastito un rapporto di fraterna amicizia e un’insegnante di ginnastica incontrata alla stazione (siamo nel secondo atto della pièce, laddove lo spazio scenico si apre ad una profondità vuota e allusiva di chissà quanti altrove) che, interpretata dalla Calamaro, cerca di ingannare l’angoscia per il tempo-che-passa esperendo rilassanti training autogeni in posizione yoga e studiando filosofia (guarda caso proprio Jacques Lacan) all’università.

Certamente non c’è e non può esserci evoluzione in queste tre icone dell’oggi, perché la loro non è una rivoluzione sociale, non è una denuncia storica (per quanto l’attanagliante crisi dei nostri tempi funzioni qui da fertile terreno ispiratore), non è un j’accuse alla politica e alle istituzioni. Federica, Roberto e Lucia semplicemente urlano sottovoce la loro incapacità di consistere. Anche le loro parole somigliano più a pensieri che ad affermazioni. Anche i loro gesti, spinti all’eccesso della corsa, del tango e dello yoga, raccontano più una ricerca interiore che una stabile consapevolezza. Bisogna ascoltarli, accompagnarli, capirli, sopportarne le ripetizioni, le lentezze, le ansie, le nevrosi per non rischiare di annoiarsi. Bisogna percepire il tempo come lo percepiscono loro (e mi viene in mente un capolavoro di Bob Wilson, Deafman Glance, in cui il grande regista americano sperimentava sul pubblico proprio una particolare dimensione del tempo e dello spazio) per assaporare l’estrema teatralità e la spigolosa verità di una testo davvero ben scritto, che conferma la Calamaro una delle voci migliori della nostra drammaturgia e regala alla Santoro l’opportunità di una prova superba.