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sabato, Maggio 10, 2025
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Luca Scarlini e Motus: tra opera e nuova drammaturgia.

fotoFRANCESCA GIULIANI | A Rimini in un’atmosfera quasi rarefatta, incontriamo il drammaturgo Luca Scarlini, in città in occasione della messa in scena del King Arthur di Motus/Sezione Aurea. Davanti ad un caffè ci immergiamo nel processo creativo che ha dato vita all’opera.

Com’è nato il percorso nel King Arthur di Dryden/Purcell?

Avevo già lavorato con Motus in Splendid e nel progetto Pasolini, L’Ospite e Come un cane senza padrone. Quando la Sagra Musicale Malatestiana commissionò la messa in scena del King Arthur, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò mi richiamarono perché, affrontando per la prima volta un discorso sull’opera, era importante per loro confrontarsi con una persona che gravitasse anche attorno al teatro musicale.

Come avete lavorato alla riscrittura del King Arthur?

Nel testo originale ci sono tanti livelli tematici che s’incrociano e la potenzialità della scrittura sta nella sua modernità. Dryden è stato uno dei primi meta-scrittori teatrali. La nostra versione è la più contraria possibile a quella originaria. Innanzitutto non è in versi. Dei personaggi restano Emmeline e King Arthur, due creature in qualche modo cieche rispetto alla propria natura, una per incantesimo, l’altra per dovere. I loro recitati, anche quando sono dialoghi, sembrano monologhi. Nel tempo le versioni si sono stratificate in modo che la scrittura scenica mantenesse un riferimento forte all’originale ma anche ad altre vicende di testi che assonano: c’è una frase da Joyce, due versi da Rilke, passi da Anna Maria Ortese, cinque testi originali.

Perché vi siete concentrati sul rapporto tra Emmeline e King Arthur?

Sarebbe impossibile pensare l’opera integralmente e l’elemento politico, nell’originale molto importante, non m’interessava. Il fatto è che, nella struttura da camera, data dallo spazio della rappresentazione, non si poteva fare altro che puntare l’attenzione su quelli che sembrano essere i due protagonisti. Quello che emerge, nella nostra versione, rispetto alla molteplicità di piani, tra i quali il riferimento a Shakespeare e in particolare a La Tempesta, è l’assenza della guerra.

Com’è stato rapportarsi con la dimensione musicale?

Il testo è stato scritto con due edizioni diverse dell’opera in cuffia. Quando agisci con una musica come quella di Purcell, e Giardini ha scelto tutti brani dall’aspetto melanconico, devi saperla ascoltare perché è lei che dà il senso della vicenda. Il fine era avere una realtà unica tra recitato e cantato, riuscire a far cantare il testo. La scrittura ha una metrica nascosta e una musicalità che quasi non consente il recitato.

Che effetto ti ha fatto vedere l’opera in scena?

L’impressione è che si tratti di una sorta di “anatomia della melanconia”, e mi riferisco a Robert Burten. È un continuo spaesamento. Emmeline e Arthur vivono in un mondo autistico, sono abbastanza riferiti a se stessi, si parlano addosso. Intorno ci sono guerra e distruzione, ma entrambi non ne sono sfiorati.

È un po’ un riferimento anche all’oggi, al rapporto che si ha con la realtà e al modo di raccontarla…

Selfie! I protagonisti raccontano le loro sensazioni, ma non prendono mai posizione su quello che c’è attorno.

In che modo si modella il tuo lavoro di drammaturgo in rapporto all’artista con cui collabori?

Ogni volta cambia. Per quest’operazione drammaturgica c’è stato un continuo confronto tra la scrittura del testo e dei brani musicali. C’è voluto tempo prima che la musica e il recitato fossero bilanciati non tanto per ragioni matematiche quanto di senso. Giardini ha montato e smontato lo stesso palco brani molte volte per far sì che il legame con le parole dette fosse necessario. Ho fatto varie stesure del testo fino a Rimini, dove, con il mio sguardo esterno all’azione, siamo arrivati ad asciugare la scrittura. L’ascolto reciproco, il lavoro in ensemble, ti fa trovare un senso nel riassetto del materiale prodotto. La forma che abbiamo trovato forse non sarà nemmeno quella definitiva.

foto-2Come ti rapporti alla traduzione, a Dryden ma anche in generale?

La lingua di Dryden non è complessa, lo sono le immagini che quella lingua veicola. In teatro riescono le traduzioni di chi il teatro lo fa e finché non è in bocca a un attore la traduzione è opera morta. Io mi sono formato come storico dello spettacolo e ho lavorato al National Theater di Londra come consulente letterario. Qui ho incrociato Sarah Kane, Martin Crimp, Mark Ravenhill e tutta la linea dei nuovi autori britannici, alcuni dei quali ho portato in Italia. È l’esperienza che negli anni insegna, anche se uno dei problemi, nel nostro paese, è che il traduttore non ha uno status perché la traduzione è considerata non poesia ma tecnica. Se in Germania il traduttore è in copertina al romanzo, in Italia è nel frontespizio interno come se fosse una vergogna.

C’è nuova drammaturgia, oggi, in Italia?

È difficile rispondere perché ho un conflitto d’interessi. C’è nuova drammaturgia ma non ha sbocchi in Italia. Anche il cosiddetto nuovo teatro non si rapporta con essa. Io credo che il problema sia culturale. Confrontarsi con gli autori significa avere strumenti, non basta prendere un testo e agirlo, i livelli di lavoro sono tanti. Da una parte è difficile rapportarsi con la parola scenica perché la nostra tradizione teatrale non è lingua. Dall’altra non esiste né nelle scuole di teatro né nelle università una materia incentrata sulla lettura e l’analisi del testo. Perché Marco Praga, Massimo Bontempelli, Rosso di San Secondo, per fare alcuni nomi d’inizio secolo scorso, che trattano in alcune opere tematiche molto moderne, il nuovo teatro non li affronta? Forse nessuno li ha mai fatti incontrare?

Lo spazio sonoro di Akram Khan e Israel Galván

TOROBAKA
Fotografia di Jean-Louis Fernandez

SILVIA TORANI | Uno spazio circolare rosso, illuminato dall’alto, domina l’impianto della scena prima che la danza abbia inizio. Intorno, quattro musicisti in attesa cingono quella che sembra un’arena, un anfiteatro. Ma appena i danzatori emergono dal buio e se ne impossessano, appena i musicisti si animano e iniziano a creare, l’arena si muta in altra immagine: il disco rosso diventa la superficie tesa e vibrante di un tamburo. I movimenti e il ritmo del corpo diventano una cosa sola con la musica, la voce e le percussioni. I piedi battono a terra e seguono la sillabazione rapida del canto. Danza e musica recuperano la dimensione di esperienza fisica immersiva.

Torobaka di Akram Khan e Israel Galván apre così la ventinovesima edizione del Romaeuropa Festival all’Auditorium Conciliazione. Akram Khan, veterano del festival romano, non è nuovo a simili collaborazioni coreografiche con artisti di diverse provenienze. Questa volta il suo kathak, danza classica dell’India settentrionale, si incontra con il flamenco di Israel Galván in un intreccio coreutico che abbraccia da est a ovest un continente, passando per una selezione di brani musicali di varia origine mediterranea. Due tradizioni che dialogano tra loro e con se stesse, in una riflessione anarchica sui confini e sulla natura del corpo che danza.

Il titolo di questa performance è già una fusione di immaginari che si scoprono diversi ma compatibili, opposti ma fertili nella loro unione possibile: da una parte il toro; dall’altra la mucca. Animali simbolo di patrimoni culturali lontani. Ma l’ispirazione giunge da una poesia dada di Tristan Tzara, Totovaca, in cui il nonsense lessicale sposta la comunicazione dal livello semantico al puro ritmo delle unità sillabiche, così simile alla sillabazione che nella musica indiana fa corrispondere a ciascun gruppo di suoni un gesto equivalente sul tamburo.

Proprio il rapporto con il ritmo, la percussione, la produzione corporea del suono mette direttamente in comunicazione flamenco e kathak. Khan indossa dei sonagli alle caviglie tipici della danza indiana e Galván stivali dalle punte rinforzate in metallo. Il movimento si riappropria delle sue componenti musicali, ma anche la musica recupera la dimensione corporea che ne è alla base. Il rifiuto di un accompagnamento musicale scorporato nella registrazione si realizza nella scelta della musica dal vivo, della presenza corporea dei performer. Il suono diventa vibrazione, muscolo e diaframma. Non c’è confine tra suono e movimento: dalla platea si percepisce l’esigenza fisica di superare la distanza per immergersi nell’amalgama delle onde sonore.

E il cerchio rosso in mezzo al palco così si trasforma ancora, diventa spazio intermedio, immaginario, abitabile: uno spazio tra gli spazi. Pur nella confusione di una struttura episodica costruita per giustapposizioni, Torobaka ha l’impatto di una genesi. Un modo nuovo di declinare origini e contemporaneità. La ricerca dell’unisono non azzera le differenze; le fa dialogare, le meticcia. Khan e Galván non perdono l’identità del proprio movimento nella coordinazione dei gesti, empatici ma diversi come curva e arco.

Le straordinarie abilità interpretative degli accompagnatori musicali David Azurza, Bobote, Christine Leboutte e B.C. Manjunath, veri coprotagonisti dello spettacolo, intessono un dialogo continuo con la danza, tanto che questa appare meno efficace nei rari momenti di puro assolo, quando i performer abbandonano il cerchio dello spazio centrale. Le luci di Michael Hulls attivano di volta in volta i luoghi esterni dell’azione ma alla fine tornano a delimitare il centro, il rosso di una gabbia circolare che pone ai suoi estremi i musicisti-danzatori, toro e vacca che si fronteggiano ancora.

Videointervista a Sabine Molenaar: la realtà onirica di “That’s it”-Primavera d’Europa/02

1382981_10152294963122785_592119008_nGIULIA MURONI| Un faro caldo illumina un corpo nudo, di spalle, attorcigliato. Sopra il tavolo coperto da una tovaglia rosso rubino, un bonsai morto. Dall’altra parte della scena una poltrona e tre oggetti pendenti dal graticcio: un microfono, una parrucca e una lampada dalla foggia bizzarra.

Sabine Molenaar apre con questa immagine, di eco lynchiana, il suo assolo “That’s it”. Nel silenzio si muove spasmodica e contorta, infilandosi in un tubino sui toni del marrone. In piedi, la scomposizione del movimento a partire dalla disarticolazione degli arti conduce a estremi virtuosistici di iperestensione. Le luci laterali blu e rosse e una composizione sonora fatta di rumori, bassi e ansimi arricchiscono il quadro, già reso evocativo e inconsueto dalla qualità scomposta e elastica del corpo della danzatrice. Questa dissezione del movimento è però presto sostituita da una danza dalle movenze ampie che ha il suo focus sulle braccia e sulla schiena. È un cambio che avviene gradualmente, attraverso l’atto di indossare un abito da sera celeste, la cui lunga gonna si distende e si avvolge, creando, al muoversi, strascichi sensuali. Anche la musica si trasforma, la filigrana sonora si fa ibrida: al rumore s’intervalla un’armonia sincopata che acquista spazio fino a sostituire la composizione di rumori. La danza assume un’eco espressionista, i caratteri di drammaticità e lirismo prendono il sopravvento con una netta cesura rispetto all’astrattezza formale di poco prima. Segue un ulteriore trasformazione, scivola il vestito color pastello, Sabine si stringe in una gonna rosso cangiante, indossa una folta parrucca scura e emette suoni rochi al microfono. Immagine perturbante, in cui il magnetismo della danzatrice è esasperato, quasi compiaciuto. La danza è assente, sostituita da una gestualità sinuosa. In conclusione, tolta la parrucca, è a partire da una postura incurvata che si sviluppa una qualità di movimento che, oltre i confini estetici, affronta le possibilità espressive di una corporeità difforme. Simile per certi aspetti all’eccellente ricerca di Francesca Foscarini in Grandmother, qui Molenaar abbandona le contorsioni e le seduzioni e si confronta con una qualità fisica originale. Il ventre si gonfia a dismisura al respiro, le vertebre sporgono e le braccia tracciano disegni scomposti. Se pietà di me senti, aria tratta dal Giulio Cesare di Haendel, gremisce il quadro potente che chiude lo spettacolo.

Il tentativo è quello di calarsi tra i meandri di un sottobosco onirico popolato da mostruosità magnifiche dai contorni sfuggenti. In quest’atmosfera densa di inquietudini è un corpo in perpetua metamorfosi a vagabondare tra identità chimeriche. Un ricco disegno luci pennella con eleganza la scena: la luce colorata laterale s’alterna alla bianca frontale esterna alla scena, un fascio caldo cala a pioggia durante le rauche esalazioni e le luci della ribalta sottolineano l’enfasi di certi istanti. Se da un lato l’atmosfera è pienamente ottenuta e si assiste ad una costellazione di immagini affascinanti, d’altro canto quel modo di saltare da un personaggio all’altro rischia di inciampare in un certo autocompiacimento. Si sente la mancanza di un attraversamento coerente di anche una sola di quelle qualità, di cui ciascuna possiede un’infinita chance di risoluzioni. Molenaar è una danzatrice eclettica, in grado di destreggiarsi tra qualità fisiche differenti, e inoltre una donna bellissima. Sta tutto nel farsi carico di queste peculiarità senza che diventino uno specchio su cui ritornare, limitando così le possibilità espressive impreviste, tra cui il coraggio di affrontare ciò che è orrido e spaventoso, componenti essenziali del mondo onirico.

Nei giorni del festival Primavera d’Europa/02 abbiamo rivolto qualche domanda a Sabine Molenaar:

Anatomia ed elettronica. Un concerto per Primavera d’Europa/02

Foto di Stefano Roggero

GIULIA RANDONE | Che cosa penseresti se, nel bel mezzo di un concerto, un chitarrista abbandonasse il suo strumento per mettersi a danzare? E se i membri di una band improvvisamente interrompessero l’esecuzione di un brano per sedersi a tavola e cenare?

In Napoleon Pink Horse, della compagnia finlandese Esitystaiteen Seura (Live Art Society), succede anche questo. La performance ha inizio in maniera più tradizionale con l’ingresso dei musicisti, scalzi ed elegantemente vestiti in camicia bianca e gonna o pantaloni neri, e con un inchino di saluto al pubblico. Sul palco, allestito nel Piazzale Ex Pretura di Avigliana, salgono Pyry Nikkilä e Jani-Matti Salo: il primo inizia a suonare la chitarra, mentre il secondo accende alcune luci disseminate sulla scena. Mentre l’assolo prosegue, si uniscono a loro Miikka Ahlman (percussioni), Olli Kontulainen (chitarra) ed Elina Pirinen (tastiere), anima femminile della band. Da principio ogni musicista sembra deciso ad andare per conto proprio, ma gradualmente i suoni si intercettano, si approssimano e infine si intrecciano in un tessuto musicale dal quale scaturisce una canzone, interpretata dalla voce limpida di Pirinen. Alle armonie vocali terse faranno da contrappunto poesie di ambientazione ospedaliera, punteggiate di “parole ortopediche”, ventricoli e incontri ai raggi X; lyrics con riferimenti iconici più consuetamente romantici e arie melodiche sorrette dal flauto di Salo si vedranno rubare la scena da lunghe escursioni elettroniche in cui trionferanno tastiere e sintetizzatori (incluso un gameboy usato come modulo synth).

La suggestione anatomica, veicolata attraverso la lingua finlandese nelle canzoni (tradotte in italiano nel foglio di sala), si amplifica nella proiezione powerpoint della denominazione latina di alcune componenti del corpo umano. Alle spalle degli artisti scorrono le scritte os mandibulare, fossa subscapularis, processus coracoideus, musculus auricularis, che si scompongono per cedere il posto all’ombra di un volto umano e allo scheletro di un cavallo. Nello spazio oscurato e frazionato da tagli di luce rossa, i musicisti continuano a suonare o ad aggirarsi per il palco, illuminando i propri strumenti con lampade da testa. Mentre la musica va in crescendo e l’illuminazione diventa intermittente, i performer si fermano, immobili, sospesi, in ascolto, creature ibride e spettrali, bizzarri medici o speleologi.

Napoleon Pink Horse nasce in forma di concerto ma mira a sovvertire i perimetri rigidi del genere e a proporsi come un crocevia tra musica e poesia, canto e danza, luce e suono. Passando anche attraverso un piatto di insalata e una buona bottiglia di vino piemontese, consumati attorno a un tavolo, tra chiacchiere e risate. Un momento conviviale che alcuni spettatori vivono come una provocazione, ma che a ben vedere onora l’ambizione principale della performance: la sua vocazione all’intersezione, alle invasioni di campo. Gli aspetti più affascinanti del lavoro dei performer finlandesi sono, infatti, la ricerca di una coralità teatrale e l’urgenza di esplorare con il corpo molteplici possibilità espressive.

Il primo obiettivo si può dire raggiunto: quello a cui assistiamo è un lavoro di gruppo, di strofinamenti tra corde di chitarra, di tasti suonati a quattro mani, di contaminazioni tra canto e recitato. L’ensemble finlandese è affiatato e non teme le pause e i silenzi, tanto da scegliere di concludere il concerto silenziando progressivamente gli strumenti musicali e lasciando uno dei chitarristi a muoversi e dondolarsi da solo sul proscenio. Kontulainen, però, non è l’unico ad allontanarsi dal proprio strumento per fare danzare ossa e muscoli. In precedenza anche i compagni avevano esplorato diverse forme di movimento: il flautista e lighting designer Salo si era concentrato sulle mosse della breakdance, la vocalist e tastierista Pirinen (l’unica ad avere una formazione come danzatrice e coreografa) aveva trasformato lo sventolio di un ventaglio in una danza a tratti fluida e a tratti sincopata a margine della scena, e perfino il batterista Ahlman, sul fondo, era scivolato giù dal palco come uno degli orologi molli di Dalì.

Lo scandagliamento anatomico – affidato alla musica e alla poesia e, nel suo apice, alla danza – avrebbe potuto essere più curato e approfondito, soprattutto sul piano fisico, invece appare abbozzato e in definitiva poco convincente. È probabile che su questa e altre scelte compositive abbiano pesato i problemi di salute di uno dei componenti del gruppo, ma rimane l’impressione di un’occasione un po’ sprecata. Peccato, perché le ispirazioni erano molteplici e accattivanti.

Elina Pirinen ci racconta come è nata la versione di Napoleon Pink Horse creata appositamente per il Festival Primavera d’Europa/02 e perché hanno scelto di concludere la serata con una cover di “Ciao amore, ciao”:

Tramedautore: aperitivo con approdo postdrammatico in una Milano di fine estate

RENZO FRANCABANDERA | Sarà il tempo mite, il chiostro del Piccolo di Via Rovello che è un posto fantastico, inclusivo e che ancor più potrebbe esser sfruttato per creare e pensare socialità; sarà che in fondo questa benedetta “nuova drammaturgia” seppur a fatica un pubblico in questi anni se l’è creato; sarà che ormai da quattordici anni Tramedautore è il primo sussulto teatrale della stagione meneghina.

Sarà quel che sarà, ma il XIV Festival internazionale della nuova drammaturgia, in corso fino al prossimo 28 settembre fra il Piccolo Teatro Grassi, il Chiostro Nina Vinchi e il Teatro Studio Melato, sta incontrando un pubblico numeroso, vivace, sotto l’occhio contento dell’ideatrice storica Angela Calicchio, cui si è aggiunta da Tatiana Olear.

Il festival ogni anno sceglie un continente e alcune macroregioni di cui indagare la creazione drammaturgica. L’ispirazione eurasiarid-e1410445995877eurasiatica di questa edizione nasce dalla sommatoria delle opere selezionate al festival PIIGS, acronimo per indicare i paesi impoveriti europei, ovvero Portogallo Italia Irlanda Grecia e Spagna, ognuno rappresentato da un drammaturgo, e un focus sugli Asian Tigers, i paesi asiatici del grande boom degli anni novanta.

Quanto al progetto PIIGS, primo festival di teatro sul dramma della crisi, istituito da Perpetuummobile e Espai de creaciò Nau Ivanow, che ha commissionato cinque testi ad altrettanti autori residenti nei paesi coinvolti, il progetto ha coinvolto i più promettenti drammaturghi europei per interrogarsi sulla crisi. Registriamo il successo avuto dal testo di Davide Carnevali (Italia) con “Confessione di un ex presidente che ha portato il suo paese sull’orlo della crisi” (messo in scena da un intenso Michele Di Mauro con il notevole contributo di suoni di G.u.p. Alcaro), un monologo utopico che speriamo di ritrovare presto nelle stagioni di qualche teatro, con un produzione solida.

Abbiamo anche assistito alla messa in scena del testo di Ferran Joanmiquel Pla (Spagna) La Crida – L’appello (regia di Carolina De La Calle Casanova). Il testo è appunto un appello di quello che si scopre presto essere un attivista di destra in campagna elettorale. La consegna di volantini senza testo e con una semplice celtica dà il via ad uno spettacolo, in cui Fabiani, complice l’utilizzo del pubblico come alterità dialogica muta, sviluppa la vicenda tutta psicologica di un portatore di disagio urbano, una figura il cui portato sociale è quello della piccola borghesia travolta dalla crisi. La drammaturgia non regala vette di ironia davvero sferzante né momenti drammatici, costringendo ad un’interpretazione di emotività ondeggiante e fatta di improvvise esasperazioni di qualche piega di un testo che comunque non offre particolari slanci. Fabiani riesce meglio sui toni dell’ironia sociale, e riteniamo possibili margini di miglioramento (visto anche il poco tempo a disposizione per la preparazione) nella cifra drammatica. Il transito e la modulazione di emotività resta la chiave di lettura necessaria di questo testo, cui già evidentemente un lavoro della regia è stato dedicato, ma che ancora necessita di altro per permettere all’attore di sfuggire alla corda emotiva più consumata per trovarne una originale, lontana da eccessi interpretativi.

Bella festa poi domenica pomeriggio per il concerto gratuito del fisarmonicista Jovica Jovic, straordinario musicista rom serbo, che ha girato l’Europa con la sua fisarmonica esibendosi in teatri e balere, matrimoni e festival, qui accompagnato dalle percussioni di Petar Marinkovic e dalla voce di Francesca Biffi.

Passiamo agli Asian Tigers, e all’attenzione dedicata alle drammaturgie provenienti da Corea del Sud e Singapore, società in cui modernità economica e impostazione sociale arcaica trovano una convivenza non priva di contraddizioni.

Abbiamo assistito Martedì 23 ad una mise en espace di Best of, del drammaturgo di Singapore (regia di Tatiana Olear con Arianna Scommegna), il racconto di una giovane donna musulmana impossibilitata a ottenere il divorzio, fra vicende familiari, società multietniche e parentele borderline. Su uno sfondo di metropoli e grattacieli che alternano giorno a notte, pioggia a sole, il testo parte con una scrittura dialogica lucida e divertente per poi passare al monologo della donna alle prese con le sue difficoltà. Nella prima parte la Scommegna riesce a dare una coloritura efficace, in cui Singapore e Cinisello Balsamo sono vicinissime, e l’immigrata malese di Singapore assomiglia a quella di Milano, quasi che la giovane musulmana fosse parente stretta della sua storica Molli. Purtroppo il testo si perde poi in un monologo su famiglia e società con troppa carne al fuoco ma nulla cotto per bene, e finisce per collassare su se stesso, vanificando lo sforzo interpretativo.

Nel prossimo fine settimana, segnaliamo venerdì 26 settembre al Piccolo Teatro Grassi “La mia massa muscolare magra” di Tobia Rossi (alle ore 19.00), e poi Massimo Sgorbani con “Fiorirà la mandragola” (alle ore 21.00).

Sabato 27 settembre alle ore 16.00 debutta la produzione teatrale di Emergency: “Stupidorisiko”, testo e regia di Patrizia Pasqui con Mario Spallino, cui segue “Il partigiano Franca”, (alle 20.30) omaggio a Franca Rame con Marina De Juli.
Domenica 28 settembre gran finale con il teatro di narrazione femminile italiano: la giovane Elisa Porciatti (alle ore 16.00) con Ummonte (menzione speciale al premio Scenario 2013), e Taddrarite (Pipistrelli), miglior spettacolo al Roma Fringe Festival 2014, scritto e diretto da Luana Rondinelli (alle ore 20.30).

Mozart e Costanza: un lago magico

ELENA SCOLARI | Tre draghi alti 15 metri a fare la guardia a una tartaruga gigante, il cui dorso fa da palco (pure girevole) per Il flauto magico di W.A. Mozart. Tutto sull’acqua. Sull’acqua austriaca del lago di Costanza, a Bregenz.

Un super-evento speciale per qualche danaroso centenario? No no, credetemi: il Bregenzer Festspiele si tiene tutti gli anni dal 1946. Certo, ci ha messo decenni a diventare quello che è ora e a guadagnarsi recensioni sul New York Times, ma ora è veramente un’attrazione fa-vo-lo-sa! E sprechiamo l’aggettivo, consci che non sia enfatico, stavolta.

bregenz piccola

A Bregenz (circa 28.000 abitanti, badate bene) non c’era un teatro e così i lungimiranti sognatori pensarono di crearne uno nel punto più bello della cittadina: il lago. Cominciarono con due piccole chiatte: una per l’orchestra e una per la scenografia, e misero in scena – anzi in acqua – Bastiano e Bastiana, opera giovanile del genio mozartiano. L’idea bizzarra e azzardata venne premiata, il pubblico amò da subito questa piccola follia galleggiante, a suonare ci venne la Vienna Symphony Orchestra e di anno in anno il festival non ha fatto che crescere, sotto tutti gli aspetti: spettatori, 200.000 in media; contributi, 5.7 milioni di euro, 1.3 milioni da sponsor come Mercedes e Coca Cola e 20 milioni di budget totale; dimensioni del palco e delle tribune, 6.980 posti; attenzione dalla critica internazionale; durata della programmazione: un mese intero tra luglio e agosto e un cartellone che alterna l’opera o il musical principale (che cambia ogni 2 anni) e concerti classici; merchandising, indotto, fama… Bregenz ha anche avuto modo e fondi, nel tempo, per costruirsi teatri, sale da concerto, un centro culturale che fa perno sullo Seebuhne.

Tutto questo in una cittadina di 28.000 abitanti. La metà di Lecco, per dire, dove negli anni ’60 un coraggioso e anticonvenzionale uomo di cultura, Giacomo de Santis, colpito da una gita a Bregenz, volle copiare e fece costruire dall’Azienda di Soggiorno un palcoscenico sul lago, avveniristico per quegli anni, addirittura con i camerini subacquei, usato per due sole stagioni e poi lasciato, letteralmente, marcire.

Ma non impantaniamoci! Il flauto magico visto sul lago di Costanza merita tutto l’apparato che ci sta intorno. È stata una gioia vedere uno spettacolo così, continue sorprese sceniche: i draghi che sputano fuoco, dalle passerelle che uniscono le loro teste si calano acrobati per numeri aerei, il palco diventa improvvisamente la foresta dove Pamino si perde grazie a grossi fili d’erba gonfiabili che spuntano d’un colpo, il carapace gira, si apre e un alto cono mobile si tramuta nella gonna maestosa della regina della notte, Pamina arriva dalle acque su una barca di cristallo, una testa retrattile della tartaruga è un ponte tra il mondo della fiaba e quello della realtà. Insomma, un po’ di effettoni ci sono, sì, ma che fantasmagoria unica! Mozart non avrebbe potuto sognare di meglio, per la realizzazione di una sua opera.

Pur non addentrandoci in un giudizio tecnico sui cantanti, sembrati tutti buoni, forse nessuno davvero eccellente, possiamo affermare che il risultato complessivo è senz’altro ineccepibile. Così come lo sono gli spettatori, organizzati e armati di copertina per via del clima, e che davvero non scattano foto dopo la diffida del messaggio audio diffuso in platea! Notiamo anche che ci sono due schermi dove scorre il testo, solo in tedesco (il pubblico è prevalentemente tedesco e austriaco), il libretto è stato un po’ rimaneggiato e a giudicare dalle risate degli indigeni durante i lunghi recitativi, ci pare di capire che anche qui sia stata fatta una parziale attualizzazione dell’opera… tutto il mondo è paese.

Ci piacerebbe però che anche il nostro paese, che segue troppi pifferai, galleggiasse meglio e diventasse un po’ più magico.

Gli uomini schifosi di Bottega Bombardini -Primavera d’Europa/02

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ph: Daniele Fenoglio

GIULIA MURONI | Mamma qual è la tua paura più grande?

“Che tu mi versi l’acqua bollente mentre dormo, la tua voce (solo a volte tesoro), la famosa telefonata nel cuore della notte, il terrorismo, morire lentamente di cancro, non essere all’altezza, i miei genitali, il giudizio della gente, la merda psichica e così via…”

Prosegue il Festival Primavera d’Europa/02 e la prima compagnia ospite italiana è Bottega Bombardini con lo spettacolo “Schifosi”, a partire dall’opera omnia di David Foster Wallace. Un inizio che mette curiosità: illuminato dall’alto da un fascio verticale di luce pallida il musicista Massimo Cordovani, sempre presente sulla scena, intona “Amandoti” dei CCCP. Sulla sinistra del palco, da dietro un tavolo riverso su un lato, spunta Luca Iervolino, che prima canticchia e poi vi scrive “Capitolo 1 La madre”. Spettacolo diviso in tre quadri (Madre-Padre-Figlio) vede lo stesso Iervolino impersonare prima il figlio, poi il padre, poi il figlio divenuto padre. La madre compare soltanto nel dialogo di cui sopra. Si sente la sua voce registrata e durante lo spettacolo viene citata, apostrofata, rimpianta ma non le viene dato corpo. Emerge un ritratto della famiglia nucleare dalle tinte fosche: la madre, rea di farsi carico di un amore incondizionato, farisaico, nei confronti del figlio, finisce per togliersi la vita. A una sentenza laconica è affidato il suo addio: “Impara a fingere figlio mio, io non ci sono riuscita… Almeno non fino in fondo. La verità è che ti ho sempre odiato. Mamma”.

Ce lo racconta il figlio stesso, mentre infila compulsivamente i vestiti dentro un borsone, addolorato e arrabbiato allo stesso momento. Nel quadro successivo Iervolino indossa i panni del padre paraplegico in ospedale durante l’ultima confessione con il prete. Colmo di risentimento nei confronti del figlio, riconosce di averlo detestato dal primo momento, da quando è uscito dal corpo della moglie deformandolo dolorosamente, da quando lo spettacolo grottesco dell’allattamento è divenuto costante. Il fulcro del disprezzo è la trasformazione irreversibile della ragazza che aveva sposato in mamma a tempo pieno. D’altro canto lo sdegno si estende a tutte le manifestazioni visibili di questo figlio, che fin dall’infanzia sembra aver incantato tutti tranne il padre. Quindi il vomito, la diarrea, le croste multicolori, il muco ma anche la totale assenza di riguardo con cui ha sempre trattato il mondo. Un figlio nel quale percepisce una malignità nascosta agli occhi degli altri e che gli ha ispirato non solo l’avversione verso tutto ciò che è corporeo, ma anche un intimo disgusto. Un essere umano che si disprezza al quadrato, perché non può che suscitare un sentimento incomunicabile, di cui avere pudore. Due pause per cambio pannolone, catetere e varie esigenze fisiologiche del malato e via al terzo quadro in cui il figlio prende nuovamente la parola, ora nelle vesti di marito e di padre. Come marito, illuminato da un occhio di bue freddo, indossa il cappotto e il borsone, pronto per andare via e, rivolgendosi alla compagna, le scarica addosso la le proprie frustrazioni e infine le proprie colpe. Come padre, a partire da “Alla ricerca di un significato della vita” di Viktor Frankl, mentre prepara la colazione alla figlia discetta con lei sugli atteggiamenti standardizzati di fronte alla violenza, fino a giungere a quello più stereotipato di tutti: la sopraffazione, in questo caso fisica, dell’interlocutore critico.

Il testo di Foster Wallace non lascia scampo, con un ritmo incalzante e un acume efferato traccia le fattezze di un’antropologia laida, in cui gli egoismi e i risentimenti si rincorrono nell’allucinato quadro del dramma umano. Un testo così fecondo e una prova d’attore impegnativa sono i cardini su cui si impernia lo spettacolo, che tuttavia nel complesso presenta alcune debolezze. La soluzione registica di affrontare i cambi di scena con momenti di luce calda diffusa e sospensione della musica, in cui l’attore, con sguardo spaesato, si sposta da un personaggio all’altro, dopo la prima occorrenza appare un po’ prevedibile. I quadri sono invece intervallati dalle incursioni sonore di Massimo Cordovani, la cui presenza sulla scena risulta a tratti dissonante, come la tonalità, voluta, con cui intona i frammenti cantati. Insomma le transizioni sembrano risultare farraginose. D’altro canto va sottolineata la capacità di Luca Iervolino di tenere le fila dello spettacolo, alternando con energia i vari personaggi, benché talvolta sia calcata un po’ la mano sui caratteri, già affrescati in modo piuttosto netto.

Abbiamo chiacchierato con il regista Rosario Sparno e l’attore Luca Iervolino a proposito di quanto si faccia tutti un po’ schifo…

 

Il «Novecento» tarantolato di Corrado d’Elia

corradoVINCENZO SARDELLI | «Non si è mai completamente fregati finché si ha una buona storia da raccontare». Ad aprire la stagione 2014/15 del Teatro Libero di Milano è Novecento, allestimento tratto da quello che è forse il miglior lavoro di Alessandro Baricco. Se in scena c’è quel mattatore di Corrado d’Elia, autore di una serie di monologhi capaci, con soggetti, stili e sfumature diverse di appassionare un pubblico eterogeneo, il successo sembra garantito. Invece questo Novecento ci lascia una piccola smorfia.
È noto il soggetto, concepito da Baricco proprio per il teatro. Negli anni tra le guerre mondiali Danny Boormann T.D. Lemon Novecento, abbandonato sulla nave dai genitori e ritrovato sopra un pianoforte da un marinaio, trascorre la sua esistenza a bordo del transatlantico Virginian, senza trovare mai il coraggio di scendere a terra. Impara a suonare il piano da solo, un autentico genio. Vive di musica e dei racconti dei passeggeri. Sulla nave, Novecento coglie l’anima del mondo e la traduce in musica jazz.
D’Elia, in questo suo esito storico che ha girato letteralmente l’Italia negli anni passati e che torna ora al Teatro Libero in apertura di stagione, dissemina la scena di cubi bianchi a mo’ d’isole o piedistalli. Sullo sfondo, cinque pannelli verticali, alla cui base stanno fari neri, evocano tasti di pianoforte.
L’attore è un istrione color tabacco, pantaloni di velluto, cravatta, impermeabile e cappello scuri. Luci dorate o cobalto esasperano quel senso di retrò di un racconto che viaggia dalla Bélle Epoque alle macerie della Seconda Guerra Mondiale. In mezzo ricordi, nostalgie e speranze. La nave corre sull’oceano, le vite scorrono sulla nave.
C’è un paradosso negli album di e con Corrado d’Elia, Beethoven, Redenta Tiria, Non chiamatemi maestro o Notti bianche: quanto più il protagonista rimane immobile, tanto più trascina lo spettatore in un vortice di paesaggi e luoghi dell’anima.
Qui recita con il corpo, occhi allampanati, registri vocali che spaziano da tonalità soffuse a lazzi, urla e risate. L’accento è anch’esso un crogiuolo di timbri irriconoscibili. L’attore strascica le vocali, le allunga, le arrotonda in bocca. È la lingua di chi emigra, un misto impreciso di veneto e trentino che s’impasta a musiche americane anni Venti e Trenta. Un’epoca passata, pensata con gli occhi di oggi. Nulla di documentaristico, però.
C’è un paradosso nel libro di Baricco. Il protagonista è inchiodato in quella nave, con un oblò sull’infinito che la musica amplifica. L’umanità, quella individuale, quella sul Virginian, è ciò che apre alla vita e all’assoluto, in una sorta di sospensione mistica che è atarassia, sprigionata dal cuore attraverso l’arte. E allora ti chiedi che bisogno ci sia, qui, nella messinscena del Libero, di tutto quel volteggiare dell’attore, caricato, grottesco.
D’Elia asseconda la pancia del pubblico. Divaga. Un po’ troppo per i nostri gusti, per come lo conosciamo, per quel minimo confronto con Eugenio Allegri e Arnoldo Foà, precursori di questo monologo per le cui corde Baricco l’aveva tarato. Questo Novecento è l’interpretazione tarantolata di un caratterista, che riduce ai minimi termini la parte lirica intrinseca nel testo.
L’appassionato soliloquio finale non controbilancia questo mulinello: è prolisso, ci si perde. Anche la musica appare meno studiata degli spettacoli venuti dopo, nella creazione di D’Elia. Non sostiene la recitazione. Proprio quando il ritmo diventa incalzante, le note si fanno rarefatte e blande.
In Baricco Novecento è prigioniero di una nave e il mondo gli sfila, dinanzi e dentro. Nella versione di d’Elia invece è Novecento a sfilare, si mette al centro. Rinnega quel profilo basso che era il suo marchio più autentico. E ci viene in mente anche la versione cinematografica di Tornatore, il pianoforte assorto e trascinante di Morricone. Anche lì il protagonista non si agita. Piuttosto è la sua musica a evadere, ballando con l’oceano.

“Sorry times are chang’d”. Dentro il “King Arthur” di Motus/Sezione Aurea

arthur22FRANCESCA GIULIANI | La passione che confonde, il desiderio che trasfigura la realtà, il sentire e il vedere che si mescolano continuamente tra la scena e il video proiettato, tra le parole cantate e le parole recitate: è la riscrittura del King Arthur di John Dryden/Henry Purcell messa in scena da Motus/Sezione Aurea in occasione della Sagra Malatestiana 2014 a Rimini. Rispetto ai cinque atti della drammatic opera del 1684, il drammaturgo Luca Scarlini e i registi, Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, costruiscono la scena evidenziandone la dualità, non solo nel sovraffollamento di realtà immaginate che si duplicano tra scena e video, ma anche riflettendo sulla meta-teatralità stessa dell’opera che rimanda continuamente ad azioni e a personaggi di shakespeariana memoria, e in particolare a La Tempesta, ultimo testo con il quale si è confrontata l’opera del gruppo riminese. È nella coppia Emmeline/Silvia Calderoni e King Arthur/Glen Çaçi, non vedente per sortilegio la prima, incendiata e spossata dal raggiungimento del potere la seconda, che la realtà/irrealtà delle visioni si gioca. “Ricorda che tutto è illusione. Va avanti.”, dice, nel quarto atto, Merlino ad Arthur.

Come se tutto fosse già accaduto e non restassero che le immagini dei personaggi a dominare, il palcoscenico è cosparso di rosso sangue. La guerra è già passata, la foresta è già stata distrutta e pochi alberi nudi abitano la scena. Entrano i musicisti e, in mezzo alla boscaglia, si siedono. Le luci sono penetranti e, nella semioscurità, il fondo s’illumina. Una sorta di corridoio antecedente la scena si popola di figure che, riprese in diretta dalla videocamere di Andrea Gallo, si duplicano nel video che sovrasta l’ingresso a quella stanza transitoria. Poi altre immagini, boschi e deserti quotidiani fatti di resti architettonici in decomposizione, popolano il video che intreccia il reale all’immaginario, a quel mondo che Emmeline percepisce ma non può vedere. King Arthur è fin dal primo ingresso il giocoliere che tenta di tenere in equilibrio sulla fronte quella spada che sconfiggerà i Sassoni durante le fanciullesche scorribande tra i bui boschi dei colli riminesi e le claunesche ritmiche di clave che volteggiano in aria; ma è anche un writers che sfida a singolar tenzone il suo rivale, battendosi a colpi di spray che gridano, tingendo di rosso, versi di Dryden sui muri. “Sorry times are chang’d” spicca tra gli altri graffiti, mentre in scena Emmeline si sfila le lenti a contatto e, novella Eugenia al contrario, si meraviglia di quel mondo che pur non riconoscibile allo sguardo, nella paura è la bellezza di un cielo stellato a stupirla. Di quel mondo, però, vedrà fin da subito, non la realtà, ma una sua messa in scena: sarà Oswald, una sorta di Amleto, che non dispiega ma nasconde in foschi paesaggi invernali la verità, a mettere in scena una favola cantata per corrompere il suo amore.

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“Fuck” l’unica risposta possibile di questa Emmeline. E quella parola, scritta sulle esili cosce, si mostra nella ripresa video mentre Silvia in posa statuaria discosta il lungo abito di pizzo nero, disegnato da Antonio Marras, che la avvolge. Quasi muta, nell’attraversamento di una scena che sembra non appartenerle, è nel tentennamento di azioni non ostentate ma calibrate nei gesti e nelle pose che la sua figura prende forza, mentre la scena viene avvolta dalle note del magistralmente eseguite dall’ensamble di Sezione Aurea. Tra nebbie di fumo e semioscurità che accendono il buio, tra riflessi accecanti di specchi e lampi di volti proiettati, si consuma il King Arthur di Motus, che rinverdito e purificato degli orpelli barocchi, riporta dopo decenni in Italia la semi-opera di Dryden.

Il “miracolo” Altofest. Al via la quarta edizione

MARGIOTTASALVATORE MARGIOTTA | All’interno del solare giardino de La Controra Hostel si è svolta la conferenza di presentazione per la quarta edizione di Altofest, Festival Internazionale d’Arti Performative e Interventi Trasversali.
La squadra di TeatrInGestAzione, capitanata da Anna Gesualdi e Giovanni Trono, ha illustrato programma e intenti del nuovo cartellone, come sempre ricco e articolato. Performance, residenze site-specific, installazioni, interventi e supervisione di un Osservatorio Critico compongono infatti la kermesse di quest’anno che avrà luogo dal 22 al 28 settembre.
Rewriting spaces è il tema, oltreché la riflessione, che accompagnerà l’intera edizione 2014, cominciata già in sede organizzativa sotto i migliori auspici (200 adesioni da 44 nazioni diverse).
«Altofest – recita uno dei testi introduttivi – s’interroga in maniera radicale sulla necessità di ridisegnare la relazione con i luoghi, di sovvertire l’uso di spazi e l’attribuzione fissa di ruoli, di osare sconfinamenti (di genere, di disciplina, di competenza, d’azione) mai tentati; e invita gli artisti ad entrare in dialogo con questa riflessione, per declinare una propria definizione del concetto di “riqualificazione” riferibile al proprio progetto artistico».
“Riscrivere lo spazio”, quindi. Riscrivere non come semplice rimodulazione estetica di luoghi extrateatrali pre-esistenti, ma rielaborare lo spazio abitato di una città, Napoli, che storicamente e ciclicamente ridefinisce i suoi confini sempre in bilico tra tradizione e internazionalità. Si tratta dunque di sollevare una – forse LA – domanda da condividere con artisti e spettatori: è possibile nel quotidiano riscrivere i nostri spazi affrancandoci dalle istituzioni, evitando così di vivere nel contesto di decisioni assunte da altri?
Quella della riscrittura è una questione che inevitabilmente va ad investire un altro aspetto, quello relazionale, quello cioè del rapporto che “strategicamente” va instaurandosi tra artista-performer espettatore-abitante della città. La scintilla che permette l’innescarsi di tale relazione scocca intornoall’idea del dono. Altofest, con i suoi quaranta luoghi dislocati in quattro diverse municipalità,è strutturalmente, politicamente ed eticamente retto sulla totale disponibilità di alcuni abitanti- spettatori a donare la propria abitazione agli artisti ospitati.

È chiaro che non si tratta semplicemente di rendere disponibile un luogo ed accogliere una performance in un ambiente domestico, ma di condividere un’esperienza nel senso più intimo e profondo del termine. Questo del “dono” – come precisato dagli stessi organizzatori – è «il tassello di una vera e propria rivoluzione perché è un atto che di fatto elimina ogni forma di mediazione, smonta ogni convenzione in quanto i donatori, e così – di conseguenza – gli artisti a loro volta donatori di opere, svelano i momenti più autentici e intimi della loro vita, altrimenti inaccessibili». In quest’ottica “donare un luogo” significa dare il la alla preparazione di un terreno fertile sul quale rendere possibile un nuovo incontro, una nuova esperienza di incontro, tra artista e donatore prima, e tra gli abitanti-spettatori poi, favorendo – ed è questo l’obiettivo ultimo – un superamento e un sovvertimento dei valori con cui solitamente una comunità è costretta a vivere nel segno della creazione di un’opera collettiva nella quale ognuno è autore di un intervento diverso, a seconda del grado di coinvolgimento (organizzativo, artistico,
emotivo). Quanto auspicato è l’accadimento di un vero e proprio miracolo. Non a caso “It’s a Miracle” è il motto-guida scelto per questa nuova edizione che si preannuncia succulenta e generosa più che mai.