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venerdì, Maggio 9, 2025
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Reading Club: cultura digitale a Parigi fra spettacolo e lettura

L411xH345_jpg_annie-285c2SIMONA POLVANI | Per raggiungere il Jeu de Paume, si costeggiano le mura del Jardin des Tuileries dalla parte di Place de la Concorde, sfolgorante. È qui che va in scena Reading Club “Avant et Maintenant”, Raymond Queneau, uno degli eventi performativi dell’esposizione online “Erreur d’impression. Publier à l’ère du numérique” (fino a marzo 2014), curata da Alessandro Ludovico.

Due schermi sono posizionati sulla parete di fronte alla platea, sotto, dietro una lunga scrivania, davanti a due computer, sono seduti Emmanuel Guez e Annie Abrahams, gli ideatori di Reading Club. Spiegano le regole del gioco. È stato scelto un brano di Queneau, dai suoi celeberrimi “Esercizi di stile”. In contemporanea si svolgeranno due performance, una sul testo originale in francese e l’altra sulla traduzione in inglese. Per ognuno, quattro autori non presenti in sala, in un tempo stabilito di venti minuti, saranno impegnati ad agire a distanza sul testo, che non potrà mai superare i 1.300 caratteri.

Dal momento in cui la performance ha inizio, nella penombra lucida della proiezione, immersi nell’ambiente sonoro elettronico e ipnotico creato per l’occasione da Christian Vialard, i testi di Queneau diventano mobili, colorati, mutano. Da subito l’originale si frattura, sotto le sferzate di serpentine di parole evidenziate in rosso, blu, verde, fucsia, giallo, arancio, rosa, viola (ogni lettore ha un colore identificativo per la scrittura), frasi ficcate d’impeto nel testo, inserite seguendo il filo semantico di Queneau, o trapiantate come corpi estranei. Assistiamo a tutta una gamma di manipolazioni, riconosciamo varie figure retoriche all’opera, registri e toni, per un testo fluttuante che si smaglia e ricompatta ad ogni secondo. Lettura, riscrittura e cancellatura, lire, récrire et effacer: sono i gesti febbrili che percepiamo. Ogni autore fa esercizio di un’azione che può apparire arbitraria e violenta, cancellare lo scritto altrui. In questa ludica battaglia, si sentono dietro i Fight, i pugni. Il mio occhio di spettatrice segue vorace gli schermi. Difficile afferrare l’insieme, seguire le due azioni in simultanea, ci si sforza per non perdere niente, una parola che cambia, un rigo e un colore che scompare, con il disappunto per dover rinunciare a una frase che ci ha toccati. Accade che un autore entri nel tempo della performance con una sorta di countdown, che rivolga domande alla platea, o che ti folgori con un commento così: “ça a toujours quelque chose d’extrême un poème” (ha sempre qualcosa di estremo una poesia).

Quando, allo scoccare dei venti minuti, tutto si ferma, siamo colti di sorpresa. L’attenzione completamente assorbita dalla metamorfosi dei testi, si è impreparati. Abbiamo fatto esperienza estetica di un tempo denso e vivo che richiede estrema attenzione, mettendo in tensione, e insieme scorre alla velocità del lampo.

Sugli schermi i testi adesso sono stabili, non si muovono più, in apparenza. Lontani da quello dell’origine, che difficilmente potrà riconoscersi, come un’immagine in uno specchio frantumato, hanno tuttavia una fermezza e solidità relativa. L’impressione è che messi in movimento dai lettori-autori, procedano ormai con moto inerziale, destinato a non arrestarsi, e come se ogni parola aggiunta fosse un cratere di vulcano aperto, pronto a eruttare altra energia.

Decido di seguire on line la sessione del 6 dicembre a Oudeis, Le Vigan, nell’ambito di NOW HERE, quinta edizione dei Rencontres des arts numériques, électroniques et médiatiques. Non ci sono autori in rete. Per la prima volta è proposta una installazione in cui persone del pubblico sono invitate a sessioni di 15 minuti su uno stesso testo, con differenti obblighi di lettura/scrittura. L’autore scelto è Marshall McLuhan. Su un estratto dall’opera “Counterblast” (1959), i lettori si confrontano con esiti alquanto straordinari, in cui l’espressività di McLuhan e il suo pensiero sull’avvento della stampa, della radio, della televisione, messe in connessione con lo sviluppo sensoriale, si prestano all’invenzione pura, alla riflessione, all’attualizzazione. “Et un iphone ? avec des petites touches à écriture automatique ? On choisit les mots pour toi au cas où tu ne saches plus écrire ou simplement penser” (E un Iphone? Con tastini a scrittura automatica? Sceglie le parole per te in caso tu non sappia più scrivere o anche solo pensare) è uno dei commenti immessi nel testo, a evidenziare il paradosso della relazione con alcuni strumenti tecnologici a tutti gli effetti ormai nostre estensioni-protesi, che con l’intento di semplificarci la vita, rischiano di compromettere alcune delle facoltà primarie che ci rendono uomini.

Guardando all’esperienza delle varie sessioni, Reading Club mette in atto un processo di lettura e scrittura che si fa e si disfa incessantemente. Presenta una commistione di varie istanze, in cui ogni lettore pare influenzare ed essere influenzato dal processo stesso. Il testo punto di partenza diventa territorio in cui misurarsi con se stessi e con gli altri. Il testo punto di arrivo è un crogiolo di stili, idee, tracce per tanti altri testi. Un’opera composita e dis-organica (ed in ciò risiede la sua forza), con interpunzioni metaletterarie – la consapevolezza di stare partecipando a una riscrittura, il riferimento spesso presente ai vari obblighi, il tempo che trascorre – contaminazioni con la presenza dell’altro, lontana o faccia a faccia.

Se una delle caratteristiche della performance è costituita dal corpo del performer che si mette in gioco e rischia, in un continua esposizione all’azzardo se non al pericolo, il performer-autore, il cui corpo materiale è invisibile oppure al sicuro, si espone con il corpo delle parole, che acquistano fisicità sensibile in quel corpo a corpo, farsi spazio per esistere, e nella condanna a morte tramite la cancellatura, ossia nella scomparsa. Performative e performer siano le stesse parole, oggetti on line e visibili, che sorgono, si manifestano, scompaiano o rimangano, e danno senso, con la loro presenza o il vuoto che lasciano.

Nel mal d’autore e di personalismo presenzialistico nella nostra era social network, Reading Club configura un modo di “essere assieme” nel web in cui l’identità personale lascia spazio alla comunità, l’individua(lizza)zione alla collettivizzazione per una nuova forma di esperienza artistica in cui l’autore è un soggetto partecipato.

Elena Bucci sulle tracce della Duse: alla ricerca dell’essere attrice e donna

Elena Bucci-Duse-foto Nomadea 10LAURA NOVELLI | Un assolo concertato. O meglio: un concerto per corpo e voce che riscrive la biografia di Eleonora Duse sulla fisicità e la vocalità di un’attrice profondamente intensa quale è Elena Bucci. Affidato alle sue corde espressive questo “Non sentire il male” – lavoro de “Le Belle Bandiere” ideato oltre dieci anni fa e mai abbandonato da allora, tanto da divenire un compagno di viaggio in continua trasformazione – suggerisce l’idea di un affondo dentro di sé attraverso la passione, l’ardore, l’idealismo, la forza, la modernità della più grande attrice italiana di tutti i tempi. Il terreno su cui si gioca l’incontro tra le due artiste, l’attrice di ieri e quella di oggi, non può ovviamente che essere il teatro. Tanto che esso non solo costituisce qui la materia del monologo ma ne rappresenta la sostanza formale stessa, la sua “stoffa”, in una armonica tessitura tra il filo “di cui si parla” e il filo “attraverso cui si parla”.

E a parlare per prima è la voce della Bucci/Duse: pura voce che nel buio vuoto del palcoscenico precede l’entrata in scena dell’attrice, quasi a voler definire sin da subito lo spazio “altro” dove si muove l’arte, e dove l’arte autentica sublima – appunto – la fisicità dei suoi stessi artefici. Ma questo corpo sottratto, timido, cauto che occupa senza fretta il recinto ombroso della recitazione, in uno splendido gioco di luci disegnato dal compianto Maurizio Viani (e reso possibile dal bravo Max Mugnai), ricorda innanzitutto – o semplicemente – lo stile della Duse. Uno stile nervoso, tremante, sottoesposto, spezzato, che tanta novità portò sulla scena italiana di fine ‘800, monopolizzata dal carisma istrionico del grande attore e, ancor più, da quello statuario della “grande attrice”.

Scrivendo per e su se stessa la drammaturgia della piéce, la Bucci (che ha rielaborato lettere autografe, documenti d’archivio, recensioni senza rinunciare però ad una propria libera visione) ci tira dunque immediatamente dentro la genialità controversa, e spesso incompresa, della sua eroina. Ne anticipa la cifra stilistica con la sua assenza/presenza iniziale. Ne veste i panni con assoluta compenetrazione, scivolando in un lungo cappotto scuro che poi lascerà scoprire un fasciante abito da sera. Ne racconta stralci di vita partendo da quel letto di morte in cui la Duse, assistita dalla fedele amica Matilde Serao, salutò le sue illusioni più grandi. Ne ripercorre sentimenti, frustrazioni ed emozioni offrendoci al contempo il punto di vista dell’attrice e quello di alcuni degli uomini che ella amò e per i quali soffrì (Martino Cafiero, Arrigo Boito, Gabriele D’Annunzio), come in un rispecchiamento imprescindibile tra realtà e finzione. Come se, in definitiva, Eleonora senza scena non potesse consistere (impossibile non ricordare lo splendido libro di Mirella Schino “Il teatro di Eleonora Duse”).

Dunque, l’attrice di ieri e quella di ieri sembrano, sono, diventano la stessa cosa: un’anima alla ricerca di un grumo di verità nel paradossale ossequio alla non-verità della scena. E non è caso che questa sommessa evocazione monologante (vista al teatro Argot di Roma) esca volentieri dal suo tracciato prevedibile per mostrarci proprio l’artificio della creazione teatrale: quel metodo recitativo, scientifico e al contempo istintivo, che dette alle “donne” della Duse l’esistenza vibrante delle frasi ripetute, del corpo ricurvo, delle gambe accavallate, delle mani passate sul volto o tra i capelli. Un metodo senza metodo. Un flusso di ispirazione di cui pochi intuirono la modernità e che si traduce, attraverso lo “stile” della Bucci (a gennaio in tournée con “Antigone, ovvero una strategia del rito”, www.lebellebandiere.it) , in una gestualità e in una vocalità studiate nei minimi dettagli, modulate su registri bassi e sempre variati, spinte su pose e toni volutamente poco naturali ma di sicuro effetto espressivo. Forse in alcuni passaggi si avverte un’enfasi che rischia di appesantire la fruizione del lavoro. Motivo per cui, secondo noi, la bravura dell’interprete, capace di una rara plasticità, risulta ancora più ammirabile in quei momenti di briosa ironia in cui il pathos del monologo inciampa in una prospettiva sbieca e più leggera. Probabilmente la Duse era anche questa leggerezza, questa voglia di abitare il mondo e il palcoscenico distaccandosene per rincorrere un altrove da cui ridere – o sorridere – della vita.

Meno male che Rocco c’è

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ALESSANDRO MASTANDREA | Chi sperava che i family days di qualche anno addietro  fossero bastati, da soli, a ridare slancio alla famiglia in quanto istituzione, a rimetterla al centro del dibattito politico e civile,  prima cellula fondante della nostra società, sarà rimasto indubbiamente deluso. Complice la crisi economica, la famiglia, e con essa la coppia (rigorosamente uomo-donna), sembra essere posta sotto assedio, con rimedi come la solidarietà generazionale ridotti  a poco più che palliativi.  Se il tentativo di soccorso messo in atto dalla politica, in favore della famiglia, si è dimostrato fallimentare, per la coppia, suo nucleo centrale, un aiuto inaspettato giunge dalla televisione nella sua veste più rassicurante.

Data tuttavia l’eccezionalità del momento, le misure da questa messe in campo non potevano che essere straordinarie. Se è vero infatti che “quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare”, non rimane allora che affidarsi a Rocco Siffredi, figura straordinaria nel panorama culturale italiano.

Che Rocco sia uomo poco avvezzo ai giri di parole è cosa nota a molti, egli ama andare subito al sodo e, nel caso specifico, irrompere nella vita delle coppie in crisi senza troppi preamboli. Via dunque  psicologi e dottori, come vuole il canone classico della TV, perché al fac-totum di “Ci pensa Rocco” non occorre l’assistenza di nessuno, la sua specializzazione in problemi affettivi l’ha guadagnata sul campo. La sua, come dimostrano i numerosi promo lanciati prima della messa in onda del programma, è stata una vera e propria ricerca spirituale, che se proprio non ascetica, l’ha reso un vivo sostenitore di una epistemologia del fare contrapposta a quella del solo sapere, demandando alla pratica sul campo la risoluzione dei problemi della coppia. Se dunque le circostanze della vita, il trascorrere del tempo e i ritmi stressanti, hanno logorato il vostro rapporto di coppia, non rimane che Rocco, unico vero specialista nel campo dell’amore.
Se è vero infatti che un libro non va giudicato dalla copertina e un attore da quella di un dvd, Rocco dimostra doti romantiche inaspettate, tali da contagiare chi gli sta attorno. Messa in un cantuccio la sua indole più hard, eccolo dunque scatenarsi nella sua versione soft: nessuna telecamera che si infila nell’intimità notturna dei due, quindi, piuttosto situazioni romantiche e giochi creati su misura delle singole coppie.  Giochi, situazioni e ambienti che difficilmente si ripetono tra una puntata e l’altra, una mancanza di schemi e liturgie che la differenziano dalla TV canonica. Quello che in fondo conta sono le situazioni, messe in scena ad arte e dotate di quel sano nonsense che tanto richiamano i più felici espedienti narrativi dei film tanto cari al Nostro. Una visione non certo tutta rose e fiori quella di questo novello dottor stranamore. Se da un lato dunque ci viene risparmiato l’immancabile commento degli esperti specialisti, Rocco non sa resistere alla tentazione di mettere un po’ di pepe tra i due. Va bene dunque la riscoperta del bacio come terapia votata alla riconquista di una certa romantica intimità, oppure le lettere e i video-messaggi in cui ripromettersi eterno amore, meglio però se intramezzati dal libero sfogo delle proprie pulsioni e fantasie,  esibite in favore degli sguardi sorpresi di ignari passanti o all’interno di feste di scambisti. Per quanto bizzarra risulti la terapia, le coppie sembrano rispondere bene, a conferma del fatto che il pubblico televisivo sa dimostrarsi più smaliziato di quanto la TV generalista non sappia.
Sovente, infatti, è proprio la donna a prendere in mano la situazione, nel tentativo di rinfocolare il desiderio sopito del consorte. Nel malaugurato caso che la controparte maschile si dimostri insensibile agli stratagemmi più spregiudicati (con lei che non disdegna di vestirsi come la tal professoressa delle superiori, o di cambiare, audacemente, la propria biancheria intima all’interno di un bar affollato)  Rocco non ha tema di utilizzare la necessaria terapia d’urto, mettendo in scena, a casa della coppia e con tanto di bara, il funerale del vecchio “lui”. Nel caso specifico Sandro da Roma, quello insensibile alle esigenze della compagna, l’eterno bambino che ha dimenticato come si bacia una moglie e troppo spesso manchevole nei preliminari più intimi. In tali circostanze il cambiamento (il trapasso) non è facile o indolore, ma per amore si è disposti a tutto, anche a morire, se necessario.
Non prima, tuttavia, che il povero “io” morente di Sandro, un attimo prima di esalare l’ultimo respiro,  in un disperato finale scaramantico, abbia toccato con vivace e soddisfatta insistenza i “gioielli di famiglia”. A riprova che “in amore come in guerra tutto è concesso”, a maggior ragione in TV.

Qualche reperto interessante.

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“Murmures des Murs”, magia circense made in Chaplin

murmuresVINCENZO SARDELLI | Un teatro sospeso nel sogno. Le molteplici ambiguità di una scena immaginifica, imprevedibile e mutevole, che presenta luoghi dove tutto è possibile. È Murmures des Murs, spettacolo di scena al Teatro dell’Arte di Milano fino al 6 gennaio.

La notte creata dalla luci è spazio metafisico fatto di piazze, palazzi, case, interni più o meno precari. L’immagine indefinita è viatico all’immaginazione. Sono paesaggi di fantasmi, proiezioni dell’anima.

Aurélia Thierrée, diretta dalla madre Victoria Thierrée Chaplin, è la protagonista di questo viaggio attraverso città abbandonate che prendono vita grazie a favolosi giochi scenografici. Il punto di partenza sono le immagini create da Victoria, che Aurélia mette in scena. E stiamo parlando della figlia e della nipote del grande Charlot.

Grandioso è anche questo puzzle che si compone lentamente di pezzo in pezzo partendo da pluriball e cartoni, per animare mostri, inquietudini, sogni d’amore, ad esempio nella forma di una Giulietta al balcone. Uno spettacolo in continuo movimento, come un cartone animato giapponese di Miyazaki. Gli oggetti, i luoghi, i costumi e le persone scivolano, appaiono, scompaiono.

Fumo e polvere, treni di scatole di cartone, draghi, gatti e uomini pesce. Tip-tap in parrucca e danze illuminate. Tempeste di cellophane creano distese d’acqua, bozzoli dentro cui germogliano mostri fiabeschi. Alti edifici o interi isolati, giardini e panni distesi sui fili ad asciugare, nascono, rullano, collassano. I fili diventano trapezi per equilibristi. Scivolano dentro e fuori dal palcoscenico, risucchiando ed espellendo personaggi fantastici: una sorta di mantide religiosa; uno strano uccello il cui capo è un mantice; un serpente marino dalle spire avvolgenti.

Arrampicandosi sulle facciate degli edifici Aurélia, con i suoi occhi stralunati da diva del cinema muto, incontra figure irreali e si immerge in storie intrappolate nei “mormorii delle pareti”. Annega tra barche volanti, salvata da un principe che non atterra mai sul morbido.

Fughe, trucchi, ombre, acrobazie. Trovate esilaranti. Un susseguirsi di scene deliziose, tra clownerie ed effetti illusionistici, il tutto senza pronunciare una parola. È il paradiso di chi crede nei sogni. Le pareti si scrostano e si animano. Mummie ibride trovano la vita attraverso gli affetti o gli effluvi dell’alcol, al suono di note d’archi e pianoforte. È un carosello di pertugi attraverso cui Aurélia, eterea, compare e scompare. I suoi costumi cadono a pezzi. Fanno spazio a mille travestimenti.

Virtuosismo ed eleganza contraddistinguono anche le performance del danzatore Jaime Martinez e del clown-acrobata Magnus Jakobsson, protagonisti sulla scena realizzata da Etienne Bousquet e Gerd Walter.

Un universo straniante di poesia, illusione, angoscia e persecuzione. Il desiderio di scoperta è già sul palco: tra gli attori, prima ancora che nel pubblico.

Viaggio nell’immaginario, o dentro la follia? Difficile trovare il discrimine. Nell’epoca dell’esasperazione tecnologica, questo teatro artigianale come il cinema dell’epopea propone illusione e ingegno creativo. A dar corpo allo spettacolo le musiche di Phillip Glass, che attingono alla lirica e persino alla canzone napoletana, in una dimensione senza spazio né tempo.

75 minuti di pura illusione. Un mondo effimero, ingannevole come bolle di sapone. Ideale per accompagnare le atmosfere natalizie.

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Alessandro Sciarroni a viso aperto: la videointervista

Sciarroni_photo  Alfredo  Anceschi
Sciarroni_photo Alfredo Anceschi

RENZO FRANCABANDERA | Il 2013 si sta chiudendo e sicuramente fra i protagonisti dell’anno nel campo delle arti performative non può non menzionarsi Alessandro Sciarroni.

Il suo lavoro, da molti anni ormai al confine fra più generi, ha riscosso un interesse pressoché univoco fra gli addetti ai lavori e il pubblico, e il suo Untitled è stato programmato in moltissimi festival estivi, da Dro a Bassano, e poi in Sardegna per Autunno Danza, per menzionare davvero occorrenze di latitudini diversissime in Italia, ma le date anche all’estero non sono mancate. E il 2014 si apre all’insegna di una tournée europea che porterà i suoi “Folks” e “Untitled” da Bruxelles a Parigi, da Zurigo a Lione, da Napoli a Milano.

La video intervista realizzata a Bassano con il supporto di B.Motion Danza 2013 è un confronto a tutto campo con l’artista, insignito pochi giorni fa del premio di Rete Critica presso il Piccolo Teatro di Milano durante la consegna dei Premi UBU 2013. L’artista parla di tutti i temi della sua creatività, dal confine fra le arti al rapporto col pubblico, dalle paure all’origine della creazione all’evoluzione del suo linguaggio dai primi spettacoli ad oggi, in un excursus di particolare ricchezza e apertura.

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A Roma un altro circo: i burattini acrobati di Girovago e Rondella

grBRUNA MONACO | Ai romani che vogliano godersi le vacanze assecondando il clima natalizio e facendo divertire i propri figli, l’Auditorium offre una bella opportunità: in via Norvegia, proprio di fronte al Parco della Musica, c’è ancora per qualche giorno un grande tendone da circo, pronto ad accogliere famiglie e vecchi amanti delle arti circensi. Quel tendone è una casa per la compagnia itinerante Circo El Grito, che insieme alla Fondazione Musica per Roma ha organizzato la rassegna Eccì El Grito Christmas Circus, e che fino al 6 gennaio ospiterà numerosi artisti e spettacoli.

Spesso andando al circo ci si aspetta di vedere numeri di giocoleria, acrobatica, funamboli e mangiafuoco. Ma che succede se, arrivando, ci si ritrova davanti un palcoscenico grande quanto una scrivania? Nessun problema, se lo spettacolo che si sta per vedere è di Girovago e Rondella ci saranno i giocolieri, i funamboli gli acrobati e anche i mangiafuoco su una scena d’un metro quadrato o poco più. Ci sarà tutto, letteralmente, a portata di mano. Quelli di Mano Viva (spettacolo andato in scena dal 19 al 22 dicembre) sono due veri e propri burattini-mano: indice e anulare per braccia, pollice e mignolo per gambe, sul medio la testa. A chi non è mai capitato di vedere, in strada, a piazza Navona, a Las Ramblas di Barcellona o chissà dove ancora un piccolo spettacolo con burattini-mano? Beh, quell’idea che a tutti è parsa geniale è stata brevettata da Marco Grignani e Federica Lacomba (in arte Girovago e Rondella) tanti anni fa e poi, imitata su larga scala, si è diffusa a macchia d’olio. I due burattini-mano si esibiscono in una lunga serie di noti numeri circensi. Sono ironici e ben più flessibili dei colleghi “attori a tutto corpo”. Girovago e Rondella articolano con precisione ogni falange e hanno uno spiccato senso del ritmo. Non sono le mani le uniche protagoniste della scena, infatti, ma la musica, che sostituisce le parole e crea un’atmosfera magica e intima nel grande tendone, ha un ruolo preponderante. In uno sketch il nostro burattino è addirittura un one man concert. Ma quando non suonano direttamente e “drammaturgicamente” i burattini-mano sono comunque e sempre parte integrante dell’apparato musicale: seguono il ritmo, lo danno o lo sottolineano con movimenti secchi. Accanto a loro, immediatamente sotto il palchetto ci sono i musicisti veri: percussioni e fisarmonica intrecciano tessuto ritmico e melodico in un dialogo denso e fitto fra di loro e con i burattini. Alle percussioni c’è Timoteo Grignani, il figlio di Girovago e Rondella. Tommaso, l’altro figlio si occupa delle luci. E Rugiada, la terza figlia che non si vede in questo spettacolo, fa anche parte della compagnia che non a caso si definisce una family theater.

Se la prima parte di Mano Viva è un susseguirsi di numeri da spettacolo di circo tradizionale in miniatura (per le dimensioni degli interpreti e per la durata di ogni gag), a un certo punto la natura degli sketch cambia: esaurito il repertorio di numeri iniziano le scenette narrative. Si tratta di piccoli racconti morali o di storielle esili, in entrambi i casi la trama è solo un supporto, o forse la fonte d’ispirazione delle figure create dai burattini, e comunque a servizio della componente visiva delle scene.

Uno spettacolo piacevole e leggero insomma, per una bella serata in famiglia.

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Un libro ? Che ideona ! ! ! Consigli per un PACco

albero natale libriE. TIRELLI (CON I CONSIGLI PER GLI ACQUISTI DI C. PAGANINI) |

E.T. – Quello di Natale è sicuramente un periodo brillante per le librerie. Soprattutto negli ultimi anni. Soprattutto con la crisi, le tasche più vuote e la necessità di acquistare “pensieri” e non regali, caricando la prima categoria di sincera poetica in grado di sostituire la magrezza dell’impegno economico. Libri di narrativa, saggi, fumetti, di cucina, per bambini, guide turistiche, sport, musica. Qualunque cosa di qualunque argomento. A Natale l’italiano medio scopre cosa c’è davvero in libreria e ne esce bello felice felice perché ha speso poco, ha comprato qualcosa di interessante ed è riuscito a soddisfare le inclinazioni di amici e parenti. Poi la libreria diventerà di nuovo un luogo troppo impegnativo. Anche se quel qualcuno ha capito, e forse proprio grazie al Natale, che ce n’è per tutti i gusti.

Mi piace leggere, sì, ma non ho tempo. La scorsa estate ho letto un libro bellissimo. Mi piacerebbe comprare i libri, ma con questa crisi.

Vabbè, ma almeno oltre allo zoccolo duro di lettori appassionati e agli occasionali, ci sono anche quelli che vogliono scrivere. L’Italia è un Paese di scrittori. Tutti scrivono, tutti vogliono pubblicare un libro e molti, grazie alle case editrici a pagamento (chiamiamole tipografie per non fare un torto a chi sugli scrittori ci investe davvero) ci riescono pure. I libri stampati ogni anno sono circa 59000, vale a dire circa 161 al giorno. I lettori circa 26 milioni. Quindi i conti tornano molto poco. E chi scrive non legge.

Allora come sta il mercato editoriale italiano? I dati relativi all’ultima edizione di “Più libri più liberi” hanno portato l’organizzazione  a dire che è stato un successo. Più di 54 mila persone, 370 espositori. E ancora, librerie, biblioteche, teatri, municipi, 41 editori e 30 librerie per la fiera nazionale della piccola e media editoria che si è svolta a Roma dal 4 all’8 dicembre. Il direttore della fiera Fabio Del Giudice ha dichiarato che “il successo della manifestazione deve incoraggiarci per rilanciare la cultura in Italia: questa atmosfera deve andare avanti per tutto l’anno, estendendosi a tutto il Paese”.

Di recente c’è stato invece molto entusiasmo intorno alla notizia della detrazione fiscale per l’acquisto dei libri inserita nella Legge di stabilità. Insomma, che bella cosa. Un incentivo alla lettura. Un sano incoraggiamento. Finalmente! Adesso sì che le cose cambieranno. Piano piano, certo, ma cambieranno. Adesso sì che le vendite dei libri saliranno, Natale, Pasqua o Ferragosto.
E anche l’Associazione Italiana Biblioteche si è dichiarata soddisfatta per questa misura del Governo.

Beh, allora è davvero una cosa seria. Eppure se leggete orizzontescuola.it, punto di riferimento per i docenti italiani, per gente che con e grazie ai libri ci lavora tutti i giorni, scoprite qualcosa di diverso. Esiste infatti un tetto massimo di spesa di 50 milioni di euro che andrà a beneficio di 20 milioni di famiglie italiane. Pochino. Che la detrazione è del 19%, fino a una spesa di 2.000 euro all’anno (la metà per libri di testo). Pochino. Considerando che la spesa media annua di una famiglia per i libri scolastici è di circa 500 euro… Considerando la proporzione tra cifra stanziata e beneficiari, non sembra affatto qualcosa di cui andare fieri. Quelli di orizzontescuola.it si sono fatti due calcoli e hanno verificato che si tratta di 2,5 euro a famiglia, con una detrazione fiscale su circa 20 euro di libri. Forse ai lettori incalliti tocca sperare che gli italiani continuino a leggere poco e che la dispersione scolastica aumenti terribilmente. Ecco, allora sì che qualcuno potrà avere davvero una detrazione degna di questo nome.

Però tra poco è Natale. L’unica cosa che ci tocca sperare è che quelli che entreranno in libreria per i “pensieri” da comprare ad amici e parenti possano poi tornarci, anche per sbaglio, anche per ripararsi da un temporale o dal caldo estivo. E possano comprare qualche “pensiero natalizio” anche ad aprile inoltrato.

C.P. – È, quindi, tempo di regali e questi sono i miei consigli:

“Morgue” di  Gottfried Benn
“Trilogia dell’inesistente – Esercizi di condizione umana” di Paola Vannoni e Roberto Scappin (quotidiana.com)
“Det er svært at dø i Dieppe” (Il seduttore o è difficile morire a Dieppe) di Henrik Stangerup. Per inspiegabili motivi, anche se spiegati, non tradotto in italiano. Se non leggete il danese potete leggerlo in francese
“Jahrestage” (I giorni e gli anni) di Uwe Johnson. In Italia sono stati tradotti solo i primi due volumi di questa  tetralogia. Il terzo volume uscirà a marzo 2014
“Rubè” di Giuseppe Antonio Borgese
“Canto di Natale” di Charles Dickens con i disegni di Federico Maggioni
“Blankets” di Graig Thompson

“Lucariè: scétate ca songh’ ‘e nnove”: Russo Alesi attraversato da De Filippo

NATALE IN CASA CUPIELLOELENA SCOLARI | Caffè, presepe, capitone. Cosa immaginiamo di più napoletano? Cosa immaginiamo di più banale e casalingo? Eduardo De Filippo invece mette quasi la vita intera in queste poche povere cose. Natale in casa Cupiello è apparentemente un quadro di famiglia semplice, ma la messinscena vista al Piccolo Teatro Studio Melato ce ne svela, più di altre, la complessità.

Fausto Russo Alesi (suoi adattamento e regia), ha avuto l’idea di realizzare lo spettacolo da solo, si fa attraversare da tutti i personaggi: Luca Cupiello, la moglie donna Concetta (interpretata con un evidente ricordo di Pupella Maggio), i figli Ninuccia e Tommasino, il portinaio don Raffaele, lo zio, tutti. Il corpo e la voce dell’attore si fanno sapientemente abitare da questa piccola folla e tale scelta fa emergere ancora più chiaramente i tanti significati dell’opera di Eduardo. Vedere un bravo, bravissimo attore diventare trasparente a favore dei personaggi è un piacere e insieme una lezione. può sembrare egocentrismo, certo, ma al netto della vanità di chi recita, il lavoro di Russo Alesi è sinceramente a favore dei personaggi, del testo e del senso dell’opera.

In una scena fatta di una pedana spoglia e con pochi oggetti evocativi come una testa di Gesù bambino, un lampadario con luci tremule, l’attore si muove nel suo abito grigio caratterizzando gli uomini e le donne della commedia con la voce, con l’intonazione, con l’espressione del volto. Sono strumenti base, sì, certo, ma che non spesso vediamo maneggiare con tanta capacità: qui ci rendono proprio l’essenza delle persone, della loro umanità, in questo senso sono mezzi “essenziali”. Essenziali come questo tipo di teatro, fatto anche grazie alle scene pulite di Marco Rossi (recente premio UBU per Panico di Luca Ronconi), alle luci livide quanto basta di Claudio De Pace e alle musiche di Giovanni Vitaletti, che vestono ogni personaggio di un suono diverso.

E’ così che capiamo meglio cosa De Filippo ci vuole dire col suo Natale: la sua ossessione partenopea per il presepe non è solo il richiamo alla tradizione ma la volontà (vana) di preservare un piccolo mondo protetto, dove tutti sono al loro posto, dove nulla muta, dove non ci sono sorprese. E invece le sorprese ci sono eccome! Figli con un avvenire precostruito che in quel presepe non sono felici affatto, e che lo rompono, lo mandano letteralmente in pezzi, ne vogliono uscire. Donna Concetta ripete ogni mattina al marito quel “Lucariè: scétate ca songh’ ‘e nnove”, come un ritornello disincantato e affettuoso che è anche tentativo di comunicare quello che sta cambiando, quello che Cupiello non vuole vedere, rimanendo in un sopore esistenziale. Il risveglio gli sarà infatti fatale, non reggerà alla scoperta di ciò che forse voleva gli rimanesse ignoto: tradimenti, disordini, bugie, meschinità. 

Parliamo non a caso di ritornello perché lo spettacolo è una partitura, uno spartito di battute e personaggi in cui R. Alesi entra ed esce continuamente con un ritmo incalzante, il ritmo anche della lingua napoletana, non sempre del tutto intelligibile a noi del nord ma proprio perciò ancora più melodiosa.

L’ironia del testo è magnifica, è il mezzo per fermarsi sempre un passo prima del sentimentalismo. Alcune situazioni sono irresistibili per l’umorismo perfido con il quale don Luca mostra i difetti dei membri di famiglia e ci racconta la visione di una società fortemente influenzata dal censo, si può invitare un’ospite in più alla cena della vigilia perché “quello mangia poco: è un signore”. Il signore in questione è ospite scomodo in quanto amante segreto della figlia ma Cupiello non ne sa niente, e qui vediamo la costruzione teatrale di equivoci spassosissimi nella loro piccineria umana.

Il caffè. Il quotidiano caffè mattutino che la moglie non sa fare e che puzza di scarrafone è un elemento che rimanda all’abitudine a ciò che non funziona ma che si affronta ugualmente, con rassegnata cocciutaggine, il protagonista ne critica il cattivo sapore tutti i santi giorni ma con attaccamento, in fondo non ne potrebbe fare a meno, ne’ lui ne’ donna Concetta possono fare a meno del rito domestico.

La fuga del capitone dalla cucina natalizia è esilarante, ci spingiamo molto in là e facciamo una spicciola ermeneutica del capitone: ci vogliamo leggere l’avvicinarsi di una fuga più grande, quella dal presepe infranto, dalla vita e da un mondo che don Luca non capisce più e che presto lascerà.

La morte lo coglierà ancora in un presepe: lui nel letto come un bambinello, circondato dai parenti stretti, vicini, poco più in là gli amici, circonfuso dal calore di un’illusione. L’ultima illusione.

Con quella faccia un po’ così: il volto dell’Italia secondo ReSpirale

32GIULIA MURONI | La telecamera registra tutto. Lo scontro nella via, il lancio dell’estintore, il colpo di pistola, la camionetta che fa retromarcia e passa sul corpo.  Che resta lì.
“Con quella faccia un po’ così/ quell’espressione un po’ così/che abbiamo noi che abbiamo visto Genova/che ben sicuri mai non siamo/che quel posto dove andiamo non c’inghiotte e non torniamo più”
Dopo Carlo Giuliani, l’assalto alla Diaz e le sevizie alla caserma di Bolzaneto i versi di Bruno Lauzi scritti nel 1975 sono inquietanti, fanno salire un rigurgito di livore per gli efferati soprusi. La rabbia per i calci in faccia,  per la violenza da parte dello Stato ai danni di una generazione intera, umiliata, messa a tacere.
Sono passati 12 anni e la violenza è stata perpetuata da una trafila di condanne parziali e ingiuste. ReSpirale Teatro ce lo ricorda con una scena straziante, cattiva in cui alla versione di Paolo Conte di sottofondo si accompagnano i calci sullo stomaco. Proprio come a Bolzaneto. Buttare il sale su una ferita amara e indissolubile è il tentativo, nel proprio piccolo, con i propri strumenti, di svegliare bruscamente il nostro Belpaese sonnecchiante con i ricordi di un passato recente.

Si avverte quando è un’urgenza ad animare uno spettacolo. Quando il motore primo non si esaurisce nella ricerca estetica, stilistica o marchettistica ma si dispiega nella manifestazione di senso determinata da un consistente bagaglio di riflessioni, tentativi, quesiti. ReSpirale Teatro per il suo “L’Italia è il paese che amo” è partita dalla necessità di raccontare la storia degli anni 90 in Italia e di raccontarli in prima persona con i propri ricordi e attraverso l’elaborazione di ciò che si è sentito. Racconti riferiti da qualcun altro perché la regista Veronica Capozzoli e gli interpreti Debora Binci, Antonio Lombardi e Emanuele Tumulo hanno meno di 30 anni e di alcuni fatti hanno un ricordo sfocato, infantile, filtrato dalle storie dei grandi.

Ma forse per questo viene meno il loro diritto di raccontarle? Chi ha il diritto di ricordare?

Visto a Torino, all’interno della rassegna “Schegge” a cura de “Il cerchio di gesso”, lo spettacolo ricostruisce la memoria personale e collettiva di quel decennio a partire dalla caduta di un muro, che è il frantumarsi di certezze comode come i cuscini bianchi scaraventati sul pubblico, è l’uscita violenta dell’energia da un circolo a ripetere. Ma il disperdersi di questa forza genera nuovi mostri e allora Craxi, Tangentopoli, le stragi di mafia, la mucca pazza, Berlusconi. Tutto questo dentro una narrazione corale incalzante, fatta di brevi sequenze sceniche a ritmo serrato. Capozzoli osserva che il nostro è il tempo del videoclip, in cui rientra anche il cosiddetto approfondimento televisivo e a cui siamo assuefatti. Appropriarsene significa restituirlo con nuovi significati, con quello stesso ardire polemico con cui viene riprodotto il trash, come linguaggio dell’ideologia dominante ma con valenza simbolica sovvertita.  I valori morali messi all’asta, le stragi di mafia snocciolate all’estrazione del lotto, l’emancipazione femminile mutilata e frustrata in una fame compulsiva di corn-flakes e carote, l’imposizione delle fobie collettive, la mucca pazza, sembrano ricordare la nostra svendita al grammo. Questo montaggio vertiginoso si conclude con un finale amaro, sospeso, efficace.italia amo

E se ha ragione Artaud che “l’arte ha il dovere sociale di dare sfogo alle angosce della propria epoca” ReSpirale non si sottrae al compito di un teatro politico, in cui l’etichetta “politico” risulta già superflua perché è il teatro stesso ad essere inteso come un luogo di condivisione attiva, uno spazio libero di assunzione di responsabilità. Responsabilità di presa di parola, espressa con acume e ironia caustica che rivelano uno sguardo tagliente e una rabbia viscerale verso l’eredità di un mondo di merda di cui non ci si vuole sentire soltanto vittime e spettatori passivi. Su questo sfondo sembrano stagliarsi anche “La Zattera della Medusa”, che indaga sull’imposizione normativa dei concetti di follia e salute e il recente “Napoleon- Anatomia della felice insurrezione”  che, a partire da Orwell, si interroga sulla portata rivoluzionaria del cristianesimo. Nato nel 2009, “L’Italia è il paese che amo” ha ricevuto la Segnalazione Speciale al Premio Scenario nel 2011 e non cessa di trasformarsi perché è materia viva e pulsante, soggetta al cambiamento necessario per crescere e rinnovare con forza il fremito di quell’urgenza iniziale. Per continuare a ribadire la necessità di avere voce in capitolo.

Non è un paese per giovani: Scenario 2013 premia i Fratelli Dalla Via

dalla viaVINCENZO SARDELLI | In Italia un senso di precarietà e disagio attraversa le nuove generazioni anche a teatro. Spaesamento, degrado sociale e dissesto ambientale; necessità della memoria e volontà di denuncia: sono questi i temi comuni ai quattro spettacoli vincitori e segnalati del Premio Scenario 2013, che hanno debuttato al Teatro Franco Parenti di Milano.

La degenerazione dei rapporti fra politica e finanza. La difficoltà di vivere in un paese allo sbando che non è per giovani. Da «Generazione Scenario 2013» emerge un diffuso senso d’instabilità, unito però a un bisogno d’impegno e di denuncia.

Cosa che in genere conduce al tradizionale, un po’ stereotipato monologo civile. Non così questo percorso, che riesuma pagine lontane della nostra storia. Che fa inchiesta. E ricorre alle lingue regionali come riscoperta delle radici e vocazione all’autenticità. Con tratti di verismo che a volte diventano surreali.

Tra pregi e qualche difetto emerge un teatro giovane tanto più efficace quanto più capace di graffiare e sporcare canoni accademici, per rivitalizzare linguaggi tradizionali.

Mio figlio era come un padre per me, spettacolo vincitore di e con Marta Dalla Via e Diego Dalla Via (che firmano anche scene, costumi, luci e partitura fisica) affronta con humour noir il tema del conflitto generazionale. Scenografia componibile di casse di plastica colorate. Lei con doposci, calzamaglia e tuta da ginnastica; lui con anfibi, pantaloni aderenti e occhiali da sole rossastri. Lo sfondo è un Nord-Est sfaldato, dimissionario da se stesso, colpito da una crisi che ha spazzato ogni residuo d’invulnerabilità e supponenza. Paradossale l’apologo sull’“uccisione di padri”, che già per conto loro avevano deciso di farla finita. Bel testo leggero, d’ironia e intelligenza. Bei dialoghi serrati, che l’inflessione veneta rende musicali. Esilarante e dissacrante lo storpiamento di preghiere come la Salve Regina e il Padre Nostro, a sferzare un mondo votato al suicidio, “pressato da Equitalia e stritolato da Trenitalia”.

M.E.D.E.A. Big Oil, lo spettacolo di Collettivo InternoEnki vincitore del Premio Scenario per Ustica 2013, drammaturgia e regia di Terry Paternoster, parte da un’ampia ricerca sul petrolio in Basilicata per incrociare il mito di una Medea contemporanea. L’eroina tragica è una donna lucana tradita dallo “straniero”, il Big Oil-Giasone, ruolo simbolico affidato a una compagnia petroliferaTeatro civile mediato dalla fiaba, affreschi collettivi a metà tra Fontamara e Cristo si è fermato a Eboli. Il ritratto è di un Sud atavico tra emigrazione e maledizione, sogno e realtà, magia e miseria. Colpiscono le coreografie corali, pantomime grottesche a velocità variabile, che rappresentano danze, riti anchilosati, canti di gruppo, cantilene, processioni e comizi di politici tromboni. Poi affiora l’elemento civile, il riferimento alla Lucania sventrata dalle trivelle, svenduta alla cultura neocapitalista, inquinata, ammorbata dal veleno che uccide l’agricoltura, gli animali e gli uomini. La parodia arriverebbe allo spettatore anche sfrondando un poco i toni sovraccarichi da sagra paesana.

W (prova di resistenza), Segnalazione Speciale del Premio Scenario 2013, di e con Beatrice Baruffini, rilegge in chiave performativa il tradizionale teatro di oggetti. Su una scenografia minimalista di mattoni forati, prende corpo uno spettacolo che narra la resistenza degli abitanti di Parma all’aggressione dei fascisti guidati da Italo Balbo nel 1922. Una pagina di storia locale poco nota. Oggetti dozzinali si animano e diventano personaggi, barricate, episodi di vita familiare, sentimenti. Con l’aiuto di lucine e fazzoletti rossi. Il gioco di bimba assembla mattoni come Lego a formare grattacieli e personaggi, ad animare vicende di guerriglia, violenza e dolore, sogno, morte e passione. Nascono paesaggi metafisici alla De Chirico in questo spettacolo in cui la Baruffini recupera le esperienze di Claudia Dias e di Gyula Molnar. E però questo monologo rischia di non coinvolgere proprio tutti: un po’ per la recitazione monocorde; un po’ per la scelta di una vicenda particolaristica, paradigmatica dell’ascesa violenta del fascismo, che richiederebbe forse qualche didascalia in più.

Trenofermo a-Katzelmacher, lo spettacolo di nO (Dance first. Think later), Segnalazione speciale del Premio Scenario 2013, ideazione di Dario Aita e Elena Gigliotti, partitura fisica di Elena Gigliotti, è la riscrittura di un Fassbinder contemporaneo che riproduce il Sud indefinito di una città indefinita, con stazione e binari, dove si muovono avanzi di città fra sfottimenti, violenza, tradimenti e sogni facili. Un soggetto dove la comparsa improvvisa di uno straniero crea una serie di gelosie e colpi di scena. Ambientazione kitsch da bar di periferia, lamiere ondulate, ombrelloni, sedie di plastica e caschi da motocicletta. Espedienti registici come luci stroboscopiche, ralenti e fermo immagine, danze simil-maori, partita di calcio con lattina di coca schiacciata. Napoletano e siciliano stretto. Atmosfere pasoliniane e danze nevrotiche. Canzoni neomelodiche, al microfono o a cappella. Citazioni da Mary per sempre. Alcuni stereotipi, una storia un po’ così. Però questi ragazzi: che talento.

MEDEA Big Oil 

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Beatrice Baruffini in W

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