fbpx
venerdì, Maggio 9, 2025
Home Blog Page 431

Nani: lettera teatrale con francobollo lisergico

paolo nani la lettera
foto Davide Aiello

RENZO FRANCABANDERA | La lettera di Paolo Nani è senza ombra di dubbio un atto creativo di talento. Una di quelle idee di utilizzo del codice teatrale che ne nobilita l’essenza e che giustifica nei tempi di tablet e digital devices, il loro spegnimento (e potremmo dire anche dolcissimo oblio per un’ora e un quarto) per dar la parola all’uomo nella sua più cristallina, miserabile, fragile, grandiosa presenza.

Lo spettacolo è una serie di variazioni su tema, tipo esercizi di stile di Queneau, o le variazioni sul canone, tipo Offerta Musicale di Bach.

Il tema del canone: un uomo entra in una stanza, dove c’è un tavolo e una sedia. Sul tavolo busta, foglio e affrancatura da lettera, e una penna. Una bottiglia di vino e un bicchiere. Una foto in un portafoto. Stop. L’uomo entra. Si reca al tavolo, si versa da bere ma sputa via quanto bevuto. Inizia a scrivere e deve togliere la foto dal suo sguardo, che forse per dolore lo turba. Chiude la lettera dopo averla imbustata e affrancata, fa per andar via, ma proprio nell’atto di uscire un dubbio lo assale, e quindi torna sui suoi passi e riapre la lettera per controllarne il contenuto. Stop.

Nulla dunque di complesso. Una serie di azioni banali una dopo l’altra.

Di qui in avanti Paolo Nani, prima con i codici della comicità e poi dell’umorismo, alternandoli, sofisticando e banalizzando, ricorrendo a clownerie, equilibrismi, mimica di altissimo livello e lavoro di rimando ad un ruolo del pubblico attivo, costruisce un one man show che a giusta ragione dal 1992 gira il mondo. Centinaia di repliche.

Si può diventare a proprio modo schiavi di una propria creazione? Mi piacerebbe chiederlo a Nani, come a tutti quei cantautori che sono inchiodati dal loro leggendario primo grande successo, a replicarlo a vita. Un Guccini senza La locomotiva? “Un manouche senza roulotte? Un casinò senza roulette?” per dirla con un’altra canzone…

Ecco solo questo mi resterebbe da chiedermi, dopo aver riso del genio di quest’uomo per un’ora e mezza, mentre rifaceva la scenetta di cui sopra al contrario, senza mani, in salsa western, in salsa horror, dormendo, ubriaco, freudiano, mentre perfino gli applausi diventavano parte del gioco, mentre comunicava con noi per mezzo di cartelli, ecco, solo questo gli avrei chiesto: se questa ripetizione, nello spettacolo e dello spettacolo in vista sua, anche solo in un momento, non gli ha procurato stanchezza.
Perché ovviamente fosse per il pubblico lui dovrebbe restare in scena 3 ore. Alla fine è lui ad esibire, mentre continuano scroscianti gli applausi del pubblico in delirio, il cartello “Andatevene!”.
Sa già che sarà un successo.
Sa quanto vale la sua creazione Paolo Nani.
E’ stato ospite in questi giorni al Filodrammatici a Milano e penso sia una di quelle cose che spero lui continui a fare a lungo, perché vorrei farlo rivedere a mia figlia fra qualche anno, appena avrà chiara dentro di sé la sottile distinzione fra comicità e umorismo, proprio per farle capire con quanta intelligenza i due concetti possono essere declinati da una persona sola in un’unica creazione scenica.

Il Prometeo di Parrinello, tutto fuoco e profezia

resizeVINCENZO SARDELLI | Ribellione, violenza, vigore. Intanto… sono qui. Interiorità di Prometeo, di e con Alessandro Parrinello (musiche originali di Maurizio Parma, assistente alla performance Michele Ferro) è uno spettacolo sul mito del titano che osò difendere gli uomini dall’odio di Zeus. E donò loro il fuoco, per alleviarne la vita infelice.

Alessandro Parrinello, in anteprima al Teatro Scala della Vita di Milano, intreccia vari linguaggi, perfomance, canto, musica, danza, video, per offrire suggestioni. Prometeo, impedito nei movimenti da una lunga manica ad acqua, con la vista dimezzata da una corona/rete che gli cade dalla fronte, canta e danza la propria prigionia, la fatica di liberarsi dal dolore per afferrare quel po’ di luce e di vita.

Il dolore è filtro che impedisce la piena fruizione del mondo. Altera ogni percezione. Ci rende alieni a noi stessi. Non può essere dominato. Può trasformarsi però in vitalità, fino ad assumere la forma dell’arte.

Sulla scena, l’attore-performer in primo piano. La musica crea il gesto. Dal nulla si definisce la parola, inizialmente come voce fuori campo, in seguito come vaticinio che esce dalla bocca dell’attore.

Tutto va nella direzione dell’energia. I movimenti sono decisi, vibranti. È quasi un teatro di figura. La danza sembra esorcismo. 

Sullo sfondo le immagini su maxischermo attenuano il potere di voce e gesto. Creano equilibrio. Facendo da contrappunto alla scena, smorzano il pathos. Sono paesaggi dell’anima e della natura, giganteschi palmi di mano, figure umane stilizzate. Sono lune, dune, silenzi, corpi come acquerelli.

Lo spettacolo è impropriamente definito “musical per un attore solo”. I movimenti musicali, gli accordi di pianoforte, basso, contrabbasso e violino scritti da un musicista di formazione barocca in libera uscita creativa, danno però sostanza alla performance di Parrinello, giocata solo sull’intensità. Le tonalità classiche a volte assumono la corposità di note rock, oppure diventano oniriche. Si stilizzano in gorghi d’acqua, in battiti cardiaci o echi di mantra.

Le luci scolpiscono il corpo, definendo la tensione dei muscoli. È il corpo che suggerisce emozioni ed evocazioni. La parola è un di più. La musica, il gesto e le canzoni inseguono la parola. Ogni codice rafforza l’altro, in maniera pleonastica. Eppure ogni linguaggio è criptico. Tutti ammassati, questi linguaggi non diventano mai pienamente comunicativi. Anche il ricorso all’inglese nel canto (in cui Parrinello riproduce in qualche modo lo stile e la potenza vocale di Freddie Mercury) non garantisce un livello minimo d’intendimento allo spettatore. Il quale è costretto, allora, a meditare le proprie suggestioni. Dialoga con se stesso. E nell’ambiguità approfondisce la propria interiorità, anche nei rari momenti in cui la performance dell’attore non sembra raggiungere l’anima.

Reading club: intervista ad Annie Abrahams ed Emmanuel Guez

reading clubSIMONA POLVANI | In questi ultimi anni digitali, dopo il dominio incontrastato della visione passiva indotta dalla televisione, con l’avvento in particolare dei social network, scrivere e leggere sembrano aver ritrovato slancio, pratiche attive, rinvigorite e diffuse, frequentate in modo non elitario e trasversale. Se nella maggior parte dei casi l’esercizio di questa ritrovata attività avviene in modo poco consapevole, per automatismo, Reading Club, nuovo progetto performativo nato in Francia dalla collaborazione di Annie Abrahams e di Emmanuel Guez, inventivi net artists e ricercatori noti per la sperimentazione nell’ambito del linguaggio e della comunicazione in rete, fa della pratica della lettura e della scrittura partecipata e consapevole il proprio motore, raccogliendo così ed esplorando le problematiche sollevate dal web sulla natura e il ruolo dell’autore.

Reading Club è innanzi tutto un sito web, dispositivo per performance interattive di lettura e di scrittura in cui, su invito dei creatori, alcuni lettori leggono in comune un testo dato. In base a una durata predefinita, che può oscillare da qualche minuto a più ore, i lettori interagiscono sul testo, scrivendo all’interno commenti, annotazioni, in uno spazio di scrittura (un editor- interfaccia di testo collaborativo che funziona in tempo reale, di tipo etherpad), con un numero invariabile di caratteri fissato in precedenza. Accanto ai lettori-performer, una chat aperta permette a questi ultimi e a lettori spettatori in rete di commentare, costruendo un altro testo in parallelo, a volte visibile durante la performance in live, altre tenuto nascosto e leggibile solo sul sito, in cui, una volta terminata, è pubblicata ogni performance.

Il progetto, che ha debuttato a giugno ha già all’attivo otto sessioni, tra le quali una al Centre Pompidou (Parigi), al Furtherfield (Londra), su Arpanet dialogues, al Jeu de Paume (Parigi), su Raymond Queneau e a Oudeis (Le Vigan), su Marshall McLuhan.

Delle origini e di alcune dinamiche di funzionamento di Reading Club ho parlato con Annie Abrahams e Emmanuel Guez, che, a sorpresa, hanno deciso di inscrivere le mie domande e le loro risposte all’interno dell’interfaccia Reading Club, dando luogo a una piccola sessione di composizione in diretta delle risposte, che potrete vedere nella versione originale in francese a questo link: http://readingclub.fr/pad/52a854ae06b5a2352c000023?timeline=1

Come è nata l’idea del Reading Club?

Voglia di incontri, discussioni, riflessioni sui testi online, di confronti. Di capire ciò che potrebbero essere una lettura e una scrittura in comune, di creare una situazione in cui l’autore/lettore non controlli più la sua scrittura, sia confrontato con quella di un altro lettore/autore e debba così leggere e comporre assieme, o contro, quell’altro. Ciò pone il comportamento, la relazione con l’altro, ma anche la relazione con il proprio corpo, con le proprie emozioni, al centro di questa interfaccia e porta ogni partecipante a prendere posizione all’interno di un testo e a considerare il proprio modo di agire. È perché la presa di posizione deve avvenire dentro il flusso che una partecipazione al Reading Club libera tanta energia ed emozione. Altrimenti, per ciò che riguarda noi due [Annie e Emanuel], i comuni interessi per la scrittura online. Gli approcci artistici simili in cui diamo precedenza più al processo di ricerca che alla creazione di un oggetto.

Come avviene la scelta dei testi?

Scegliamo i testi in collaborazione con il partner della sessione. A volte troviamo velocemente un testo che interessa tutti, a volte il processo è più lungo e bisogna fare una scelta. Non è sempre semplice, perché molti testi interessanti non sono adatti all’interfaccia o alla durata di una sessione. Sono necessari dei brani concisi che mettano i lettori in movimento. Dopo molte sessioni di corta durata ci piacerebbe sperimentare testi e durate più lunghe.

A partire dalle performance che avete fatto fino ad ora, quali sono le vostre impressioni o riflessioni sul processo che avete messo a punto in rapporto alla scrittura/lettura condivise?

Bella domanda. Innanzitutto siamo più degli operatori che dei performer. Offriamo un dispositivo che fa scrivere, che esplora le relazioni umane legate alla scrittura. Pensiamo che ci voglia più tempo per rispondere alla tua domanda. Siamo solo all’inizio del progetto e in una fase – diciamo – assai spettacolare in cui stiamo testando le sue potenzialità. Nel Reading Club, per il momento ci si confronta più con il comportamento di altri lettori che con un testo. Ciò che è flagrante è che il dispositivo costringe i lettori a leggersi e a scrivere in funzione di ciò che leggono – in altri termini, di ciò che scrivono gli altri. Si creano dei campi di forza, delle tensioni, delle strategie, e, spessissimo, alla fine di una sessione, un miscuglio di frustrazioni e di piacere…

reading club 2Quali sono gli atteggiamenti dei lettori performer e quali impressioni conservano dell’esperienza del Reading Club?

Sia scrivono tanto e velocemente, si divertono, sia guardano gli altri scrivere, leggono senza interruzione e provano a trovare una posizione nella ricostruzione del testo, nella forma che prende. Quindi vediamo un atteggiamento che è più di reazione immediata, quasi viscerale, rispetto al testo e a ciò che scrivono gli altri, e una reazione che è molto più di osservazione distaccata, che prova a riflettere sulla totalità del testo e del processo. Sarebbe interessante poter lavorare con una persona che metta a punto un protocollo scientifico per testare questi diversi comportamenti… 

Com’è andato il confronto con McLuhan nella vostra penultima performance?

L’interfaccia è mcluniana in sé.

http://readingclub.fr

Aglie, fravaglie e scultura ca nun quaglie

CORNO CASERTAEMANUELE TIRELLI | Quando l’architetto cino-americano Ieoh Ming Pei presentò e poi realizzò la piramide del Louvre fu grande polemica. Scandalo. Un grande errore. Anacronistica. E magari anche qualche colorita e accorata maleparola in francese. Tutto grazie al presidente Mitterrand che affidò l’incarico all’architetto Pei. Oggi, a distanza di anni, quella stessa piramide è considerata uno dei simboli, uno dei richiami più evidenti del grande museo parigino.

Qualche giorno fa, in Italia, in Campania, a Caserta, davanti alla Reggia vanvitelliana patrimonio dell’Unesco, è apparso un corno rosso alto tredici metri realizzato dall’artista napoletano Lello Esposito. Un corno di quelli contro il malocchio, per capirci. L’opera è stata voluta dal sindaco della città Pio Del Gaudio, è costata 70 mila euro (10 ad Esposito e 60 per tutto il resto) e ha scatenato un sincero putiferio. La prima cosa che gli hanno rimproverato, al sindaco, è di non aver riasfaltato le strade in condizioni pietose. E lui si è difeso dicendo che quei soldi li poteva usare solo per un rilancio artistico, quindi ha pensato al corno di Lello Esposito. In questo modo, ha aggiunto, avrebbe anche attirato l’attenzione su Caserta che ha molto bisogno di visibilità e turismo.

Allora, diremo tutti, è una mossa di marketing territoriale? Così pare. Però forse forse non è stata gestita e preparata come tale. O almeno questa è l’impressione. Oltretutto l’amministrazione casertana viene dalla recente bocciatura come candidata a capitale della cultura. Candidatura che aveva suscitato, pure lei, polemiche a secchiate perché per la creazione del programma le forze artistiche e creative casertane non erano state chiamate realmente in causa. O comunque non tutte. E sicuramente non molte di quelle che lavorano di più e con maggiore continuità sul territorio.

Senza considerare che, tornando a questo famoso corno, il sindaco è stato convocato immediatamente dalla Soprintendenza che ne ha chiesto l’immediata rimozione.

C’è anche chi ha parlato di simbolo fallico. Di un grosso pene gigante. E vabbè, a Corso Como, nel centro di Milano, hanno addobbato un albero di Natale con simpatici sex toys.

Sì, ma capiamoci, questo corno è bello o è brutto? È una vergogna oppure no? Philippe Daverio, intervistato da Repubblica, ha espresso tutto il suo apprezzamento. Ma c’è ancora chi non è molto d’accordo, un po’ per il costo dell’operazione e un po’ per l’oggetto in sé. La verità vera è che l’opera di Lello Esposito alcuni risultati li ha ottenuti, ma è un po’ tutto il contorno a sembrare imperfetto.

I maggiori network nazionali hanno puntato i riflettori sul fattaccio mandando Caserta, il corno e la Reggia più volte in tv, su internet e sulla carta stampata. Visibilità ottenuta e obiettivo centrato? Non mancano però alcune perplessità. Qualche tempo fa, il sindaco ha dichiarato che la sua città “non accetta di essere subordinata a Napoli nei percorsi gestionali dei beni culturali in fieri”. Quindi non accetta questa subordinazione nei percorsi blàblàblà, ma può commissionare un’opera da 70 mila euro a un napoletano. Senza mettere in discussione la maestria e la fama di Lello Esposito, ma a Caserta non c’era proprio nessuno? E in un’altra città che non fosse la Napoli alla quale non subordinarsi e così via? E questi 70 mila euro a disposizione dovevano essere spesi necessariamente tutti per quest’unica opera? L’impressione è che nonostante gli ottimi risultati ottenuti in termini di visibilità, risultati che sembrano quasi più fortunosi che cercati davvero, si tratti di un evento spot, scollegato dagli altri. Autonomo. E questo non è un bene per la programmazione culturale e turistica. Senza considerare che l’attenzione c’è, un po’ di curiosità, ma non ci sono turisti in fila per ammirare l’oggetto della discordia e magari entrare nella Reggia o fare un giro in città. Ecco perché ci sarebbe voluta una programmazione.

La vicenda non si è ancora conclusa del tutto. Con il passare del tempo il corno diventerà uno dei simboli e dei punti di riferimenti della città di Caserta così come è successo per la piramide del Louvre? Speriamo. Anche se qualcuno ha deciso di manifestare la propria opinione circondandolo con lo striscione “Questo corno è uno scuorno”. Nel frattempo il Ministro Bray ha detto che s’ha da spostare assolutamente, necessariamente, indiscutibilmente. In quale piazza della città? Non si sa. Con quali fondi? Non si sa. Oltre a finire sui giornali e in televisione, cosa ha portato di concreto per il turismo casertano? Non si sa.

Lo speziato Cucinar Ramingo di Bloise (in capo al mondo)

cucinar ramingoRENZO FRANCABANDERA | Lo scoglio che affoga sommerso dall’acqua? Giù il vino sui mitili, in una pentola dove sta per nascere un riso alle cozze. 
E la foresta incantata che allunga i suoi rami al viaggiatore errante? E’ una lirica costa di sedano, che sta per finire insieme a cipolla e spezie in padella con l’agnello che sarà il complemento del riso, per una fantastica paella kosher doc.

Fra tegami ramati e oggetti di scena di puro design artigianale, a tagliare, preparare, abbassare e alzare la fiamma è Giancarlo Bloise, talento creativo multiforme, che ha trovato nel teatro un percorso adatto a raccogliere il suo istrionico sorriso. Fin da piccolo apprende la musica, compie studi di architettura, quanto basta per consentirgli di progettare oggetti di scena come quello che governa durante lo spettacolo (realizzato da Mentor Shimaj della bott. artigianale Wood-Stock Fi); ha una decennale pratica da chef kosher e una chiara propensione a mescolare le arti. Dopo la vittoria al Dante Cappelletti 2012, Cucinar Ramingo ha molto girato in estate fra i festival, da Castrovillari ad Operaestate. E perché ha girato?

Perché è un lavoro che si coagula intorno all’anima, e attraverso un testo fatto di storie della tradizione ebraica, di quell’insieme di aneddoti parabiblici e barzellette sulle piccole trasgressioni ai rigidi precetti religiosi, familiari per chi segue il teatro grazie ad artisti come Ovadia, arriva al cuore dello spettatore.

Ci arriva con un meccanismo molto semplice che fa leva su un buon racconto, lo sfasamento fra parola e gesto (e quindi dove possibile l’assenza di didascalia), la sorpresa scenica (quell’eye catcher che in questo caso è tutto nella cucina circolare che occupa la scena e da cui, come da un’elegantissima borsa di Mary Poppins, Bloise estrae ingredienti, oggetti, taglieri). Tutto lì, apparentemente sotto gli occhi, in realtà svelato e poi abilmente celato, come le minestre in cottura, prima mostrate e poi scoperchiate solo alla fine, per esser mescolate in un’unica pietanza.

Dal punto di vista tecnico e drammaturgico, la prossimità con Scabia (al cui In capo al mondo è ispirata una parte del racconto) e l’influenza della scuola dell’Odin, nella persona di Tage Larsen, si riflettono in una recita gestuale e partecipata. S’ode qui e lì l’eco finanche mimica di Carmelo Bene, specie sulla parola spezzata e a volte quasi scuoiata del suo senso comune.

Bloise arriva vestito da cuoco, inizia a parlare dell’uccellino che ramingo salta incerto, apre il tavolo, non prima di averlo reso barca, cavallo e cento altre cose; poi inizia ad estrarre da queste due piccole torri lignee circolari, come da dentro una matrioska, tutto quello che serve per cucinare.

Il lavoro, di un adorabile artigianato, s’indora in un’apparente imperfezione e sobbolle di parole antiche. Forse in un paio di passaggi, sul finire della recita, si perde qualche nesso logico, per una finta fiaba che comunque arriva al suo finale prima che la minima ombra di noia o distrazione possa allungarsi sullo spettatore, che invece curioso segue, cerca, annota perfino scetticamente quanto vino finisce in pentola, i miscugli di spezie che vengono versati, quello che appare troppo peperoncino. Si finisce poi fare la fila e gustare a mani nude, utilizzando le valve delle cozze, la paella appena preparata.

Lo spettacolo arriva giusto, cuoce il riso al dente, schiude l’animo dello spettatore con il calore che promana dal sorriso di Bloise. Sarà pur ammiccante il rapporto fra cibo e teatro, ma occorre saper cucinare e avere una buona storia. In questo caso, perdersi è dolce, naufragando in un mare di vino, nel rumore delle onde che urlano, reso alzando la fiamma della cucina a gas. Ogni piccolo gesto è curato e sorprende. 

Con Cucinar Ramingo si chiudono gli appuntamenti 2013 di Stanze a Milano, rassegna di teatro in casa curata con altrettanto cuore da Alberica Archinto e Rossella Tansini. In questo caso non di stanze s’è trattato, ma del ristorante Carminio, che si è prestato all’allestimento. 

Dacci oggi il nostro Del Debbio quotidiano

QColonna

ALESSANDRO MASTANDREA | Le vie del talk di approfondimento politico sono finite. O almeno lo erano, fino all’arrivo di Paolo Del Debbio, classe 1958 da Lucca.

Tra i suoi tanti meriti, c’è quello di sapere sempre individuare e al contempo colmare i vuoti presenti nella nostra vita sociale, politica e culturale. La prima volta gli è riuscito nel ’94, quando contribuì a creare il soggetto politico più influente degli ultimi venti anni, Forza Italia. Ma poiché le disgrazie non finiscono mai, Del Debbio ha trovato il modo di applicare nuovamente la propria peculiare attitudine, riempiendo un vuoto ancor più grande. Nella TV così politicamente polarizzata degli ultimi anni, infatti, un’ossessione ricorrente e mai appagata, ha contraddistinto la turbolenta esperienza televisiva del centrodestra: quella, cioè, di non avere una voce amica capace di raccontare le sorti del Paese dal proprio punto di vista. Le strategie fino ad oggi adottate per promuovere una telegenia di destra, si sono dimostrate poco più che palliativi, e l’imposizione, quasi maniacale, delle regole della par-condicio ha generato risultati mostruosi: l’ossessivo rispetto del turno di parola, del numero di rappresentanti invitati, e anche del numero di sostenitori presenti in studio. Una ferita ancora aperta nel corpo dolorante della TV generalista che sembrava impossibile da sanare, quella cioè dell’assenza di un doppelgänger da contrapporre ai vari Michele Santoro e Giovanni Floris. Prima dell’arrivo di Paolo Del Debbio e di Quinta Colonna, sua ultima e felice intuizione, ricreare in provetta il talk che piaccia all’elettore medio di destra, ma che non faccia fuggire a gambe levate tutti gli altri si è sempre rivelata un’impresa titanica.

Un vero e proprio stakanovista il Nostro, che per recuperare il tempo perduto, non pago del canonico appuntamento settimanale riservato al genere, ha voluto per se anche uno spazio giornaliero. E’ mescolando nelle giuste quantità l’estetica del “Drive in” e di “Studio Aperto” con quella di blasonate trasmissioni di denuncia che si ottiene Quinta Colonna. Sacro e profano insieme, costume e politica, giornalisti e opinionisti moderati dalla mano sapiente del presentatore che non disdegna di parlare alla pancia del popolo, facendolo, invero, con genuina partecipazione. E per capire l’aria nuova che tira da quelle parti, bastano da sole le famigerate copertine, in apertura dell’edizione settimanale, di Mario Giordano, già direttore del Tg di rottura poc’anzi menzionato. Perché indignati va bene, purché con il giusto brio e una sana dose di funambolismi verbali: “e’ dunque ora di fare pulizia, ed è per questo che il tale consigliere ha comprato (con i nostri soldi, nda) una lavatrice”. In fin dei conti, il generoso mare dell’indignazione è grande abbastanza per tutti, e ognuno prende all’amo i propri pesci come può. Via dunque le sigle iniziali con quei motivi musicali così drammatici, tanto cari alla sinistra, dentro la ben più frizzante sigla sottolineata dal leggere motivo musicale composto da Nino Rota per il felliniano “Otto e mezzo”. E’ l’indignazione con la leggerezza, l’equivalente televisivo degli alimenti light, capaci di placare sia l’appetito che i sensi di colpa del goloso, sebbene a scapito del gusto e dei contenuti, non solo nutrizionali. E per riuscirci Del Debbio non si fa mancare proprio nulla nella rigida impostazione liturgica di puntata. Via i battibecchi in studio tra politici e giornalisti, dentro i collegamenti con la piazza (presa a caso tra Genova e Marghera) o gli RVM degli inviati a caccia di pareri tra la gente comune, meglio se anziana e al mercato. “Vergognosa casta”, “spese folli in regione” e “pensioni d’oro”, questi gli argomenti preferiti. E la strana commistione tra talk politico e varietà ha un miracoloso effetto sugli ospiti politici, indignati anch’essi nel giudicare il proprio operato in video, sorta di esperienza extracorporea fuori dai banchi del parlamento. In chiusura di puntata, infine, per non lasciare lo spettatore con l’amaro in bocca, spesse volte si vira coraggiosamente sul sacro o in alternativa sul costume.

Quinta Colonna, al pari di creature mitologiche come l’unicorno, è qualcosa di cui fino a oggi non si erano mai avuti avvistamenti sugli schermi televisivi, con Del Debbio suo indiscutibile demiurgo. Peccato dunque per le voci di chiusura delle ultime settimane. Un duro colpo per gli affezionati spettatori e una decisione inaspettata a detta del protagonista. Vuoi vedere che, da disoccupato, in questo clima continuo di campagna elettorale, il combattivo giornalista Del Debbio, presunto spin doctor di Marina Berlusconi, abbia visto un qualche vuoto da riempire e non si sia messo in animo di porvi rimedio per i futuri venti anni?

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=3NxgN1CLXno]

Altezza e larghezza nella rappresentazione

GalantinaCOSIMA PAGANINI | Non parlerò della profondità, voglio trattare solo di rappresentazioni nelle quali i concetti di altezza e larghezza si sviluppano solo superficialmente. Vi chiedete come ci possa essere una verticalità superficiale? Immaginatevela come le costruzioni impossibili di Escher.

Dato un creatore, anche multiplo (regista, autore, gruppo di performer), dalle sparse conoscenze acquisite attraverso lettura compulsiva di tutto quello che di volta in volta è stato opportuno sapere, e, dato un operatore culturale (direttore artistico, consulente, organizzatore) dalle scarse conoscenze sostituite da un fiuto quasi infallibile per tutto quello che sarà opportuno apprezzare nei prossimi cinque minuti, otteniamo fenomeni di natura fisica o chimica che chiamiamo spettacoli.

Gli spettacoli ottenuti dall’incontro dei due elementi sopra citati corrispondono a due tipi di estetica: estetica dello spiedino ed estetica del frammento o della galantina. Quello che generalmente vedo nei teatri non va oltre queste due figure.

Esempi: “Solo di me…” è uno spettacolo galantina. Citazioni da studi classici, ricordi del catechismo (perché non si legge la Bibbia? Il sesto comandamento non è: non commettere atti impuri), scenografia da colportage teatrale, attrici come si deve, rese brutte quanto basta a far dire come sono brave, finali vari perché ce ne sia almeno uno che possa andare bene, musica dialogante con la rappresentazione ridotta a sottofondo sonoro. Insomma tanti elementi tenuti insieme, nello stesso contenitore, dalla gelatina e dal caso.

A.H.” è uno spettacolo spiedino. Concetti impegnativi bene assimilati, attore centrato e concentrato, suoni che vanno oltre il commento per essere spettacolo in sé, citazioni da cinema d’autore. Insomma tanti elementi tenuti insieme, uno sull’altro, da uno spiedino e dall’arbitrio.

E gli spettacoli candidati e vincitori del premio Ubu?

Il panico” è uno spettacolo galantina di alta qualità ed esempio perfetto di cucina molecolare. “Francamente me ne infischio” è uno spettacolo spiedino da servizio catering che ha eliminato i carboidrati dal menu.  “La serata a Colono” è uno spettacolo galantina fedele alla ricetta di Pellegrino Artusi. “Le voci di dentro” è un intero pranzo di Natale.

Se volete, divertitevi a classificare gli altri spettacoli dell’Ubu. Nessuno di loro sfugge all’una o all’altra categoria.

Se invece non volete incappare nell’estetica dello spiedino e nell’estetica della galantina è meglio frequentare le mostre. Esempio: The Visitors di Ragnar Kjartansson. E non fa niente se qualcuno vi dirà che siete un hipster.

http://www.youtube.com/watch?v=FE_9CzLCbkY

L’«Avaro» di Grock, girandola di guitti

avarpVINCENZO SARDELLI | Quarant’anni, l’alba di una nuova vita. Quelli di Grock il loro “secondo tempo” hanno già iniziato a festeggiarlo con un pirotecnico Avaro di Molière, in scena al Teatro Leonardo di Milano fino al prossimo 1 gennaio.

Happy Birthday, Happy New Year. L’aria di festa fa vibrare questa compagnia, creata nell’aprile 1974 da Maurizio Nichetti e dai fratelli Intropido, legata a doppio filo alla storia del teatro milanese, con quell’aria scanzonata che la contraddistingue. Divertimento, dinamismo, fisicità; numeri da circo uniti a trovate sceniche brillanti, nel segno della coralità: è questa la filigrana di Grock. Che il meglio sembra darlo quando si misura con i classici, con la transazione da rigore e fissità verso l’innovazione. Attraverso la scompaginazione degli originali, e messinscene che dialogano con i linguaggi contemporanei.

E pensare che l’Avaro (1668) è esso stesso una rivisitazione, poiché s’ispira all’Aulularia (sec. III a. C.) di Plauto. Protagonista è il taccagno Arpagone, ossessionato fino alla psicosi dalla paura di essere derubato; arido, egocentrico, egoista. Figli e servi sono pedine nelle sue mani, fiches deputate ad accrescerne il patrimonio. Di qui la loro “congiura” volta a mettere in scacco Arpagone, nel tentativo di farne affiorare quel po’ di umanità.

Gli orpelli del teatro francese del Seicento ci sono tutti in questo caravanserraglio sfrontato: un palco girevole al centro della scena (creata da Claudio Intropido), quinte di drappi e stracci tabacco che si proiettano lateralmente verso la sala, dove campeggia, con scettro e mantello, un re scelto tra gli spettatori. E poi costumi d’epoca (di Anna Bertolotti); una colonna sonora spavalda stile Goran Bregovic, con due canzoni corali che aprono e chiudono lo spettacolo (di Gipo Gurrado con la Nema Problema Orkestar); una regia (dello stesso Intropido e di Valeria Cavalli, anche traduttrice e adattatrice del testo) tesa ad animare un movimento mai fine a se stesso, attraverso un pubblico trascinato in una complicità istintiva.

Lo stile di Grock si sposa bene con il teatro francese d’epoca barocca, con una poetica tesa verso gusto dell’artificio, elaborazione e ostentazione. Erano gli anni del Re Sole e di Versailles. Anche le luci, rossastre o notturne, riproducono qui interni da pittura francese (de La Tour), scene quotidiane da pittura olandese (Rembrandt, Vermeer, Hals).

Il palcoscenico è una girandola. Tutto ruota intorno a Sua Maestà il Denaro. In questa successione di scene e controscene (di Maria Chiara Vitali) veloci, mai isteriche, anche pareti e tende hanno orecchie. È un gioco metateatrale. Gli affiatati attori (oltre al bravissimo Pietro De Pascalis-Arpagone, ci sono Jacopo Fracasso, Cristina Liparoto, Sabrina Marforio, Roberta Rovelli, Andrea Robbiano, Simone Severgnini, Clara Terranova) giocolieri e saltimbanchi, guitti girovaghi, entrano ed escono dal personaggio e dal gioco drammaturgico. Fanno il verso ai classici. Riproducono caratteri da Commedia dell’Arte, senza mai prendersi sul serio.

Tutto è calibrato, senza avvitamenti né appesantimenti. Latinorum, fermo immagine, montaggio in parallelo, mimo, balli ammiccanti da café-chantant arricchiscono la festa di Quelli di Grock. Che finiscono la serata con un monito (filtrato mica troppo dalla finzione) sulla dura vita degli attori, sulla bellezza e fatica del mestiere. In un’Italia dove con l’arte non si mangia mai abbastanza.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=AAHJ6Yvqghs&w=560&h=315]

«Io provo a volare»: Berardi tra D. Modugno e autobiografia

Volare LOWVINCENZO SARDELLI | Il volo di Domenico Modugno come allegoria del sogno. Io provo a volare, reduce da Campo Teatrale a Milano, in arrivo a Calenzano, San Vito dei Normanni, Massafra e Trieste, è uno spettacolo che parte da cenni biografici di Domenico Modugno e dalle suggestioni delle sue canzoni, per raccontare la vita di uno dei tanti giovani di provincia pronti, sulla scia del mito, ad affrontare la fatica di diventare artisti.

Se le sfumature di questo spettacolo sono in qualche modo autobiografiche, allora “il ragazzo si sta facendo”. Protagonista è Gianfranco Berardi, autore, attore e regista di Crispiano (Taranto). Lo accompagnano suo fratello Davide alla voce e chitarra, e Giancarlo Pagliara alla fisarmonica (la regia è di Gabriella Casolari) in un percorso nella musica di Modugno fatto di riletture rapide e scanzonate, di arrangiamenti snelli che rifiutano ogni pedanteria: da Amara terra mia a Malarazza, da Donna riccia a Pasqualino Maraja, da Vecchio Frack a Nel blu dipinto di blu.

Che talento, Berardi. Che ai miracoli si sta abituando: quello di realizzarsi in pratica senza aver mai abbandonato il paesino dov’è nato; e quello di fare un po’ quello che gli pare sul palcoscenico, alla faccia della cecità.

In Io provo a volare lo spirito del custode di un teatrino di provincia torna in scena ogni notte, in compagnia dei suoi musicisti, nel teatro in cui è condannato a vagare e su cui mosse i primi passi. Tra narrazione, musica e danza rivivono episodi di vita: i sogni, gli incontri, la formazione, le selezioni, la fuga, la scuola, il primo lavoro, il rientro con un palmo di naso, da giustificare dopo le speranze naufragate.

Berardi ricorre alla figura di Modugno come metafora. Rende omaggio agli sforzi e al coraggio di quelli che, animati da una forte passione, si lanciano all’avventura nella ricerca di una dimensione più autentica.

Camicia bianca, pastrano nero e cilindro impolveratissimi, luci sul viso impastato di biacca, Berardi si accosta a uno stile recitativo che insegue gli stilemi classici di Eduardo e della commedia dell’Arte, con qualche gradazione che l’avvicina a Totò. Ramazza in mano e rime sulle labbra, giochi di parole con qualche escursione nel dialetto tarantino, monologhi a una, due, tre voci, Berardi riempie il palcoscenico non solo in orizzontale, ma anche in verticale, con il suo fisico allampanato. E quando non basta il corpo, è la sua ombra gigantesca e surreale, proiettata sullo sfondo dal gioco delle luci, a dominare la scena. Quel corpo produce capriole e danze istrioniche, mimi e balletti. Il viso bifronte, animato da occhi proiettati all’infinito in uno spazio scenico che è anche estensione vitale, esprime con intensità variabile e tanta ironia sofferenza e fatica, fame e freddo, ma anche sogno e redenzione.

Poesia e comicità sono gli ingredienti di uno spettacolo che, attraverso un uso onirico del buio e della luce, crea spazi profondi e atmosfere. Definisce suggestioni e ricordi, ridestando nel pubblico quel sogno di libertà di cui Modugno rimane simbolo.

La cecità di Berardi trasmette un alone fascinoso allo spettacolo, esaltandone la parte lirica, in un indistinto, multiforme volo notturno.

 

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=9E8Fn85bALY&w=560&h=315]

RaNuncOli #5: Mercuzio non deve morire: lo direbbe anche mia zia

foto stefano-vaja-palladium
foto stefano-vaja-palladium

A mia zia Melina piacevano i film che la facevano piangere. Amava particolarmente Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari nei film di Raffaello Matarazzo:  “Catene” (1949), “Tormento” (1950). “I figli di nessuno” (1951), ma guardava anche  “Scarpette Rosse “(1948), “Narciso Nero” (1947), “Lo specchio della vita ” (1959). Amava il melodramma.

Zia Melina piangeva sempre, vedendo gli uni e vedendo gli altri. E quando piangeva diceva di aver visto un capolavoro.

Nonostante la rivalutazione del melodramma italiano non mi sentirei di considerare opere d’arte i film di Matarazzo, insomma non me la sento di metterli allo stesso livello dei film di Powell e Pressburger e di Douglas Sirk.

Allora quando mi trovo circondata da un pubblico in lacrime cerco di capire se mi trovo davanti ad un’opera d’arte o semplicemente ad un’opera d’arte secondo zia Melina.

Ci sono molte cose che fanno piangere le persone. Raramente la bellezza.
Quasi sempre le lacrime arrivano insieme alla pena, alla nostalgia, alla morte, alla malattia, ai bambini, ai vecchi, all’ingiustizia, all’assenza, al desiderio.

“Mercuzio non vuole morire” ha fatto piangere il pubblico. Un pubblico desideroso di bellezza. Molti di loro sono andati per quello, per vedere la magnifica forza di quegli attori della “Fortezza”. Un pubblico che forse non è riuscito a dimenticare mai che quegli attori vivono chiusi in un carcere, un carcere vero, non quel carcere metaforico di cui Punzo racconta: “L’ho detto molte volte: a me non interessa il carcere in quanto tale, non voglio rieducare nessuno, non è il mio mestiere. Mi interessa in quanto microcosmo, … Il carcere è un dentro, un dentro di noi”.

E chi, invece, è andato per vedere degli attori, non sapendo o dimenticando dove vivono quegli attori, non ha pianto. È stato sopraffatto dalle parole, dai suoni, dalla musica, dal girotondo di figure, dall’erudizione. Sopraffatto e prosciugato. Nessuna esperienza catartica, nessuna esperienza estetica. Solo il carcere dentro di sé. Non sempre, non a tutti, basta il riconoscersi. 

http://www.youtube.com/watch?v=Ic1w53m70_o     scarpette rosse

http://www.youtube.com/watch?v=GFIT66EP5Qc      I Clowns