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Il mondo del jazz nella magia di Novecento

Novecento-Alessandro-BariccoMARIA PIA MONTEDURO | Il monologo Novecento, a torto o a ragione, è considerato un testo cult. Diverse edizioni teatrali, una nota trasposizione cinematografica nel1998 a opera di Giuseppe Tornatore (“La leggenda del pianista sull’Oceano”, vincitore di ben sedici premi internazionali), molto successo di critica e pubblico. Può perciò essere interessante, a quasi vent’anni dalla prima stesura ad opera di Alessandro Baricco, assistere alla messa in scena del regista (Gabriele Vacis) e dell’attore (Eugenio Allegri) per i quali lo scrittore torinese nel 1994 lo compose appositamente. Occasione ghiotta quindi, offerta dal Teatro Eutheca di Roma, che per questo evento si sposta all’interno della cittadella Cinecittà, allestendo lo spettacolo nello Studio Fellini, la bellissima sala dove il Maestro amava seguire le proiezioni dei suoi film.

Eugenio Allegri dà voce, corpo, canto, musica a tutti i personaggi della pièce, con una solida prova attoriale in cui non sfigura un po’ di istrionismo d’autore, anzi. Il testo, coinvolgente, attraente, affascinante, affabulatore, anche furbo talora, incanta il pubblico, eccezionalmente composto da molti giovani (cosa, purtroppo, abbastanza insolita per i teatri romani). Come ebbe a dire lo stesso Baricco, il testo è a metà strada tra “una vera messa in scena e un racconto da leggere ad alta voce” e la scelta registica di Vacis e l’interpretazione di Allegri sono esattamente così: teatro per le suggestive invenzioni registiche di Vacis, esposizione narrativa seducente di Allegri, amalgamati da un filo conduttore musicale di grande presenza scenica.

La musica entra prepotente nella storia e nella perfomance, suggella un patto tra autore e attore, tra attore e pubblico, tra storia e narrazione. L’inverosimile storia di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, che non scenderà mai dalla nove su cui è nato fino ad attendere lì la morte, è cadenzata dalla musica: dal ritmo sincopato del jazz, dalla nostalgia suadente del blues, dalla genialità di un uomo che riesce a destrutturare la scala dei desideri, per trasformarla in una sorta di ascesi, di distacco serafico dalle convenzioni sociali e dalle aspettative dei più, per vivere in simbiosi con l’improvvisazione musicale. Baricco sa essere allettante e seducente, sa calibrare cultura e anche astuzia e inventa un personaggi che vive sospeso tra il suo pianoforte e il mare, ma che riesce a conoscere e a far sue, attraverso i racconti degli altri, tutte le sfaccettature e le atmosfere del mondo, pur non spostandosi mai dalla tastiera del suo strumento.

Uno spettacolo divertente e commuovente assieme, scritto e realizzato per piacere al pubblico, per farlo viaggiare sull’oceano assieme all’ineffabile Novecento. Allegri e Vacis sono bravissimi a non far calare mai la tensione, a non spezzare il filo che li lega agli spettatori, a dare corpo e soprattutto suono a un monologo che, forse, altro non è che la storia di un’amicizia: quella tra il narratore e Novecento, e quella di Novecento e il mare. Sarà il mare infatti, alla fine, a inghiottire tutto il mondo di Novecento, quello stesso mare che per lui è stato al contempo libertà e prigione, inizio e fine, alfa e omega del suo destino di leggendario pianista sull’oceano.

Rito sonoro che si fa anima

Mariangela-Gualtieri-4VINCENZO SARDELLI | Bisogna essere innamorati della poesia per apprezzare uno spettacolo come “Bestia di gioia”, monologo di e con Mariangela Gualtieri, che ha aperto sabato 19 gennaio 2013 al Teatro Verdi di Corsico (Mi) la quindicesima edizione della rassegna «Incontri».

“Bestia di gioia” nasce dall’omonima raccolta di versi (Torino, Einaudi 2010) di Mariangela Gualtieri, fondatrice con Cesare Ronconi del Teatro Valdoca. È dalle poesie di questo libro che prende il via quello che l’autrice definisce “un rito sonoro che si fa anima”.

Il breve monologo (50 minuti) non appesantisce lo spettatore che lo concepisce come  una pausa dai ritmi quotidiani. È la poesia delle piccole cose: riflussi d’infanzia e profumi di campagna, feste di animali, inquietudini, colori soffusi: “Ciò che non muta/ io canto/ la nuvola, la cima, il gambo/…il coraggio dell’animale nella tana/ quando gli esce il nato fra le zampe…”.

Poesia rarefatta, come la scena. Una musica sfumata accompagna la protagonista: note di pianoforte, giri di violino. È una colonna sonora ridotta all’essenziale. Ogni potere evocativo viene lasciato alla voce, nuda davanti al microfono.

La parola entra in un giro di forze. Mariangela Gualtieri dosa parole e pause. Anche il silenzio è poesia.

I gesti sono fermi e solenni. La luce illumina un Moleskine che rimbalza tra le mani. Ne escono versi che raggiungono il pubblico: siamo stanchi e vuoti se perdiamo l’infanzia e la capacità di stupirci, se smarriamo la vena lirica che è dentro ciascuno di noi.

La tessitura si basa su un filo narrativo in cui la natura è in primo piano. L’io è in ascolto del suono.

Le parole si fanno materia. La voce della Gualtieri è quella di una sibilla che non lascia indifferenti.

Sunset Limited

Sunset-Limited_fph-Armando-Rebatto-da-sin-abio-sonzogni-e-fausto-iheme-caroli-04VINCENZO SARDELLI |  Un confronto esistenzialista sui grandi temi della vita e della morte, della felicità e della fede. “Sunset Limited”, di scena al Teatro Sala Fontana di Milano fino al 25 gennaio, è un dialogo filosofico tra due personaggi tratti dall’omonimo romanzo breve di Cormac McCarthy (Einaudi 2008).

Il Bianco e il Nero, interpretati da Fabio Sonzogni e Fausto Iheme Caroli, sono due uomini di mezz’età ormai nella parabola discendente della loro vita. Si confrontano seduti a un tavolo di cucina, davanti a una Bibbia e a un quotidiano, metafore dell’eterno e del contingente. La messinscena di Fabio Sonzogni, regista oltre che attore, osserva le classiche unità aristoteliche di luogo, tempo e azione. Scenografia e costumi richiamano la quotidianità dozzinale. Poco spazio agli orpelli: la regia asciutta, essenziale, si concentra sulle parole. Nessun commento sonoro, solo qualche voce di sottofondo, a ricostruire in maniera evocativa l’atmosfera di degrado sociale in cui è ambientata la vicenda. Il difetto di questo copione sta forse nella monocorde proposizione di due identità imprigionate ciascuna nel proprio ruolo, senza scosse, senza possibilità di evoluzione. Senza che lo spettatore sia messo in grado di intravedere quella ricchezza di sfumature che invece si aspetterebbe di trovare nei personaggi in scena, data la complessità dei temi trattati.

Il Bianco è un professore universitario sprofondato nel nichilismo; il Nero è un proletario con un passato da alcolista e una storia di carceri e violenze, che ha scoperto la fede in Cristo. Il Nero è stato redento e vuole redimere; il Bianco ingaggia con il Nero un duello sul senso della vita.

Una rete come un diaframma separa la scena dal pubblico. Due divani coperti da teli bianchi rendono un senso d’incompiutezza disadorna, ma invitano a svelare l’essenza delle cose.

Una pentola fuma sui fornelli: è il preludio a un incontro eucaristico tra i protagonisti, che non li condurrà mai alla fusione. Sulla porta, chiusa con chiavistello e catene, soglia non solo allegorica da superare per rigettarsi nel mondo o ripiombare nel nulla, campeggia un crocefisso.

È questo il ring della sfida. L’uomo bianco stava suicidandosi sotto un treno; l’uomo nero è colui che l’ha salvato e condotto nella propria casa. Il velo è una cappa di disincanto che avvolge la scena. La luce della speranza, l’attesa della felicità, tenterà di squarciare quel velo.

L’intelligenza vivace e ironica dei due personaggi conferisce comunque al confronto, impostato alla maniera della dialettica platonica, un tono di leggerezza. La catastrofe sembra sempre sul punto di essere scongiurata. La sfida è in costante equilibrio, fino all’escalation finale dell’arringa del Bianco, che pare delineare un “vincitore”.

«Diventare vecchi è insopportabile e umiliante» scriveva Philip Roth in “Everyman”, uno dei suoi romanzi più dolenti e implacabili intorno alla senilità e alla malattia, argomenti temuti e tenuti ai margini del discorso pubblico. In “Sunset Limited” (il titolo allude al treno superveloce che collega Louisiana e California, sulle cui rotaie il Bianco cercava la morte) è il mondo occidentale che sembra contemplare la propria estinzione. In questo nichilismo imperante la possibilità della morte diventa scelta legittima di libertà, anziché atto di fuga.

La dialettica fra le due posizioni contrapposte, interpretate con naturale forza icastica dai due attori, sempre più efficaci via via che la matassa si dipana, scuote la coscienza dello spettatore. Lo interroga. Lo sollecita alla riflessione e alla ricerca.

In una società che tende a narcotizzare la meditazione e a rimuovere il dolore, merito di questo dramma è il richiamo al senso della realtà e della storia. Eludere o rinviare gli interrogativi esistenziali equivale a ingannarsi, e rende perciò stesso la vita indegna di essere vissuta.

Jucature

1_Jucature_RenatoCarpentieri

RENZO FRANCABANDERA |  La commedia nel teatro contemporaneo è diventata sempre più rara e difficile da incrociare, e il motivo è piuttosto semplice: far ridere con intelligenza e arguzia è diventato sempre più difficile. Il gusto medio si è per certa parte banalizzato, portando ad esiti drammaturgici mediocri, per altra invece sofisticato, con il rischio di produrre invece testi un po’ esclusivi ed elitari.

Per altro verso, quello dell’attore capace di abbinare a struggenti maschere tragiche la mimica della commedia, quegli aggrottamenti di sopracciglia, quegli sguardi di traverso che valgono cento battute, è un mestiere che è un po’ scomparso, soppiantato da pirotecnici atleti della scena, espressivi come un portafiori cinese in similpocellana.

Ecco dunque che quando si assiste a testi brillanti, interpretati a dovere, quasi quasi vien fuori la lacrimuccia. E da questo punto di vista non possiamo non certificare come un inesauribile focolaio di talenti addestrati alla scuola dell’ironia sia la scuola teatrale campana. E’ incredibile come da questo punto di vista la regionalità vada oltre lo stereotipo e permetta agli interpreti di seguire l’evoluzione della scena, continuando a garantire interpreti di rango.

C’è da dire, a proposito dei testi di Pau Mirò cui questa riflessione si riferisce, che, come nella miglior tradizione, la vera commedia porta un riso amaro, quell’espressione unica della risata che ti si smorza in faccia perché la commedia in genere parla di una sconfitta. E quando gli sconfitti sono i deboli, i soliti ignoti, siamo già nella seconda metà del XX secolo e nelle sceneggiature che si sono originate dal neorealismo in poi, di cui noi italiani siamo stati maestri. Fa dunque quasi amorevole rabbia vedere la bandiera portata avanti da un catalano, che certo come indole non deve averne una diversa da quella mediterranea, ma è un po’ come vendere la Ducati ai tedeschi. Un pochetto ce rode.

Detto questo come prologo, non resta che raccontare il gradevole esito della collaudata ditta Ianniello/Mirò, con il primo che daalcuni anni, con Chiòve prima e con Jucature ora, porta in scena i testi del drammaturgo catalano. Il Piccolo di Milano ha dedicato una piccola personale al drammaturgo, ospitando in questi giorni al Teatro Studio Expo i due allestimenti.

Di Chiòve avevamo parlato alcuni anni fa. Jucature l’abbiamo visto con piacere la settimana scorsa. La storia è quella di un gruppo di amici che si incontra per giocare a carte. I quattro sono caratteri prototipici: il giovane attoruncolo mai scritturato, l’impiegato del camposanto frequentatore di prostitute est europee, il vecchio professore di matematica, il bottegaio fallito. Figure border line che per uscire dagli affanni delle loro vite architettano un colpo in banca: un canovaccio narrativo neanche particolarmente originale, ma architettato bene nella costruzione dei personaggi. Siccome la commedia scritta bene è rara, quella interpretata bene ancor di più, Jucature appartiene ad un sottoinsieme intersezione dei dei precedenti, di cui fan parte pochi elementi, che dunque occorre segnalare. Il testo di Pau Miro’ per la regia di Enrico Ianniello che lo interpreta insieme a Renato Carpentieri, Tony Laudadio e Marcello Romolo in una produzione Teatri Uniti in collaborazione con OTC, Institut Ramon Llull, vive di una vita pulsante. L’allestimento lo veste di un realismo che è proprio del testo e che non cerca letture stravaganti. Anzi è proprio il realismo ad esaltare la stravaganza e l’assurdità di questi personaggi dal tratto concreto e possibile, in cui ogni spettatore possa trovare la parte incosciente di se stesso. Il testo forse nel finale flette un po’ ma in questa ora e poco più di spettacolo, ambientata in un soggiorno di una casa piccolo borghese attorno a un tavolo, i giocatori raccontano il loro destino, lo segnano, lo rendono concreto. La psicologia dei personaggi è ben delineata e gli interpreti la indossano in modo casual, confortevole. Da vedere, così come Chiove, in scena in questi giorni.

Gaber se fosse Gaber

giorgiogaber_1NICOLA ARRIGONI | Non è detto che per tutto la fine sia la morte… sicuramente non lo è per Giorgio Gaber. Il recital Gaber se fosse Gaber di Andrea Scanzi non si è limitato ad essere un omaggio ai dieci anni dalla morte del Signor G., il 1° gennaio 2003, ma è stato qualcosa di più. L’incontro spettacolo — prodotto dalla Fondazione Giorgio Gaber e scritto da Andrea Scanzi — ha tracciato la storia recente del Paese attraverso il volo utopico, arrabbiato e ironico di quel ‘gabbiano ipotetico’ che fu Giorgio Gaber, cantante, insieme a Sandro Luporini cantore di un’Italia fatta di contraddizioni, della politica come dell’amore, dell’uomo con tutte le sue debolezze e piccolezze. Il racconto di Scanzi parte dagli anni Sessanta e da quando Mina lo invitò a fare con lei una tournée e lo portò dalla tv in teatro da cui non se ne sarebbe più andato.

Gaber se fosse Gaber calibra con sapienza e senza essere ripetitivo filmati, canzoni e una narrazione che s’intesse — come è logico che sia — di citazioni dei testi di Luporini-Gaber per leggere la storia recente e come la società sia cambiata, il tutto attraverso i movimenti dinoccolati, la mimica stupita di un Gaber che riempiva la scena e lo faceva con leggerezza, con quell’aprir di braccia e alzarsi in punta di piedi che sembrava suggerire un volo possibile, sicuramente rincorso, voluto, sperato, sognato fino all’ultimo. Si passa dagli anni Settanta fra rivoluzione, passione politica e disincanto, per arrivare agli anni Ottanta del disimpegno che per Gaber furono sguardo rivolto all’uomo/albero, fino al Grigio e alla sua follia solipsistica, per passare poi all’indignazione/disillusione di Qualcuno era comunista nella Milano di Tangentopoli, fino all’invito ad un nuovo possibile umanesimo. Andrea Scanzi puntella con precisione e trasporto la carriera del Signor G., ne svela il portato intellettuale, critico, morale e moralista (per dirla alla francese), il tutto in un lungo respiro, quasi in apnea.

E la platea trattiene il respiro con Andrea Scanzi, lo fa ricordando quando il Signor G. era sul palco del Ponchielli ed era sempre una festa, lo fa per riassaporare quel senso di leggera inquietudine che alla fine degli spettacoli di Giorgio Gaber qualcuno si portava via perché si ritrovava di nuovo spiazzato da quello strano cantant’attore che non sapeva decidersi fra parola e musica e per questo — forse — s’era inventato il Teatro canzone. Andrea Scanzi ha costruito un testo teatrale puntuale, preciso, incisivo, che sfiora la nostalgia senza giocarci troppo, che sa fare sintesi e analisi al tempo stesso, in cui l’attore non si fa trarre in inganno dal facile mimetismo, ma non nasconde di essere stato travolto da Gaber visto a diciassette anni a tal punto che ora ne perpetua in maniera sentita e non retorica la lezione… Applausi al ‘gabbiano ipotetico’, al Signor G.

Di seguito un video dello spettacolo realizzato dalla fondazione Gaber

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=MmRlFjLgk6w]

Il doppio sguardo di Don Giovanni

don-giovanni-copiaNICOLA ARRIGONI | «Il dispetto è la spilla del mio desiderio», afferma Don Giovanni… In questa battuta e nella contrapposizione fra il termine dispetto e desiderio c’è tutta l’ambiguità del mito di Don Giovanni.

Se ci si rifà all’etimologia della parola dispetto: de (giù) spicere (guardare), guardare dall’alto verso il basso è in contraddizione con il de-siderio, che è volgere lo sguardo alle stelle. Don Giovanni vive di questo doppio sguardo: e non è poco.

Sfida il Cielo con lo sguardo ed è alla fine costretto a sprofondare all’Inferno, una condanna che gli è preannunciata ripetutamente dal suo fedele Sganarello che gli fa da voce della coscienza, o meglio da alter-ego di un contraddittorio fra il libero pensiero e il credere comune. Antonio Zavatteri ha reso tutto ciò con intelligente lucidità, calibrando con gusto ed equilibrio comicità e argomentazione, farsa e dramma in una coerenza di toni e varietà di forme più che apprezzabili. Il cielo — cui ci si riferisce in maniera ossessiva per tutta la pièce — è nuvoloso nel Don Giovanni di Gank, incombe, è angosciante, così come nella seconda parte la casa di Don Giovanni dove è atteso il Commendatore è una sorta di imbuto prospettico, per un allestimento che legge il testo rispettandolo e interrogandolo.
In tutto ciò Antonio Zavatteri è un Don Giovanni consapevole di sé, incastrato dalla bellezza, ma soprattutto disposto a portare all’estrema conseguenza la sua ricerca di libertà che si concreta nel condannare l’ipocrisia, vizio tanto alla moda nel mondo da diventare una virtù. Alberto Giusta è invece uno Sganarello che nel suo peregrinare al seguito del padrone è voce del comune sentire, ma incapace di opporsi al padrone, una mancanza dettata forse dalla convenienza che nella commedia equivale alla fame atavica dei servi.

La Donna Elvira di Ilaria Falini è vestale immolata, è il dolore delle donne sedotte, sposate e abbandonate di Don Giovanni che del dolore dell’altro non sa occuparsi, troppo preso dal suo desiderio d’altro: sempre in fuga dalle donne e dai debitori, sempre in viaggio, sempre inappagato. Massimo Brizi, Mariella Speranza e Alex Sassatelli vestono i panni degli altri personaggi, in un cambiare di voce e di abiti che non è mai macchinoso, appare preciso e ben caratterizzato, in cui l’aspetto farsesco — sempre presente anche nel Molière più maturo e introspettivo — si coniuga con giusto cabarettistico e spinte caricaturali trovando sempre la giusta misura.

Don Giovanni conferma la solida impostazione della Compagnia Gank, il suo onesto e fecondo interrogare i grandi testi, senza sostituirsi ad essi ma portandoli nel qui ed ora della scena. L’effetto allora è che quella condanna all’inferno è un bruciare interiore che risucchia in se stesso Don Giovanni che dal desiderio d’altro di trova fagocitato dal desiderio di niente, un cupio dissolvi inconfessato.

Qui alcune sequenze dello spettacolo in un video realizzato dalla compagnia
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=JVeqwobSPYg]

DON GIOVANNI di Molière, traduzione Cesare Garboli, con Alberto Giusta, Antonio Zavatteri, Massimo Brizi, Alessia Giuliani, Mariella Speranza, Alex Passatelli, scene e costumi: Laura Benzi, luci: Sandro Sussi, regia di Antonio Zavatteri, produzione Gank-Teatro Stabile di Genova, al teatro Ponchielli, Cremona, 11 gennaio 2013

Qui e ora

Qui-e-OraRENZO FRANCABANDERA | Gregor Johann Mendel è stato un biologo considerato il precursore della moderna genetica per le sue osservazioni sui caratteri ereditari. Dopo i suoi studi è più facile capire se qualcosa appartiene o meno a qualche specie, genere, categoria. Quando Mendel è nato, era già in uso la nomenclatura binomia, la convenzione standard utilizzata in sistematica per conferire il nome scientifico ad una specie, composto dal nome del genere a cui appartiene la specie e da un epiteto che caratterizza e distingue quella specie dalle altre appartenenti al quel genere (es Homo erectus, Homo sapiens).

La questione ci viene in mente a proposito del debutto in prima nazionale a Cagliari di “Qui e Ora”, la pièce scritta e diretta da Mattia Torre, che segna il ritorno al palcoscenico di Valerio Mastandrea dopo il monologo “Migliore”. Ci viene in mente perché dopo lo spettacolo ci siamo per un certo tempo (relativamente breve) interrogati per capire se questa commedia commissionata dalla produzione cagliaritana BAM Teatro, ed interpretata oltre che daValerio Mastandrea, da Valerio Aprea, possa essere ascritta alla categoria vaga, indefinibile e geneticamente modificata di “nuova drammaturgia”. Se sul sostantivo (Drammaturgia, il nome del genere, se il paragone è lecito) non v’è dubbio, l’elemento critico ricade sull’aggettivo (l’epiteto “nuova”) che dovrebbe declinare il genere nella sua caratteristica estranea al modello prototipico.

Una cosa è quindi nuova se ha caratteristiche di cui non si possa postulare la conformità rispetto ad altro calco; con riguardo alla drammaturgia, dovremmo parlare di qualcosa che, ad esempio, introducesse uno schema narrativo con un linguaggio, un riferimento al tempo scenico, all’azione, allo spazio, che incorpori appunto una qualche novità rilevante.

Insomma,  con  qualcosa che riproponesse un tradizionale schema di inversione dei ruoli all’interno di un canovaccio da  commedia, in cui l’ammiccamento al pubblico dovesse continuare per quasi tutto il tempo con un’impostazione da ironia noir, prima di proporre un finale tragico, saremmo nel già visto e già sentito abbondantemente. Tutto il sostrato delle sceneggiature della commedia all’italiana degli anni 60, avendo incorporato la lezione del neorealismo, era basato su questo schema. Insomma di nuovo ci sarebbe assai poco.

E’ questo il nostro pensiero a proposito di Qui e Ora, titolo che peraltro in noi appassionati di nuove drammaturgie, evocava ben altri sussulti, essendo il titolo di una altro testo teatrale, quello si nuovo, di Roland Schimmelpfennig “Hier und Jetzt” che nell’edizione 2009 del Theatertreffen fu affidata, per quella che poi divenne la sua ultima regia, al grandissimo Jürgen Gosch. Un allestimento che ricordo ancora per slittamento di piani narrativi, sequenze irreali e scene indescrivibili per complessità che ho poi rivisto in qualche modo copiate in molti spettacoli successivi.

Quella di Cagliari è invece la storiella di un conduttore radiofonico che ha un incidente di moto. Nel suo delirio personale il personaggio, dal tratto isterico aggressivo, non trova neanche nell’incidente causa per fermarsi, dando vita ad una diretta audio dal luogo dello schianto, e con l’altro incidentato che pare lì lì per morire. Il finale invertirà i ruoli e si scoprirà che l’incidente non era poi frutto del caso.

Nel testo, la chiave di volta dall’ironico al drammatico è talmente schematica e secca da risultare posticcia e mal studiata. Il finale è schiacciato, come l’intervento di un deus ex machina che risolve senza spiegare o, come in questo caso, fornire elementi credibili in una logica del reale (che alimenta d’altronde lo spettacolo in generale) per quello che risulterà essere un tentato omicidio.

La scena proposta a Cagliari  da Beatrice Scarpato non sfrutta il palcoscenico, è didascalica e parziale al contempo, mentre il disegno luci di Luca Barbati risulta banale, con un leggero abbassamento dell’intensità sul finale a lasciar intendere un’ora prossima al tramonto, e un passaggio dai toni caldi a quelli freddi per l’attimo fatale con cui si chiude lo spettacolo, rimarcato da una versione registrata dell’Ave Maria di Gounod, che ci è sembrata (anche questa, sic!) non esente da errori né sul latino né sull’intonazione della cantante. E’ parso maggiore lo sforzo per il disegno luci al momento degli applausi che quello per l’intero spettacolo. Ci sarebbe piaciuto parlare delle nostre inquietudini con i protagonisti e chi ha scritto il testo. Ma non è capitato.

Siamo rimasti per oltre quaranta dei sessanta minuti in una dimensione surreale, fuori da uno spettacolo che raccoglieva, attorno a noi, grasse e sempliciotte risate in un pubblico che era lì al 90% per vedere il divo tv, attorno al quale è stata costruita la solita drammaturgia che dovrebbe calzargli a pennello, mettendogli vicino una spalla. Niente di sfidante, niente di nuovo. Per nessuno. Uno spettacolo che, in fondo, vale, per l’intima logica che lo pervade, il pubblico che richiama. Non dunque di Nuova Drammaturgia trattasi, ma solo di una Drammaturgia nuova.  ¡Que viva Mendel!

Raccontare storie da portare in vita

Celestini_OCCHIELLOANDREA CIOMMIENTO | C’è qualcosa di prevedibile nei racconti di Ascanio Celestini: con molta frequenza lo spettatore interessato ai suoi lavori attende parole investite d’incastri labirintici e ideologici tra porte di sinistra e di destra, storie che narrano il passato e il presente sotto le voci del popolo borgataro o del “me ne frego” nostalgico e gerarchizzato. Soggiace una permanente azione di rimescolamento delle carte che ormai tutti sappiamo essere le medesime e il rischio di questo gioco vive nella possibilità di ricevere al banco il due di picche anche se le carte riveleranno quasi certamente un re di cuori o un asso di fiori. Ascoltare Celestini è un po’ questo: sapere che le carte narrate saranno sempre rosse e nere ma di semi differenti alla partita precedente perché rimescolate ogni volta con deferente meticolosità. Allora ci interessa comprendere come alzare il mazzo e maneggiare ogni singola carta per scoprire i meccanismi che lo rendono un narratore affermato e degno di stima. Lo incontriamo in una piccola roccaforte del contemporaneo chiamata Lari (vicino Pisa) in occasione della chiusura di “Collinarea 2012 – Genius Loci”, un vivace festival estivo che avremo modo di raccontarvi nei prossimi focus teatrali sulle nostre pagine web.

Qualsiasi domanda prettamente teatrale sarebbe impropria come inizio di chiacchierata. Il tuo modo di far teatro non parla solo a se stesso ma si mette in relazione allo studio della tradizione popolare e dell’oralità… 

Diciamo di sì, ho iniziato a fare teatro perché studiavo antropologia e dopo un paio di anni che facevo ricerca -sostanzialmente registrando storie di persone- un mio amico mi ha detto “andiamo a fare un corso di teatro”, un corso semplice, amatoriale, di pochi giorni a settimana. Era più un gioco ma mi è sembrato che nel teatro ci fosse una possibilità. L’antropologo lavora sulle fonti orali, sulle storie, ma quando le raccoglie muoiono subito. Per capire com’è fatto il corpo umano bisogna aprirlo ma quando lo apri l’organismo muore. Portare quei racconti sul palco era una maniera per dare vita a quelle fonti orali che se finiscono trascritte in un libro o in un archivio diventano solo materiale per studiosi o per studenti, fonti molto lontane dalla loro vitalità orale.

I tuoi monologhi non sono solo la raccolta d’interviste o la narrazione tematica su ciò che desideri approfondire: dalla condizione dei giovani precari alle storie sugli ospedali psichiatrici. Sembra quasi tu voglia catturare altro attraverso gli sguardi che incroci e gli incontri che fai… 

Questo tipo di teatro riproduce in piccolo quella che è la dimensione dell’oralità concreta, cioè quella che conosciamo concretamente anche in pizzeria. Andiamo in vacanze in sei o sette persone, poi ci incontriamo con gli amici che non sono venuti con noi e raccontiamo la nostra vacanza. Non stiamo parlando del racconto sulla seconda guerra mondiale, sulla diga del Vajont, su un romanzo dell’Ottocento, raccontiamo proprio la storia della vacanza. Si fa così tanto per finire di mangiare una pizza: normalmente c’è quello che racconta di più degli altri, c’è quello che non parla mai anche se anche lui potrebbe raccontare quella storia perché pure lui è stato in vacanza, c’è quello che racconta ma non è stato presente in una delle sere perché è andato a dormir presto, c’è qualcuno che ascolta ed è stato in vacanza in quel posto. Questa è la dimensione dell’oralità. Il racconto raramente è fatto da una persona a tutti gli altri, c’è magari un narratore che è il leader ma tutti partecipano alla narrazione. Se poi andiamo nella dimensione dell’oralità stratificata dove in famiglia mio padre racconta la stessa storia per la novantesima volta, tutti sappiamo quella storia e tutti rientriamo in quel gioco.

Questo come viene trasposto in teatro? 

Questa oralità concreta si riproduce nel teatro in maniera molto più semplificata. Questa modalità credo sia nata per tanti motivi: mancanza di soldi, di produzioni e per motivi politici perché qualcuno ha pensato “ci siamo rotti di fare Goldoni e Shakespeare”. Sì, Shakespeare è nostro contemporaneo ma manco tanto perché non ci puoi andare a mangiare una pizza. Nasce anche per la delusione politica degli anni Settanta e Ottanta ma soprattutto perché si è cercato di accorciare quel filo che parte dall’attore e va verso lo spettatore, per semplificare quel rapporto, quel tipo di comunicazione.

Il tuo nuovo monologo si chiama “Discorsi alla nazione – Studio per uno spettacolo presidenziale”, parli di sudditi, tirannia e consenso… 

M’interessa come le cose vengano modificate dal linguaggio, non è più la parola che cerca di dire la cosa ma è la parola che, modificandosi, modifica anche le cose. Nel linguaggio giornalistico e politico accade sempre più spesso, la politica sarà sempre più assorbita dalla comunicazione che è diventata spettacolo e quindi va in scena. È rappresentazione, poco rappresentanza. Un po’ perché un linguaggio violento paga molto di più di un linguaggio che non usa la violenza. Il linguaggio violento va molto al di sopra del rumore a cui ci siamo abituati. Linguisticamente è molto interessante, quanto le parole stanno cambiando le cose. I partiti sono vere e proprie aziende, sono marchi, serve l’aggiornamento da packaging, da prodotti e da nuovi slogan, prima la pubblicità era molto vicina alla propaganda. Oggi non c’è più la propaganda ma soltanto la seduzione, se analizzi i contenuti nell’arco di sei-sette mesi vedi che tutti dicono il contrario delle cose dette una settimana prima. È molto più importante la penetrazione dell’istante piuttosto che la comunicazione della visione del mondo.

In questa evoluzione “spettacolare” della politica il teatro come sta vivendo la sua identità precaria? 

Il teatro vive una situazione drammatica da sempre. Esistono grandi teatri che prendono tanti soldi (ora un po’ di meno ma comunque tanti), producono spettacoli e se li vendono tra di loro, se li scambiano, spettacoli mediamente orrendi, inguardabili. Questo teatro è un mostro voracissimo che si mangia tutto, buona parte funziona così. Tutto il resto del teatro, quello vitale, quello che gira all’estero, vive nonostante i ministeri, le sovvenzioni e questi meccanismi. Il teatro sta un po’ peggio perché tutto il paese sta un po’ peggio. Servirebbe staccare la spina e rigenerare iniziando da quelle piccole compagnie che funzionano.

Da oltre un anno l’occupazione del Teatro Valle di Roma rappresenta una resistenza al declino culturale italiano e la proposta di una nuova partecipazione dal basso nella politica culturale… 

La vicenda del Teatro Valle è un fatto importante nella politica di questi ultimi anni, sicuramente un dato rilevante per visibilità, partecipazione e modalità però fa parte di tutto un insieme di luoghi e di tempi nei quali si è preso coscienza che fare politica non significa stare nei sindacati o nei partiti ma nei territori. Non si fa più reale politica a livello nazionale o europeo. Quella è gestione del potere, del privilegio, del denaro che ha portato per questo allo scollamento dei territori.

Ci fai un esempio? 

La Val di Susa è l’esempio di questi ultimi anni, l’idea che se io ho un problema devo affrontarlo per primo insieme ai miei vicini di casa, agli amici, al collega perchè non lo farà nessuno al posto mio, il mio partito sarà impegnato a gestire il proprio marchio. L’occupazione teatrale deve essere letta all’interno di una rete di occupazioni, del Cinema Palazzo, del Teatro del Lido, del Rialto Sant’Ambrogio, dell’Angelo mai. Son tutte realtà che oscillano tra occupazione, lavoro politico sul territorio e impossibilità a livello economico. Detto questo, sempre di più dovremmo andare verso un modello di radicamento territoriale: questa è l’unica cosa che manca al Valle. Ha una visibilità molto più grossa rispetto a tutti gli altri, ma che ci sia un radicamento territoriale a Piazza del Teatro Valle al centro di Roma, questo è difficile. È un territorio veramente ostico, molto più ostico del Teatro del Lido di Ostia.

PalCo – Palcoscenici Contemporanei

aldomorto-timpanoRENZO FRANCABANDERA | La seconda edizione di PalCo- Palcoscenici Contemporanei, rassegna iniziata l’anno scorso al Parco di Monteclaro – Cagliari, a cura dalla Compagnia B, nonostante il grande successo dell’edizione estiva 2011, ha dovuto fare i conti con i tagli e si è ridotta a tre appuntamenti durante le festività natalizie 2012 ospitale al Mini Max il “Ridotto” del Teatro Massimo di Cagliari.

Si è trattato comunque di una proposta particolarmente interessante nel suo complesso, con la versione della favola di “Biancaneve” firmata da Emma Dante – giovedì 27 dicembre per proseguire con “Aldo Morto” di Daniele Timpano (venerdì 28), e infine (sabato 29) “Porco Mondo” di Biancofango.

Aldo Morto di Daniele Timpano, spettacolo vincitore Premio Rete Critica 2012 e finalista al Premio Ubu 2012 come “Migliore novità italiana (o ricerca drammaturgica)”, con segnalazione speciale al  Premio IN-BOX 2012, è un ulteriore lavoro dell’artista romano sulla potenza iconica dell’oblio della Storia, un tema caro e già affrontato, pur con altra lettura, a proposito di Benito Mussolini nel suo Dux in scatola, che parecchie polemiche ebbe a sollevare cinque anni fa.

Questa volta con Aldo Morto, scritto, diretto e interpretato da Timpano e prodotto da AmnesiA VivacE  in collaborazione con Cité Internationale des Arts (Comune di Parigi), il focus è chiaramente sullo statista assassinato dalle Brigate Rosse (?) nel maggio del 78. Il punto interrogativo è d’obbligo visto il taglio che Timpano conferisce fin da subito al testo, che proprio facendo leva sulla forza dell’oblio a distanza di quasi 35 anni dall’evento, trasporta quella che è stata una chiave di volta della storia politica repubblicana, in un magma di persone-personaggi, vicende, piccoli frangenti umani e familiari che contribuiscono ad alimentare un non-ricordo mistificato, che travalica da subito i confini del vero ma che non abbandona mai il recinto del verosimile.

Quella dell’attore/drammaturgo è un’interpretazione nuda, che lo porta ad affrontare il pubblico in un confronto privo di scenografie di supporto e altri orpelli di scena, eccezion fatta per una mascherina da Mazinga (che riporta ad altri lavori e al confronto in termini di grammatura mnemonica, anche questa volta dichiarato, fra il passato della Storia e una qualsiasi puntata cartoon), oltre ad una riproduzione in scala della celebre R4. Così fra Renato Curcio e Mazinga Z, nella mente di un quarantenne distratto, finisce per esserci poca differenza, e questo pretesto sviluppa un narrato che si mantiene almeno per un’ora, intenso e potente, affidato ad un’interpretazione quasi anti recitativa, che beccheggia fra discussione colloquiale e momenti di mimo appassionato ma mai pulito, anzi volutamente ruvido e anti-accademico.

L’intreccio narrativo parte dall’identificazione fra Daniele e il figlio dello statista, che si chiede e chiede che germi conservi la Storia, quella dei libri, dell’epopea nazionale, della vicenda familiare, di quel vero intimo di cui mai si conserva traccia nella memoria. Da questo interrogativo ne partono poi altri sul vero della vicenda del rapimento, sul vero della storia delle Brigate rosse, sul vero della cella 3×1, sul vero nel cinema e nei racconti à-la-Mixer. Il sarcasmo sull’epopea sociale è continuo, e dialoga con il pubblico in forma non mediata, fino a portarlo quasi in scena, puntando su qualche spettatore il faro dell’interrogatorio proletario.

In tutto questo il tono rimane sempre alto, e il protagonista stesso pare accorgersi, dichiarandolo, quando il lavoro registra un punto di flesso nel dialogo che sempre è necessario con l’attenzione del pubblico. Ci si chiede perché dunque, davanti a un così chiaro atto di autoconsapevolezza, Timpano decida, approssimandosi all’ora e dieci di spettacolo, di proseguire per un altro quarto d’ora che, pur non scadendo mai nel banale, risulta più faticoso ed ermetico.

Mi era venuta in mente la sensazione piacevole di quando ci si alza da tavola nutriti ma equilibrati e quando si cede invece all’appetito ingordo per poi levarsi satolli. La fabula di Timpano potrebbe fermarsi, e bene, al primo dei due limiti, e decide invece, in uno sciabordio verbale, di approcciare il secondo. Dal punto di vista concettuale l’allungo aggiunge poco a quanto già delineato, per esaurirsi in una chiusa, peraltro, assai diversa, dal punto di vista dei segni (la musica, il neon ecc), rispetto a quello che fino ad allora era stato.  Questo è un ambito che ci pare di miglioramento, che uno sguardo registico esterno meno indulgente avrebbe senz’altro posto all’attenzione del creatore-interprete, per cristallizzare il rapporto con il pubblico di fruitori all’interno di un’intensità che trova il suo culmine ben prima.

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Biancofango è una Compagnia nata nel 2005 dall’incontro tra la drammaturga e regista Francesca Macrì e l’attore-autore Andrea Trapani. Ne abbiamo seguito da subito la vicenda artistica, registrando nelle capacità della allora non ancora trentenne regista, una capacità di creare tempi scenici, atmosfere e ritmi attorali di indubbia consistenza.

Porco Mondo, realizzato in coproduzione con La Corte Ospitale di Rubiera e il progetto OFFicINA1011 di Triangolo Scaleno Teatro, è un’insolita storia di natale ideata da Francesca Macrì e Andrea Trapani e interpretata dallo stesso Trapani con Aida Talliente.

All’interno di un disegno luci ideato da Luigi Biondi si dipana la vicenda di un uomo e una donna, una coppia che pare aver esaurito lo spazio della condivisione per rimanere in un logorato universo di micro isterie, che oscillano in forma libera fra lui e lei, e che all’inizio paiono uscire da una stanza di nosocomio psichiatrico, ma che poi rivelano la loro essenza tutta interna ad un ambiente “sociale”, senza dubbio borghese, istruito, agiato. La drammaturgia cadenza il ritmo della parola fra lui e lei in forma apparentemente libera, ma in realtà costretta, come in un gioco delle parti, lasciando poi l’idea di una sorta di pendolo di Foucault, apparentemente libero di oscillare in ogni direzione per un tempo illimitato, ma che ben presto rivela una regola meccanica che è il motore immobile della vicenda teatrale come, nel caso dello strumento scientifico, della regola fisica che gli è sottostante.

Lei tenta in modo infantile di avvicinarsi a lui, di riconquistarlo e allontanarlo da fruizioni telematiche al limite della pedofilia, travestendosi da Marilyn, con abito svolazzante e parrucca, ma questo tentativo finisce per suscitare in lui una pena ancor più spietata e centrifuga. Fra un panettone divorato nello spasmo dei nervi e una bottiglia di spumante che finisce per stapparsi al culmine della reciproca tristezza, la drammaturgia vuole rispondere all’interrogativo “Dove si scappa mentre ci si viene incontro?”. La fruizione è obiettivamente dolorosa, soprattutto per quel pubblico che ha raggiunto l’età delle consapevolezze e delle disillusioni, che legge in maniera molto chiara il complesso di simboli, spesso anche solo fisiognomici, che descrivono il rapporto fra i due personaggi in scena. Gli sguardi di lui oltre il proscenio paiono lanciati dal quinto piano di un ricco palazzone di quelli tutti vetri di una città metropolitana, gli sguardi di lei vogliono arrivare nel profondo dell’inconscio dello spettatore, per scavargli dentro il germe che in ognuno alberga del duale vittima-carnefice.

La riuscita è dolorosamente efficace, il pubblico dopo l’applauso non riesce ad alzarsi subito dalle poltrone, ha bisogno di restare un attimo a sedimentare, a raccogliere le forze, a mollare la presa rispetto all’ora e poco più di messa in scena.

Trapani, più rodato nei linguaggi della compagnia, è nel ruolo in maniera puntuale, forte, viva. La Talliente, sfavorita anche da un pendolare drammaturgico che appoggia maggiormente sul personaggio maschile le parole, i cambi di direzione emotiva, le dichiarazioni di senso e di stato, soffre invece nel cercare una resa quasi solo fisica dell’intimità fragile, dell’autostima ormai inesistente, di una luce incapace di riverberi e forse soffre troppo questo stato di minorità verbale.  Se dunque l’insieme è nel complesso di sicuro interesse ed efficace, il meccanismo scenico e la resa del personaggio di lei attivano un’invisibile inerzia che porta ad un inesorabile squilibrio, proprio come il pendolo di Foucault che venga attivato in un luogo diverso dall’equatore.

Si ricorderà che per lo strumento dello studioso francese, ad ogni latitudine della Terra tranne che all’equatore, si osserva la lenta rotazione del piano di oscillazione del pendolo, invece che rimanere su un piano unico.

Per la drammaturgia in esame la similitudine si potrebbe risolvere appunto nel paragone con lo scivolare verso superfici emotive, soprattutto femminili, più consuete e meno ricche, come se non fosse stato ancora trovato precisamente l’equatore, la registrazione precisa del meccanismo drammaturgico-scenico, che resta comunque potente e vivo, perfettibile ma già intenso.

*Disegno di Renzo Francabandera

Se l'arte all'anima preferisce le connessioni neurali

leta-dellinconscio-di-kandel-eric-k-L-gBAo6tNICOLA ARRIGONI | Esiste una risposta biologica alle bellezza e alla bruttezza nell’arte? Quali sono i meccanismi neurali che caratterizzano una mente creativa? Arte e scienza possono dialogare e contribuire alla conoscenza del modo con cui elaboriamo le rappresentazioni di realtà? Sono questi alcuni interrogativi cui tenta di rispondere L’Età dell’inconscio di Erik Kandel – pubblicato per i tipi di Raffaello Cortina Editore –, importante tomo che restituisce un mondo, il mondo della Vienna primo novecentesca dove nascono i presupposti delle neuroscienze, in un connubio unico fra scienza medica e suggestioni dell’arte e della creatività. L’Età dell’Inconscio. Arte, mente cervello dalla grande Vienna ai giorni nostri è una sorta di invito a ripercorrere le inquietudini del nostro essere al mondo e al tempo stesso disegna lo scenario storico in cui è destinata a compiersi «la sfida centrale della scienza del XXI secolo è capire la mente umana in termini biologici. La possibilità di vincere questa sfida si dischiuse alla fine del Novecento, quando la psicologia cognitiva, la scienza della mente, si fuse con la neuroscienza, la scienza del cervello. Il risultato fu una nuova scienza della mente che ci ha consentito di sollevare una serie di domande a proposito di noi stessi: come percepiamo, impariamo e ricordiamo? Qual è la natura dell’emozione, dell’empatia, del pensiero e della coscienza? Quali sono i limiti del libero arbitrio?», scrive l’autore.

A queste domande Erik Kandel risponde prendendo in esame la storia intellettuale di Vienna fra il 1890 e il 1918, quella felix Austria che pose le basi non sono dell’inquietudine dell’Uomo del Novecento, non solo fu terreno fertile delle avanguardie artistiche che avrebbero condizionato buona parte del secolo breve, ma fu anche culla della moderna scienza medica, culla della psichiatria, ma anche dell’attenzione alla mente come straordinario strumento di lettura, interpretazione della realtà. Nei salotti viennesi dell’epoca si discutevano idee che avrebbero segnato una svolta nella psicologia, nella neurobiologia, nella letteratura e nell’arte. «L’ambiente intellettuale e artistico della Vienna degli inizi del Novecento segnò un primo scambio tra le due prospettive e produsse un enorme nello sviluppo nel modo di pensare la mente umana». L’autore si concentra su tre artisti: Gustav Klimt, Oscar Kokoschka ed Egon Schiele. «Essi posero l’accento sul fatto che il compito dell’artista moderno non era comunicare bellezza, ma le nuove verità – si legge nella prefazione – inoltre, la Scuola di storia dell’arte, influenzata in parte dal lavoro sulla psiche di Sigmund Freud, cominciò a sviluppare una psicologia dell’arte su basi scientifiche inizialmente concentrata su chi guardava l’opera. Oggi, la nuova scienza della mente è maturata al punto di poter contribuire al dialogo, di nuovo incentrato sullo spettatore, tra arte e scienza, e rafforzarlo».

Erik Kandel prende in esame i modernisti viennesi e Klimt, Kokoschka e Schiele perché più di altri «cercarono di rappresentare nei loro dipinti e disegni le lotte interne, inconsce e istintive delle persone; tuttavia ciascun artista sviluppò un proprio modo di utilizzare le espressioni del volto e i gesti delle mani per comunicare ciò che aveva intuito. Nel farlo, ciascuno di loro diede all’arte moderna contributi concettuali e tecnici indipendenti». In 32 capitoli corredati di 222 immagini di quadri e sculture, grafici, tavole e rappresentazioni, L’Età dell’inconscio ripercorre le origini e gli sviluppi della scienza della mente, del cervello e della psicologia dinamica, per arrivare al cuore del problema, il significato e la rappresentazione. Indaga i meccanismi della percezione, dell’osservazione, dell’invenzione. Enuclea le leggi della decostruzione dell’immagine, dell’emozione, e della ricostruzione attraverso la creatività e l’espressione corporea. Viola con eleganza i sentimenti dello spettatore per entrare nel «teatro privato di un’altra mente». Kandel illustra il funzionamento biologico dell’osservazione e dei meccanismi di regolazione, e di come l’uomo abbia imparato a crearsi «un modello della mente degli altri», e abbia sviluppato empatia e da questa l’amore per la bellezza, e la creatività. Scritto con incredibile semplicità e con un linguaggio abbordabile ai più, L’Età dell’inconscio è un contributo interessante e imprescindibile non solo per chi si occupa di neuroscienza e di capire come il cervello elabora le rappresentazioni di realtà, elabora la nostra consapevolezza di essere nel e del mondo, ma rappresenta anche un contributo a quella complessità del sapere che non conosce barriere fra sapere scientifico e umanistico e pur nella consapevolezza di identità e finalità differenti «si possa iniziare a concentrare le prospettive della scienza della mente e degli studi umanistici su determiate questioni intellettuali comuni per portare avanti nei decenni il dialogo iniziato nella Vienna dei primi del Novecento quale tentativo di collegare arte, mente e cervello.