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Damiano Michieletto fra lirica e prosa, Italia ed estero

damiano michielettoNICOLA ARRIGONI | Ha trionfato a Salisburgo dove tornerà per dirigere Falstaff di Giuseppe Verdi, è impegnato a Copenaghen nella regia della trilogia pucciniana e a luglio sarà alla Scala con Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi. Damiano Michieletto è uno dei registi teatrali più corteggiati dal mondo della lirica e dai grandi teatri europei eppure rivendica la sua origine teatrale: «Sono impegnato sul fronte lirico, ma nasco come regista di prosa, mi sono formato alla Paolo Grassi e all’inizio della mia carriera ho fatto teatro ragazzi».

Non vuole prendere la buona abitudine del teatro di prosa?

«Se mi è possibile almeno una regia all’anno me la concedo, come è accaduto con Il ventaglio di Goldoni per lo stabile del veneto e il circuito Arteven».

E perché Il ventaglio?

«Perché è una commedia divertente, frizzante, giovane e simbolica».

Simbolica?

«Il protagonista è il ventaglio del titolo, è un oggetto simbolo che ho trasformato in personaggio. E’ l’unica commedia di Goldoni che ha per titolo un oggetto e non un personaggio o un luogo. Vorrà dire pure qualcosa?».

Da qui la sua idea di trasformare il ventaglio del titolo in personaggio?

«Sì, il ventaglio è nel mio allestimento un personaggio in carne ed ossa, che dà voce ai personaggi, all’amore e alla loro cognizione dell’amore. E’ a metà strada fra Eros e Puck del Sogno di una notte di mezza estate. Per dare voce a questo ‘personaggio’ ho usato i sonetti di Shakespeare. Come il ventaglio passa di mano in mano ai vari personaggi nella commedia di Goldoni, così nel mio Ventaglio il personaggio dà la parola ai vari innamorati porgendo loro il microfono, dando loro l’opportunità di raccontarsi, di svelarsi al di là del testo».

Non si rischia di perdere l’unità, il meccanismo del testo goldoniano?

«Questo lo devono dire gli spettatori. La storia raccontata da Goldoni c’è tutta».

Portata in un contesto di forte contemporaneità?

«E dopotutto Il ventaglio per ciò che racconta è una commedia senza tempo, che può essere ambientata nel XVIII secolo come ai giorni nostri».

La sua scelta è per i nostri giorni?

«Il teatro si svolge sempre e comunque nel presente. Ho messo in scena ragazzi di oggi, alle loro spalle c’è un foglio/lavagna in cui Cupido/Puck o il ventaglio scrive, spiega gli intrecci della commedia. Alla fine quel foglio in cui campeggia la parola Amore sarà tutto scritto, mentre i personaggi si presenteranno quasi nudi, come dire svelati nel loro spirito, ma anche resi inermi di fronte al potere d’amore che non guarda in faccia nessuno».

Il suo intervento non è stato solo registico, ma drammaturgico. Quanto influenza il suo modo di fare regia il fatto che per gran parte del tempo lavori nei paesi di lingua tedesca in cui il dramaturg è figura costante in ogni produzione?

«All’estero gli interventi sui testi, anche quelli consacrati dalla tradizione sono all’ordine del giorno. Ma non sempre sono apportatori di chiarezza, o meglio non sempre l’attualizzazione si giustifica».

C’è una prassi che rischia di divenire pretestuosa?

«Non è detto che ciò che accade all’estero sia migliore di quanto accade da noi. Certo c’è la voglia di leggere i linguaggi in una chiave che possa dire del nostro contemporaneo è più forte all’estero che da noi».

Ed è quello che lei ha fatto con Il ventaglio?

«Ho iniziato a fare teatro facendo spettacoli per ragazzi. Il mio obiettivo è fare spettacoli che possano essere fruibili per ragazzi di quindici anni, che attraverso l’uso della musica e dei microfoni, attraverso un approccio contemporaneo aiuti i più giovani a sentire proprio il linguaggio dello spettacolo dal vivo».

E questo vale anche per la lirica?

«Cambiano i tempi produttivi, cambia il linguaggio ma non il mio obiettivo: tenere una narrazione, una storia».

Ed è questo che le chiedono all’estero? Come si spiega il suo successo?

«Non lo considero un successo. La lirica è venuta quasi per caso. Mi hanno proposto un lavoro, è piaciuto e da cosa è nata cosa. Molto semplicemente, mi direi molto naturalmente».

Ma cosa piace delle sue regie?

«Diciamo che all’estero hanno molta considerazione del nostro modo di fare teatro, soprattutto nell’ambito della lirica. Siamo pur sempre il paese che ha dato i natali al melodramma. Credo che ciò che piece delle mie regie è che alla fin fine, per quanto l’allestimento sia lontano da quelli che noi consideriamo i canoni tradizionali, ciò che arriva è la storia, una vicenda che voglio lo spettatore possa vivere e godere dall’aprirsi del sipario agli applausi finali.  Il pubblico, quando si apre il sipario, deve entrare in quella storia, essere partecipe di ciò che accade».

Inutile dire che la lirica è tutto un altro mondo rispetto al teatro di prosa?

«Cambiano i meccanismi e i tempi di produzione. Hai maggiori paletti e soprattutto c’è una complessità che nel teatro drammatico non è sempre possibile incontrare. Si tratta di aspetti importanti ma di caratteristiche organizzative con cui ti scontri all’inizio ma che poi riesci a metabolizzare. Ciò che è importante e avere un’idea, una storia da raccontare, se hai in mente quello non c’è ostacolo, organizzazione, complessità che tengano».

C’è differenza fra il pubblico italiano e quello che trova in Austria o in Germania?

«Il pubblico è la relazione che il teatro, gli attori, il regista riescono a realizzare con la città in cui operano. Per questo in Italia non c’è un pubblico, o meglio ci sono appassionati di teatro, lirica e musica che per una loro predisposizione vengono a teatro. In Germania, come in Austria si lavora in teatri con compagnie stabili che sanno costruire un’estetica, un dialogo con la città. Da noi tutto ciò non esiste».

Insomma da noi è una sorta di miracolo che si vada in scena?

«Il miracolo da noi è il pubblico. Il sistema dello spettacolo dal vivo non fa nulla per il pubblico, se non blandirlo. Chi viene a teatro a vedere la lirica, uno spettacolo di prosa o ad ascoltare un concerto, viene forte dei suoi interessi, è una sua scelta autonoma, libera. Nessuno lo interroga, lo convoca. E’ come un ospite inatteso il pubblico nei teatri italiani».

Non è così all’estero?

«Direi di no. Il teatro è una parte centrale nella vita delle città, la stabilità della compagnia, la possibilità di progettare a lungo termine rendono tutto meno effimero. Non da ultimo i teatri – in Germania soprattutto – sono vere e proprie imprese che danno lavoro a centinaia di persone, sono un tassello non secondario dell’economia della città. Ma soprattutto l’attività teatrale è monto spesso in dialogo con la città, mentre in Italia ciò che fanno gli stabili o le fondazioni liriche coinvolge solo marginalmente la vita dei cittadini se non come proposta di svago».

E il pubblico in tutto ciò?

«Cambia, partecipa, sente il teatro e lo spettacolo non più come un lusso del tempo libero, ma come qualcosa che gli appartiene, sente che ciò che accade in scena lo riguarda da vicino, ha uno stretto legame col suo vivere quotidiano. Da noi non è così. Il pubblico si costruisce solo se il teatro riesce a intessere relazioni con la comunità in cui è inserito».

Le voci di dentro di Toni Servillo

servillo voci dentroRENZO FRANCABANDERA | Sono i fratelli Servillo a dare corpo e voce ai fratelli Saporito. Non una scelta casuale, forse, quella di Toni Servillo (regista e interprete nella parte di Alberto) nel volere a fianco proprio Peppe (per interpretare la parte del fratello Carlo) in questa rilettura di uno degli stracult nati dal genio eduardiano.

Entriamo sul palcoscenico: è una stanza bianca vuota, un contenitore neutro che potrebbe con facilità essere ambiente per un Ibsen. Questo ci comunicano gli ambienti di Lino Fiorito, esaltate, in questa strada verso una dimensione assoluta del territorio ideale, verso una sorta di decontestualizzazione dalla matrice territoriale, dalle luci di Cesare Accetta, capaci di diventare, nella seconda metà dello spettacolo quasi epifanie ectoplasmatiche, di restituire un turbamento pirandelliano (checché ne dica Servillo nell’intervista che vi riportiamo in calce) alla lettura del classico. Chi ricorda la regia di Francesco Rosi che ha girato alcuni anni fa e interpretata da Luca de Filippo, avrà ben presente il realismo di quella scena, la cucina da interno napoletano anni 30, con mestoli, padelle, tegami, verdura. Qui non c’è nulla. E ad esaltare questa scelta di privazione dell’elemento ambientale più scontato, rileviamo l’assenza di musica per tutte le due ore di spettacolo, eccezion fatta per alcuni inserti di voci di strada a inizio e fine di alcuni atti, curati da Daghi Rondanini: forse la più radicale delle scelte di regia.

In questo mondo straniante gli attori portano in scena una versione corretta, compatta, nel complesso ben interpretata. Se la lettura più facile e popolare viene sottratta attraverso la scelta di neutralizzare o eliminare questi elementi più scontati, la scelta non arriva in fondo per via di altri elementi più intellegibili, tradizionali e di didascalia. E’ il caso dei costumi lisi e da caseggiato piccolo borghese e proletario di Ortensia De Francesco, belli ma certamente non di rottura.

Questo è il filo conduttore di quello che osserviamo: la regia resta in una via mediana, garantendo allo spettatore una navigazione tranquilla, che gli lasci trovare i riferimenti cui è abituato rispetto al classico. Emblema di questa sorta di salvagente emotivo è l’interpretazione (non priva di ammiccamenti) di Peppe Servillo che nel primo tempo gioca proprio sul canovaccio della commedia partenopea, ricordando le movenze e le cadenze dei suoi più noti interpreti. Il resto è ovviamente centrato sull’interpretazione di Toni e su un gioco di squadra che non manca. La sfida, come sempre, è cercare non di forzare De Filippo, ma provare comunque a costruire qualche tentativo su questi testi, da sempre legati ad una tradizione familiare e di interpretazione consolidata dal medium televisivo. Su questo Toni Servillo rischia meno, ad esempio, di quanto non abbia fatto qualche mese fa Fausto Russo Alesi con la sua riduzione a monologo dell’altro stracult di De Filippo, Natale in casa Cupiello, ugualmente centrata sulla forza dell’attore.

Esigenza di circuitazione, di garantire al lavoro una sua navigazione ampia, a maggior ragione perché condotto con pulizia e senza azzardi? Forse, visto che si tratta di una coproduzione “istituzionale” fra Piccolo Teatro, Teatro di Roma, Teatri Uniti di Napoli, destinato a girare e a riempire le sale come è stato a Milano, dove ha registrato per un mese il tutto esaurito. In questo caso invocheremmo un po’ più di coraggio per portare fino in fondo quelle scelte che restano solo accenni, anche ove il fulcro sia quello della questione morale.

Ipotesi b: questa è la lettura più coraggiosa e coerente che il regista riteneva di avere nel suo mazzo di carte. In questo caso chiederemmo semplicemente spiegazione di quelle scene così audaci, di astrazione, se poi a queste non consegue un tentativo di espianto vero e proprio dal tradizionale per arrivare all’universale. Forse questo il gran peccato. C’erano le basi per un lavoro ancora più… Così, invece, è (solo) un buon lavoro, onesto. Lontano da rivoluzioni, di cui si sentono solo echi.

Un’intervista di Servillo rilasciata alla web tv del Piccolo Teatro
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=_RF45Hed-Gc]

“Pitecus”, lo scimmiesco affresco umano di Antonio Rezza

pitecusVINCENZO SARDELLI | Va a carte quarantotto chi osasse cercare una logica, un filo conduttore negli spettacoli di Antonio Rezza, virtuoso del non senso, anatema del criterio, beffa mordace delle aristoteliche unità di spazio, tempo, azione. Più che un uomo un mistero, che con la sua vocetta stramba rovescia sul pubblico battute a gogò.

L’antropomorfo spettacolo “Pitecus”, che abbiamo visto al Teatro Binario 7 di Monza, è una performance scanzonata e dissacrante.

Con la sua comicità più letale del polonio, con il suo idioma adulterato, lo stralunato artista novarese trapiantato a Nettuno lambisce tutti i caratteri dell’individualismo umano: le sue miserie e le sue viltà; i suoi decori e le sue ambizioni; i suoi (rari) momenti poetici; i suoi (tanti) tratti patetici.

Un po’ arte povera un po’ commedia dell’arte, un po’ improvvisazione un po’ clownesca narrazione da cantastorie di piazza, Rezza si presenta sulla scena come una specie di folle incrocio tra un Quasimodo (nel senso del gobbo di Notre-Dame) che l’ha scampata bella e il redivivo strabismo divergente di Martin Alan Fieldman, lo stravagante servo Igor di “Frankestein Junior”.

A dare consistenza ai suoi variegati personaggi la scenografia semplice di tende multicolori e tagli dove Rezza infila la testa, una mano, una gamba. Mimo e comicità si intersecano in questa bizzarra tecnica di quadri, inconfondibile marchio di fabbrica di Flavia Mastrella, artista e scultrice che cura gli allestimenti e le scenografie.

Nei quadri di “Pitecus” prevale il triangolo, simbolo sincretico da cui nascono teste spigolose capaci di ragionamenti ineccepibili, maschere assurde e oniriche, fumetti capaci di cattiverie sublimi. I colori usati a tinte piatte, gialli, verdi, azzurri, rossi, riportano al mondo dell’infanzia, alle costruzioni, ai giocattoli di legno, ma al contempo danno anima alle perversioni di questa singolare umanità: laureati, sfaticati, giovani e disperati alla ricerca di un’occasione che ne accresca le tasche e la fama; moralisti che speculano sulle disgrazie altrui; vecchi in cerca di un’identità che li aiuti ad ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzi loro; persone che tirano avanti una vita abitudinaria; individui che vendono il proprio corpo in cambio di un benessere materiale fittizio. Sono tante storie. È un mondo caotico dove si mescola un’umanità sgraziata, qualunquista, anonima, eppure sfacciatamente narcisista, dall’incedere nevrotico e dalla recitazione caricaturale.

Il pubblico ride delle proprie paure, dei propri errori, di un mondo misero e impudentemente banale.

Attore e scena sono in sinergia. Sul palcoscenico sale quasi materialmente il pubblico stesso. In questo mescolamento ingarbugliato non si capisce più chi ride di chi, se il pubblico dell’attore o l’attore dei malcapitati spettatori, coinvolti e bersagliati all’inverosimile da un’ironia tagliente che sfida ogni cinismo.

È un gioco paradossale in cui la scenografia gioca un ruolo essenziale. Non c’è storia, dunque: solo i tanti personaggi interpretati unicamente dal corpo di Rezza, dal suo volto plastico che irrompe sulla scena, riempie fessure, esprime malessere.

La luce illumina l’artista in un caleidoscopio di risate. L’armonia è rotta da questo saltimbanco festoso e fastoso, inesauribile, capace da oltre vent’anni di calcare la scena con lo stesso spettacolo. E di generare, ogni volta, nuove riflessioni e nuova ilarità.

Un assaggio dello spettacolo, mix di genio e cretineria:

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Se “Stoccolma” non è solo Stoccolma: la drammaturgia britannica per un amore (in)felice

stoccolmaLAURA NOVELLI | Un uomo e una donna. Buste della spesa in mano. Fermi su pedane circolari girano più volte su se stessi mentre il pubblico entra in sala. Sembrano manichini di un grande magazzino. Sorridono. Sono felici. Si guardano. Ci guardano. Musica alta. Inizia così “Stoccolma” (“Stockholm”), commedia amara di Bryony Lavery che Marco Calvani ha presentato al teatro Belli di Roma all’interno della rassegna “Trend. Nuove frontiere della scena britannica” e che ci auspichiamo venga presto ripreso sulle nostre scene. Uno spettacolo, va detto subito, intelligente, brioso, nuovo, capace di attivare una risposta fortemente empatica nel pubblico, anche grazie all’ottima prova interpretativa di Vincenzo Di Michele (noto volto televisivo e cinematografico che vedremo presto sul grande schermo nell’ultimo film di Marco Risi, “Cha cha cha”) e Ketty Di Porto (attrice poliedrica che, reduce dai consensi ottenuti ne “La dea dell’amore” di Woody Allen, ha ricoperto ruoli spesso tragici in testi per lo più contemporanei).
Il buon esito del lavoro è garantito innanzitutto dalla scrittura e dalla costruzione del testo. La drammaturga inglese, malgrado anagraficamente non più giovane (classe 1947), mette qui in campo una lingua teatrale modernissima e dalla linearità continuamente smentita che, declinata su più livelli espressivi, risulta al contempo concreta e astratta, realistica e funambolica, facile e complessa.
Scritta nel 2008 per il Frantic Assembly e andata in scena con successo in Inghilterra, Canada e Australia, l’opera scandaglia un menage apparentemente felice: Todd e Kali si accingono a festeggiare il compleanno di lui e intanto progettano con entusiasmo un imminente viaggio nella capitale svedese. L’ammirazione incontrastata per i prodotti Ikea è pari a quella riservata alla cinematografia di Ingmar Bergman, in una con-fusione di registri quotidiani e metaforici che rappresenta senza dubbio uno dei punti di forza della pièce. Perché, a ben vedere, la fotografia di questa coppia affiatata e dalla vita sessuale effervescente, a volerla “latensificare”, mostra un magma interiore di pulsioni irrazionali, dinamiche contorte, paure ancestrali destinate ad esplodere come un morbo subdolo e imperscrutabile.
Ed è proprio la maestria e la leggerezza con cui l’autrice (già nota in Italia per il suo inquietante “Frozen” ) maneggia queste continue esplosioni narrative, spostando la vicenda nel passato e poi nel futuro, e immaginando continui passaggi tra esterno e interno, dimensione agita e dimensione interiore, ciò che maggiormente colpisce. Il “rito” sensualmente cannibale del primo incontro, le continue divagazioni danzanti, gli insistenti approcci erotici della donna, i litigi furiosi e violenti, la prefigurazione atroce di un infanticidio degno di Medea sono solo alcuni degli scarti più incisivi della storia. Epifanie fugaci che raccontano, a ben vedere, una sindrome di Stoccolma (ed ecco il vero motivo del titolo) sotto cui fanno capolino le insoddisfazioni dolorose di tanti personaggi di Bergman (appunto) ma anche tanti elementi attinti all’universi femminile del “misogino” Strindberg. Kali sembra possedere, cioè, qualche caratteristica della Signorina Giulia o della Laura de Il Padre. Seducente, affascinante, gioiosa almeno quanto nevrotica, ossessionata, gelosa, spaventata, ella combina in sé fragilità e forza (molto brava l’interprete nei vari passaggi emotivi riservati al suo ruolo), contrapponendosi alla solida razionalità di Todd (anch’egli ottimamente disegnato da Di Michele).
Da questo impasto di anime così diverse e così complementari potrebbe scaturire un fior fiore di tragedia. E invece la Lavery (ex-attrice arrivata alla drammaturgia in età matura e attiva da anni anche come sceneggiatrice televisiva e autrice di opere teatrali per i ragazzi) cavalca la scia del grottesco, dell’umorismo acre, quasi alla Pirandello. Ci regala una smorfia sghemba e dispettosa sull’amore, che rende il tutto appetibile, nostro, vicino. E che permette al bravo regista di costruire un’insieme molto fluido, ritmato, a tratti sorprendente. Sicuramente anche la professionalità acquisita da Calvani all’estero (sia come autore sia come regista, tra i suoi titoli ricordiamo almeno “Penelope in Groznyj”, “Unghie” e “Roba di questo mondo”), lo aiuta a entrare in modo originale nella macchina drammaturgica, per trarne una lettura scenica perfettamente sintonica con il testo: uno spazio/tempo odierno, ricco di musica e di luci studiate ad hoc, dove avviene tutto e il contrario di tutto: E dove la logica, proprio come nella vita, mostra – evviva ! – le sue crepe.

SlutWalk: La marcia delle puttane – il Videoreport

slutwalkMARIO DI CALO | Liber* di indossare qualsiasi indumento, liber* di essere se stess*, liber* di manifestare, liber* di essere liber*: liber*! La SlutWalk/Marcia delle Puttane nasce nel 2011, a Toronto, come esigenza di esprimere la propria libertà da parte della popolazione – soprattutto femminile – dopo le affermazioni dell’agente italo americano Michael Sanguinetti, che ebbe a dire, circa la violenza subita da alcune prostitute, che era dovuta e meritata visto il loro comportamento e il loro abbigliamento provocatorio e libertino.
Da allora in poi ogni qualvolta che se ne sente l’esigenza, si scende in piazza, in modo pacifico e dialogico, per esprimere il proprio diritto ad essere ciò che si è. Sabato 6 Aprile 2013 al Teatro Valle Occupato di Roma, all’interno del festival ‘Da Mieli a Queer’ (Culture e Pratiche LGBT in movimento) organizzato con il contributo del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, Queer Lab, Rainbow Line e allo stesso Valle Occupato c’è stato un momento di riflessione sulla SlutWalk e sul suo significato: dapprima un laboratorio sul travestimento e il gioco, con dibattiti e confronti, ed infine tutta la popolazione l.g.b.t. è uscita per le strade a manifestare e a sensibilizzare la popolazione romana.
Andrea Maccarrone, presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, è intervenuto per PAC sul significato e i risultati del Festival, sulla SlutWalk, e di quanto sia ancora necessario parlare di Mario Mieli, personaggio scomodo degli anni 70, e di come si sia arrivati ad una cultura queer.

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I Giorni Felici di Lorenzo Loris

giorni feliciRENZO FRANCABANDERA | Winnie è la vicina pettegola, un po’ rompi, di quelle che mettono in croce il marito. Una che parla inarrestabile e inarrestata per un’ora di qualsiasi cosa, dal tempo alla borsa della spesa. Nella sua disponibilità prêt-à-porter, tiene con la stessa nonchalance la spazzola e la pistola. Suo marito è di fatto rintanato in un buco, ormai succube afono della strabordante compagna, che lo domina, addomesticandolo ad ogni suo volere: “Torna nel buco!”, gli urla perfino. E lui obbediente.
Pur nella sua infissa immobilità, la donna risulta paradigma di quella paradossale infelicità domestica di cui è facile trovare testimonianza negli sguardi da ristorante su quelle coppie in cui lei prova a rompere il silenzio mentre lui lancia silenziosi sguardi agli altri tavoli o fuori dalla finestra. Peggio ancora quando nessuno dei due parla. E mangiano. I falsi incontri, il criminale stare assieme, tempi e giorni infelici.

E’ subito chiaro quindi il paradosso di intitolare Giorni felici un monologo dal tratto quasi isterico, in cui Samuel Beckett racconta forse di due solitudini. In questo allestimento per il teatro Out Off di Milano, Lorenzo Loris in realtà si sforza, come ci conferma poi nella video intervista che vi proponiamo, di pensare che un dialogo, ancorchè unidirezionale, fra i due protagonisti, interpretati da Elena Callegari e Matteo Pennese, in realtà esista. Perché in fondo, sempre quelle coppie silenziose e consumate da ristorante di cui parlavamo, trovano in quel silenzio o in quell’ascolto pur non corrisposto, una funzione necessaria, di tenace resistenza alla solitudine.

Winnie è conficcata, come da copione, nella terra, qui un disco di enormi dimensioni (la scena è di Daniela Gradinazzi) su cui si rifrangono nuances luminose surreali affidate a Luca Sioli, e che soprattutto nella seconda parte assumono un’intonazione satura veramente spaesante e ipnotica. Poco ipnotiche, rudimentali e onestamente mal riuscite le proiezioni digitali che portano sul disco ora qualche fiore, ora fiocchi di neve da screensaver anni 80. Questo elemento scenico risulta di fatto superfluo e siamo sicuri gli spettatori futuri sapranno farsi ragione di una loro possibile eliminazione o utile ripensamento.

Dal punto di vista interpretativo lo spettacolo è affidato alle robuste spalle di Elena Callegari, alla sua capacità mimica, ai suoi sguardi di cui è possibile trovare testimonianza nella video intervista che completa questa riflessione e che trovate in fondo a questo pezzo. E’ lei, di fatto, a sostenere il peso di Giorni Felici, e in onestà ci sembra un peso calibrato che Loris ha come sempre con misura ponderato, riuscendo a condurre lo spettatore fino in fondo senza farsi scoraggiare e senza scoraggiarlo. Dandogli sempre l’impressione che potrebbe tacere da un momento all’altro, e invece ogni volta riprendendo senza pietà. Proprio come quelle vicine di pianerottolo venute a prendere un caffè cinque minuti e che non vanno più via, quelle signore a ristorante, quelle occasionali avventrici di un negozio da cui non escono più.
Quanto è dura la lotta alla solitudine che l’uomo deve combattere con se stesso.

Vi lasciamo alla video intervista a Lorenzo Loris.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=a1Ae6zHHZUY&w=420&h=315]

Paolo Bacilieri e una chiacchierata tra arte e fumetto

PaoloBacilieriALESSANDRO GUALANDRIS | Il mondo del fumetto italiano regala spesso autori capaci di dare vita a una mondo personale ed artisticamente alto. La Graphic Novel, termine ormai abusato, riguadagna la sua autorialità attraverso un lavoro di crescita mai interrotta.

Abbiamo avuto la fortuna d’incontrare uno di questi, Paolo Bacilieri, in occasione della serata Sound and Vision, tenutasi al Bloom di Mezzago, storico locale della Lombardia, sempre attento alle nuove creatività e alle sperimentazioni. L’evento univa la musica dei Dorian Gray, famoso gruppo sardo degli anni 90, all’arte visiva del fumettista Bacilieri.

Siamo riusciti, prima dello spettacolo, ad avere una chiacchierata con l’autore, durante la quale si è discorso piacevolmente di arte, musica e fumetto.

Paolo, nel corso della tua carriera artistica ti sei spesso cimentato con diverse forme d’arte, come si arriva ad un matrimonio tra illustrazione e musica?

bacilieriIn verità non è la prima volta che mi capita. Già al MIAMI due anni fa, al Forum di Assago avevo approcciato con un evento simile. In verità per un fumettista, che fa un lavoro molto solitario e spesso chiuso nelle quattro mura di casa sua o del suo studio è come una libera uscita. Non una fuga, perché altrimenti non sarei soddisfatto di ciò che faccio, ma di un’evasione in un mondo che spesso offre stimoli diversi, come quello della musica. A volte è difficile, soprattutto per una persona timida come me, doversi ingegnare in tempo reale su cosa proporre e rischi di avere un blocco da prestazione. Una sorta di Parkinson alle mani. Ma poi ti liberi e disegni seguendo la musica.

Ritornando alla tua formazione artistica, sei un autore dallo stile molto variegato, capace di incorporare diversi influssi ma rimanendo molto personale e autorale: che percorso hai fatto?

Nel 1982, durante la prima edizione di Lucca Comics (Lucca Comics è una tra le convention di fumetti più importante d’Europa, nda) Karel Thole, copertinista storico di Urania, mi disse “L’importante è che tu difenda il tuo metro quadrato”. Non ho mai seguito il suo consiglio. Da nomade del fumetto ho sempre viaggiato attraverso gli stili e credo che questa cosa mi abbia aiutato ad avere un metodo eterogeneo.

Infatti, agganciandomi al tuo pensiero, le tue tavole spesso necessitano di un’attenzione particolare, non basta sfogliarle, ci si deve soffermare, donando il giusto tempo al lettore per apprezzare il lavoro dell’artista.bacilieri3

Il mio lavoro mi permette d’affrontare diverse tipologie di tavole. Lavorare con la Bonelli mi ha permesso di realizzare tavole dove l’importante è la sintesi, senza creare troppe distrazioni visive che spostino l’attenzione dalla narrazione. Invece con i miei lavori più personali, per esempio con Zeno Porno, ho potuto cimentarmi con un tipo di fumetto più lento, che offra diverse soluzioni grafiche molto più stratificate. La tavola non si ferma al primo impatto ma necessita di un’attenzione più profonda.

Paolo, come sta il fumetto italiano?

C’è una lenta discesa, ma anche una sostanziale trasformazione. Bisogna distinguere i vari campi. Con il passaggio sempre più diretto tra la carta e il digitale, molte case devono adattarsi al nuovo che avanza e spesso per un artista non è facile vedere il proprio lavoro abitualmente stampato trasformato in un formato diverso da quello conosciuto, anche se tuttavia diventa affascinante potersi cimentare anche con quello. Inoltre molti lavori dall’edicola abituale in cui si potevano acquistare, adesso arrivano in libreria o nelle fumetterie specializzate, dando una dimensione diversa dal formato canonico. Abbiamo una forte tradizione classicista che ci permette di far emergere tanti bravissimi nuovi autori. Per citarne uno vi segnalo Piero Macola, che lavora tanto all’estero e che merita un occhio di riguardo.

bacilieri2Libreria, quindi il libro a fumetti. Cosa offre all’autore questa dimensione, rispetto alle serie regolari?

Il libro a fumetti è una dimensione fantastica. Permette di poter produrre opere diverse, personali ma mantiene la visibilità necessaria per l’opera d’arte che racchiude. E’ sicuramente un mondo che può sembrare di nicchia ma che invece ci da la possibilità di esprimerci con più libertà e passione, mantenendo una diffusione notevole. Certi lavori poi diventano una vera e propria fatica. Per esempio sono molto felice di aver portato a compimento Sweet Salgari, che ho completato nell’arco di 4/5 anni ma che ha alle spalle un progetto di quasi dieci. Ovviamente figlio di una ricerca non indifferente riguardando un autore vasto come Emilio Salgari.

Progetti per il futuro prossimo?

Sto completando uno speciale di Dampyr per la Bonelli, che vedrà la luce in autunno e sto pensando ad un libro a fumetti che raccolga molte delle mie storie brevi, avendo come fil rouge la storia del cruciverba. Spero di poterlo portare a Lucca a novembre, ma sarà molto difficile.

Salutiamo qui Paolo Bacilieri. Vi consigliamo di recuperare i suoi libri, soprattutto il bellissimo Sweet Salgari. Le foto che vedete allegate all’articolo sono tratte dalla serata al Bloom.

Ultima cena europea: l'Hotel Belvedere di Magelli

hotelbelvedereMagelliASSUNTA PETROSILLO | In un ambiente scarno, polveroso, grigio, buio – come l’Europa sul finire della prima guerra mondiale – si rincorrono anime disperate, angosciate, inquiete.
All’interno dell’Hotel Belvedere, situato nella provincia prealpina bavarese, si nascondono e si muovono sette personaggi gretti, falliti, depressi. Del Belvedere rimane davvero poco o nulla, è un ‘Malvedere’, frutto di una società alla deriva.
Sul fondo della sala s’intravedono sedie ammassate, dallo schienale a forma di violini, privi di corde, snaturati dalla propria primaria funzione. Sono silenti, come tutto intorno a loro. Sulla sinistra poche poltrone logore, sulle quali di volta in volta si alternano le smanie di potere di uomini e donne alienate. Storie che condurranno all’orrore nazista e come afferma Magelli «alla malattia del paleofascismo che ci ha reso portatori di un virus letale che è entrato nel DNA dei nostri popoli».
Hotel Belvedere scritto nel 1922 è il quinto testo teatrale di Ödön von Horváth tradotto in italiano, dei diciotto scritti dal geniale autore morto prematuramente, ma già insignito ancora in vita del più prestigioso riconoscimento – il Premio Kleist − in ambito teatrale. Horváth analizza la figura del borghese medio, e la malvagità strisciante che si nascondeva dietro gli splendori dell’ultima stagione asburgica e le macerie della prima guerra mondiale.
La traduzione in italiano di Paolo Magelli che cura l’allestimento in scena al Teatro Metastasio di Prato, restituisce l’analisi microscopica del mondo di Horváth, nel quale tutto è talmente tragico, da divenire tragicomico. Un testo noir nel quale si attacca con ferocia una Mitteleuropa capace di nascondere dietro la sua grandezza, un mondo volgare, malato, interessato solo al denaro. Un primo allestimento in lingua serba fu portato in scena trentasei anni fa al Premio Roma di Gerardo Guerrieri proprio da Magelli che lo ripropone per la grande attualità dei temi trattati. L’Europa degli anni venti fa da contraltare all’Italietta odierna.
Il vero fulcro della storia prende avvio quando entra in scena Christine (Elisa Cecilia Langone) che da povera orfana squattrinata, prima violentata e sbeffeggiata a turno dagli uomini lì presenti, diviene la donna da venerare per la sua fortunata eredità ricevuta da una vecchia zia. È proprio nella scena della violenza di gruppo, molto cruda e vera, che la giovane attrice dà prova della sua bravura interpretativa.
Altri due i momenti topici della rappresentazione: la distruzione dell’Europa e l’incontro-scontro tra Ada (Valentina Banci) e Christine.
Assistiamo ad un’ultima cena ‘europea’ dove i commensali a turno divorano una cartina geografica dell’Europa, ingozzando e sputando i resti di una società in totale disfacimento che trasforma l’apatia e la rassegnazione in depressione collettiva. Un momento ben enfatizzato dalle musiche di Alexander Balanescu. Le due donne che rappresentano l’una l’alter ego dell’altra, s’incontrano una sola volta, da sole in scena, e in quell’incontro-scontro in un’altalena di luci, escono allo scoperto tutte le loro fragilità mai risolte.
Tra gli attori, Marcello Bartoli (Müller) affianca sulla scena Francesco Borchi (Max), Daniel Dwerryhouse (Karl), Mauro Malinverno (Barone von Stetten), Fabio Mascagni (Strasser).
Molte le invettive lanciate sulla questione politica odierna e sull’importanza del lavoro dell’attore, sulla condizione femminile e sulla realtà politica in cui siamo invischiati. Quasi a voler sottolineare − come afferma uno di loro − che la verità è sempre volgare. Una storia cruenta che poteva chiudersi già al primo atto, senza dilatare troppo i tempi, che lascia allo spettatore un senso di inquietudine e amarezza.

Qui una videointervista a Magelli sullo spettacolo, realizzata da ChiediscenainToscana
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GirogiroMondo #1 – Il New Orleans Jazz festival da casa vostra

new-orleans-jazz-heritage-festival-logoSARA TRECATE | Non si può dire che non si sappiano divertire a New Orleans: in primavera si susseguono Festival di ogni genere, e la scoppiettante festa del Mardi Gras, nel periodo di Carnevale, è ogni anno un appuntamento attesissimo (state pronti a strizzare l’occhio o mandare un bacio ai figuranti sui carri per farvi regalare collane di perline colorate!).
Come testimoniano film (La città del jazz, 1947) e canzoni (King creole, Johnny B. Goode…), New Orleans è il paradiso dei musicisti. Là, sulle rive del Mississippi, convivono tradizioni europee, caraibiche, africane, ed è la musica ad unire le varie anime della città.
Il New Orleans Jazz & Heritage Festival scalda gli animi in Louisiana dal 1970. L’edizione 2013, che si svolgerà nei fine settimana 26-28 aprile e 2-5 maggio, promette giorni intensi di musica, cibo, artigianato: una vera celebrazione del variegato patrimonio culturale della zona. Per cominciare, vi consiglio la lettura di questa guida pratica per i visitatori del Festival.

Ormai fervono i preparativi, il programma già disponibile online è fittissimo, e i commenti sui social network si fanno sempre più nervosi per il sovrapporsi di concerti importanti tra cui si è obbligati a scegliere.
La culla del jazz offrirà anche performance di musica gospel, R&B, rock&roll, zydeco (musica tradizionale della popolazione creola). La line-up di quest’anno prevede: Fleetwood Mac, Billy Joel, Dave Matthews Band, Maroon 5, The Black Keys, John Mayer, Daryl Hall and John Oates, B.B. King, Frank Ocean, Earth Wind & Fire, Willie Nelson, George Benson, The Gipsy Kings, Jeffrey Osborne, Patti Smith, Ben Harper and Charlie Musselwhite e altri…

Ma c’è una sorpresa per noi viaggiatori immobili: un buon numero di concerti si potranno ascoltare in streaming su Tune In, promotore dell’esclusiva JazzFest radio, che dal 3 al 5 maggio proporrà interviste agli artisti e concerti live in versione integrale direttamente da New Orleans (il programma completo sarà disponibile sul blog di TuneIn a ridosso dell’inizio della manifestazione). Nell’attesa potete ascoltare, sempre sulla web radio, pezzi interpretati dai partecipanti alla prossima edizione, oppure acquistare sul sito ufficiale registrazioni di concerti live delle edizioni passate (dal 2004 in poi).

Così un po’ di jazz partirà dagli USA, attraverserà la dorsale oceanica fino a raggiungere e far vibrare le nostre cuffiette auricolari. Niente da fare, invece, per cibo, odori e sapori: potremo soltanto immaginare assaggi di jambalaya, panini po’ boy con carne di maiale o gamberetti fritti, ricette cajun a base di anatra…
Se siete a Milano, potreste rimediare ordinando take away dal Louisiana Cajun Bistrot o da Dixieland (entrambi in zona Brera) e gustare cucina creola mentre ascoltate lo streaming. Et voilà, il Jazz Festival prenderà vita nel vostro salotto.

E a notte fonda, una volta spenta la musica, sarebbe bello avventurarsi alla scoperta del lato oscuro di New Orleans, la città più stregata d’America! Bar, ristoranti, hotel, cimiteri, strade…ogni angolo pare sia popolato da fantasmi, tra cui gli spiriti delle grandi regine Voodoo che hanno abitato in questi luoghi, facendo proprio il sistema magico che arrivò in America grazie agli schiavi dei coloni francesi (c’è anche un museo in città: www.voodoomuseum.com). A tutte le ore del giorno agenzie locali organizzano tour a tema, per far scorrere un brivido lungo la schiena ai turisti. Se non vi manca il coraggio, prendete nota dei 10 posti più infestati di New Orleans, da visitare nel vostro prossimo viaggio.

Official Jazz Fest 2013 Talent Announcement Video

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I cambi dell’armadio ed il Conte Mascetti. Eppur bisogna andar

valeria_mariniALICE CANNONE | “Meglio cambiare, no?!”. È certamente così che Paris Hilton, filosofa liberale massima esponente del decadentismo post moderno, avrebbe commentato lo status quo della situazione geopolitica italiana.

E il cambiamento si anelava e si temeva, esattamente come si anela e si teme il cambio dell’armadio primaverile, che sotto sotto fa paura, ma non bisogna ammetterlo troppo ad alta voce, ché poi tutte le fatiche vengono sempre premiate da un piacevole tepore e dall’esibirsi finalmente scosciate senza calze troppo velate. Esattamente come si teme la ceretta brasiliana, ma poi vuoi mettere? Roba per molte ma non per tutte, ché la paura si sa gioca brutti scherzi. E l’unica per fronteggiare l’arma di distruzione di massa della ceretta è un mix letale di antidolorifici ed alcoolici, dichiarato illegale dalle ultime risoluzioni dell’ONU, ma che la tradizione orale di matriarche impavide ha saputo tramandarsi.
E di cambio dell’armadio ad un certo punto se ne stava cominciando a parlare, a dispetto di meteorologi troppo restii al cambiamento. E quei loden e quei paltò stavano davvero per finire, in parte, nel posto che stagionalmente dovrebbero occupare, ben cosparsi di naftalina. E noi impavide, e provvidenzialmente narcotizzate, stavamo già sgambettando verso una liberatoria ceretta, a conquistare la rossa primavera.
Ed invece no. I loden restano lì, e la peluria di troppo pure, ben piazzata su certi opulenti stomaci. E quel che resta è solo un certo sentore di democrazia, non esattamente rappresentativa. Ché lì, in quegli scranni più alti dove l’alternarsi delle stagioni è scandito solo dall’alternarsi del peso di giacche firmate indossate, la volontà popolare aveva, embrionalmente e timidamente cominciato ad esprimersi. Ché la gente ci ha sperato, e ci ha sperato davvero, che a fare il rimbottino di fine anno ci fosse Rocco Siffredi. O che fra i due corazzieri si piazzasse salvificamente Raffaello Mascetti a farci una bella super cazzola. E se proprio proprio gli oneri ed onori della carica, che almeno fosse Veronica Lario a parlarci di quanto è difficile fare la madre in tempo di crisi, che mensilmente aspetta gli alimenti del marito. O quanto meno la Marini, che di ingombrante si porta dietro solo il cognome, a concedere la grazia cavalcando una mortadella.
Ed invece no. Però possiamo risparmiare sulle foto da appendere ai muri delle scuole e delle caserme. Mica poco, eh. E così il cambio dell’armadio quest’anno e saltato. E la ceretta pure. Eppur bisogna andar.

A futura ed imperitura memoria:

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