MATTEO BRIGHENTI | «Io sono un piccolo ingranaggio nella lotta al Coronavirus, piccolissimo, un granello di sabbia. Ho un contratto da animatore e continuo a stare accanto agli anziani in RSA, che sono più isolati del solito. Li aiuto a telefonare ai parenti, cantiamo insieme, guardiamo film». Il conforto di una presenza amica è un bene di prima necessità, tanto quanto fare la spesa o andare in farmacia. Per il quinto anno consecutivo, il 28 novembre scorso Alessio Martinoli era entrato nella residenza sanitaria assistenziale “Il Giglio” di Firenze per un laboratorio teatrale con gli ospiti della struttura e un gruppo di under 25: è il progetto RSSA-Residenze Socio Shakespeariane Assistite, guidato con Francesco Ferrieri, Francesco Dendi, e inaugurato con Amleto 2016. Adesso Martinoli, classe 1983, è impegnato in un fronte inimmaginabile per un attore e regista: «I ragazzi non possono entrare – dice a Pac – non possiamo portare avanti lo spettacolo di quest’anno, La Tempesta 2020. Al contrario di altre parti in Italia e anche in Toscana, qui gli anziani stanno bene, venerdì 10 aprile sono risultati tutti negativi alla Covid-19, ma vogliono vivere ancora, come tutti. Hanno paura – continua –, al pari degli operatori, che svolgono un’attività più vicina a ogni ospite. Sono ammirevoli: sentono il momento della missione, che riguarda ciascuno di noi».
RSSA-Residenze Socio Shakespeariane Assistite ha vinto il premio Il Quattrino 2019, un riconoscimento all’impegno civico, che si è aggiunto alla pergamena consegnata al Premio Villa Vogel e al Premio Agespi, entrambi ottenuti nel 2018.

Lo ripetono tutti, è il mantra di questi giorni: viviamo in un tempo sospeso. Che cosa significa per te?

Sto leggendo i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. C’è un passo che dice: «L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnati». Questo è un tempo in cui si vive lo stesso.

Vale anche per gli anziani?

Quando diventi vecchio o hai problemi di salute sei già messo ai margini, non sei considerato, non vivi quasi più nella società. Il nostro mondo è inquadrato per persone giovani, che stanno bene. Il teatro in RSA serve per far fare agli anziani un salto che consenta loro di superare anche solo per un’ora il confine di costante isolamento in cui vivono – e da cui oggi dovremmo imparare. Il nostro progetto RSSA-Residenze Socio Shakespeariane Assistite è uno slancio ideale, che vede nell’evento culturale qualcosa in cui tutti si possano identificare. Qualcosa, auspichiamo, che crei una discussione che faccia avanzare il pensiero e fondi una società migliore per tutti. Lo ammetto: sono un utopista.

La sfida è portare vita nel luogo della rimozione collettiva della morte?

Dentro la RSA si vive ogni giorno la lotta tra la vita e la morte. Ogni influenza è un problema, non solo ora che c’è il Coronavirus. Se uno vuole capire che cosa sta facendo di nocivo la società – l’inquinamento, ad esempio – deve venire in posti come questo e vederne gli effetti sugli anziani. La fine del nostro laboratorio è stata anticipata da un funerale il 13 febbraio scorso. L’ultima prova è stata la presenza di tutti i ragazzi all’addio a uno degli attori di Sogno di una notte di mezza estate 2019. Tutti i ragazzi hanno manifestato la loro presenza alla funzione, poi abbiamo provato com’era nei desideri di questo signore che, se avesse potuto, avrebbe sicuramente voluto stare con noi. Qui abbiamo tutto davanti: quando parli di morte, la morte c’è, ma anche quando parli di vita, la vita c’è. La vitalità espressa dagli ospiti della RSA ci stupisce ogni volta. Non so se, nella loro stessa condizione, noi saremmo altrettanto bravi. Lo spettacolo, allora, ha una funzione che va oltre lo spettacolo stesso. Lo vedono pure gli spettatori, per questo ci perdonano qualche errore sintattico. Partecipano a una specie di magma che avanza, qualcosa che si ha difficoltà a definire, ma che ti travolge emotivamente.

Cosa significa, per te, entrare lì dentro adesso?

È cambiato molto, effettivamente. Ci lavorano un centinaio di persone, che badano a una sessantina di anziani, quindi si hanno confronti con tante persone e non è facile farsi capire a un metro di distanza. Siamo tutti bardati con le mascherine e le altre protezioni necessarie: è nostra responsabilità stare attenti, per gli altri e per noi stessi. Insomma, siamo sul filo del rasoio. Io lo accetto, sono un po’ spaventato, ma sono molto deciso, comunque, a provare a far divertire gli anziani, a far passare loro il tempo, a farli palare con i propri parenti. C’è una larga parte di persone che vede il teatro alla stregua di un’alternativa come un’altra: dentro la RSA, una frase, una poesia assume il valore di esserci, di esistere ancora nella società. C’è grande disponibilità, più che fuori, a cercare di gettare lo sguardo in avanti, perché si ha voglia di ascoltare il nuovo, di sentire qualcosa che ti faccia ancora ragionare.

Qual è l’attività che ottiene più “successo”?

Per le canzoni, c’è una grande sfida tra la tradizione, Firenze sogna di Claudio Villa, e Che sarà dei Ricchi e Poveri. «Che sarà, che sarà, che sarà, che sarà della mia vita chi lo sa», però sempre cantata in modo positivo, a squarcia gola, perché una voce sola con le altre crea un coro: ci fa stare insieme, ci fa sentire parte di un’emozione. Leggevo che agli spettatori batte il cuore in un certo modo durante lo spettacolo, è come un unico battito. Così è nella canzone, ci sentiamo veramente vicini cantando quelle parole. Quanto ai film, abbiamo visto Il monello di Charlie Chaplin, poi il suo Monsieur Verdoux, con il protagonista che seduce ricche vedove, le uccide e ne incassa l’eredità: in RSA ci sono quasi tutte vedove, o single…

Dove trovi la forza per affrontare questa situazione?

Mio nonno suonava la chitarra nella casa di riposo di Montedomini, a Firenze (storica struttura della città, ha 34 posti letto per le cure intermedie degli anziani delle RSA positivi alla Covid-19, ndr). Lo chiamavano “Il Presidente”, animava gli altri ospiti, pur avendo più di 70 anni. Il teatro per me è stare vicino alle persone: mi pare che la mia attività di questi giorni sia la cosa che si avvicina di più al teatro. In questo periodo mi sento molto messo in discussione, penso che tutti lo siamo: siamo sollecitati a cercare davvero quello che vogliamo.

Quando ritorni a casa che cosa ti porti dietro?

Innanzitutto la stanchezza, l’impegno emotivo è di un certo livello, ma non so ancora dirti quanto mi influenzi tutta questa situazione. Sento una responsabilità maggiore verso gli altri, anche se ho sempre avvertito l’importanza di fare le cose per il prossimo. Forse, ora mi occupo un po’ più di me stesso. A volte cerco nelle vite di chi ci ha preceduto, ad esempio nella vita di Vittorio Alfieri, qualcosa che mi possa spiegare cosa mi succederà.

I promessi sposi. Foto Mario Lanini

I tuoi ultimi impegni teatrali sono rivolti ai due estremi della vita: i bambini, insieme anche alla compagnia KanterStrasse, e appunto gli anziani. Che cos’hanno di diverso dagli altri?

Per gli adulti non c’è la grande emozione, il grande pianto o il grande riso, tutto sta nel mezzo, nel centro, a metà: non bisogna esagerare troppo. I bambini e gli anziani ti fanno vedere quello che stanno vivendo, i loro problemi reali, e se c’è un pubblico che ti dà tutto si crea veramente qualcosa di straordinario. Il teatro insieme a loro sembra avere più senso. Non mi piace, non mi soddisfa fare spettacoli per grandi palcoscenici: devo sempre guardare in faccia chi mi sta guardando. Quello che ho da dare è più dentro le piccole cose. Tanti anni fa al Festival Zoom al Teatro Studio di Scandicci, il regista Virginio Liberti mi disse: “Tu sei un bravo attore, ma si vede che quando parli della morte non la conosci”. Forse, è da allora che ho deciso di andare a fare teatro in RSA.

Ora puoi dire di conoscerla?

Di sicuro ho più chiare certe dinamiche, ma non so se sono arrivato a quello che intendeva Liberti. Se possibile, io ho un rapporto particolare con la vita e la morte. Mia figlia è nata lo stesso giorno in cui è morto mio zio, più o meno alla stesso ora. Da lì ho compreso che i due estremi li ho in mano. Abbiamo una drammaturgia dentro: sta a noi farla vibrare.

Da questo tempo cosa stai imparando?

Questa quarantena sembra quasi un racconto di Dino Buzzati. Lo conosco e amo da sempre, al suo Deserto dei Tartari ho dedicato il mio Esperimento Deserto. Buzzati si chiederebbe: se non finisce? Se è questa la nostra condizione? Comunque, la storia, la natura, qualcosa ci stanno comunicando. Al di là di quello che può essere stato scritto, solo noi stiamo vivendo questo momento. Ci sono state tante epidemie, però l’oggi lo stiamo vivendo solo noi. Bisogna averci tutto in mano per riuscire a capire qualcosa: ora, secondo me, non è tanto il momento per discutere di ciò che sta succedendo. Lo capiremo tra un po’ e ci sta pure che non si capisca nulla.

Una delle ultime prove de La Tempesta 2020. Foto residenzeshakespeariane.com

Speriamo di poter dire di averlo vissuto davvero e non, semplicemente, che ci è capitato.

Se si sta in ascolto, con i bravi attori, drammaturghi, registi che abbiamo, possiamo fare delle cose bellissime. Se uno guarda dentro di sé e raccoglie, sarà un buon futuro, anche sui palcoscenici, perché non si farà più nulla tanto per fare, verrà capito da tutti che le cose vanno fatte quando sono realmente importanti.

Ne sei proprio sicuro?

Ci sono cose di noi stessi che ci accomunano: ora abbiamo addirittura una condizione fisica che ci unisce agli altri. Più vicini di così penso che non siamo mai stati, nonostante tutto. Il teatro ci servirà ancora a capire i rapporti tra le persone, anche perché è l’unica vera arte dell’incontro. Visto che abbiamo perso tutti il nostro baricentro, ci aiuterà volerci affacciare in una qualsiasi sala per riconoscerci gli uni negli altri.