fbpx
sabato, Aprile 27, 2024
Home Blog Page 337

Impronte Digitali VIDEOREPORT: verso una nuova scena aumentata?

VALENTINA SORTE e FRANCESCA CURTO| Cos’è la scena aumentata, o meglio, il teatro aumentato? In quale direzione si stanno muovendo le performance digitali? In che modo le nuove tecnologie cambiano il modo di raccontare, e quali effetti hanno per la percezione dello spettatore?Banner_Impronte_Digitali_x_Sito

Queste sono alcune delle domande affrontate durante la prima edizione di IMPRONTE DIGITALI, il festival di teatro e nuove tecnologie organizzato da ILINXARIUM e la Fondazione Teatro Trivulzio. La manifestazione è stata realizzata grazie al contributo di diversi soggettiInnovaCultura, Regione Lombardia, Camere di Commercio Lombarde, Fondazione Cariplo – e si inserisce nel progetto “Augmented stage”, volto alla creazione di un network finalizzato alla promozione del teatro digitale.

Per due settimane, dal 14 al 27 settembre, il Teatro Trivulzio di Melzo e la residenza artistica Ilinx hanno proposto un ricco programma di laboratori multimediali, conferenze, aperitivi digitali e spettacoli (NERD Cabaret e Ho un punto fra le mani) per diffondere ed esplorare, insieme al pubblico e agli addetti ai lavori, le arti digitali e le nuove tecnologie applicate al teatro.

La scena contemporanea è infatti sempre più permeata da sperimentazioni digitali – dal videomapping dinamico all’interaction design – che spingono verso ibridazioni e interazioni sempre più vive tra perfomer e piattaforme informatiche. Le nuove tecnologie sembrano offrire un linguaggio nuovo e aprire la scena a nuove possibilità drammaturgiche, oltre che estetiche. Grazie alla fruttuosa collaborazione di Michele Cremaschi, Nicolas Ceruti e Chiara Boeri, IMPRONTE DIGITALI intercetta questi nuovi interstizi e accompagna il pubblico alla scoperta di queste nuove frontiere.

CLICCA QUI PER VEDERE IL VIDEOREPORTAGE

Identità. Solitudine. Arte: la costruzione di un Amleto

12027333_1500207436969884_7031185311172788087_o
ph. Luca Del Pia

MARTINA VULLO| Immaginiamo l’Amleto shakespeariano, isoliamone i personaggi e trattiamoli come stanze (camere cinque/seicentesche quindi piuttosto antiche… forse impolverate). Supponiamo di attraversarle e guardarci dentro e ricerchiamo al loro interno le componenti che risuonano con il nostro percorso personale e professionale. Immaginiamo ora di presentare il risultato di questa ricerca in divenire ad un selezionato pubblico al teatro delle Moline: una piccola e accogliente sala situata al centro di Bologna. Concluso l’esercizio saremo in grado di avere una vaga idea del lavoro portato avanti da Marco Cacciola in Io sono. Solo. Amleto.
Il bianco predomina nella scenografia data da un telo frontale e due grandi sacchi alla profondità dei lati. Il performer (che è anche lo scrittore e direttore della scena) veste invece in nero con pantaloni comodi e t-shirt maniche corte. I piedi sono scalzi. Le luci abbracciano scena e platea rafforzando il messaggio d’esordio dell’attore che, ponendosi in dialogo col pubblico, parla di un teatro privo di confini, dove esecutore e spettatori compartecipano al determinarsi dello spettacolo.
Evidentemente chi ci parla pensa lo spettacolo come un evento: concezione oggi sempre più dominante e figlia della svolta performativa che ha avuto luogo negli anni ’70, cambiando radicalmente (con nomi quali Schechner o Grotowski) il modo di pensare la scena.
L’attore si scusa con le persone colte e intellettuali le cui aspettative potrebbero essere deluse. Parla in terza persona dell’autore e dell’iniziale sforzo per la costruzione del proprio lavoro, dopodiché si lancia in una serie di movimenti liberi che, accompagnati da una musica di percussioni, fanno da soglia fra l’iniziale prologo e l’entrata nel dramma shakespeariano.
“Anche i morti hanno gli occhi” recita Cacciola muovendo le mani da sinistra a destra: il gesto sembra rimandare ai titoli scorrevoli dei programmi in tv. Le luci puntano l’attore che si muove avanti e indietro, raccoglie della terra da uno dei sacchi e la lascia scivolare lungo il pavimento. Siamo di fronte al personaggio del re assassinato, che dopo aver ripercorso nella mente il momento della propria sepoltura, manifesta con forza il desiderio di vendetta. Sensazioni di odio e agitazione colpiscono fisicamente gli spettatori attraversati dal respiro asmatico che spezza le parole dell’attore. La totale assenza di movimento conferisce ulteriore forza alla phonè.
La trama non ha concatenazioni logiche: i personaggi sono isole e i monologhi sono legati da un montaggio che ricorre a danze, luci e proiezioni video, per sancire il passaggio da una scena all’altra.
Costante il principio di alternanza fra momenti drammatici e leggeri: il Polonio cabarettista che coinvolge ed intrattiene il pubblico, ironizzando sulle piccole incombenze imposte dalla paternità, stride ad esempio con la successiva e silenziosa danza di morte della figlia Ophelia.
Amleto ci appare nel buio di una stanza. Illumina dei versi che riflettono su se stessi e precisamente sul loro essere esperienza che deve incarnarsi nel lettore.
Centrale il tema della paternità che si estende al rapporto fra i governi e i loro disinteressati leader. Emblematico il video alla MTV in cui politici di culture diverse (alcuni dei quali incarnati dall’attore), pronunciano parole del dramma con fare retorico, nelle rispettive lingue di appartenenza. In fondo “basta abbinare al giusto volto uno slogan convincente” ed il gioco è fatto!
Claudio ci appare di spalle, inginocchiato nell’atto di una preghiera che non ci commuove. Sarà per la bombetta ed il bolero che ne fanno una macchietta o per il buffo gesticolare e la parlata in napoletano (omaggio a De Berardinis cui è rivolta anche una dedica sui volantini in sala). Se l’abilità dell’attore nel dare vita al “personaggio marionetta” è indiscutibile, l’introduzione dell’elemento dialettale quasi nel volgere a termine del dramma, può risultare un po’ spiazzante. La situazione si complica ulteriormente con il discorso sociologico che contrappone le vecchie generazioni edipiche a quella attuale e narcisistica che invece di mangiare il padre si suicida inseguendo miraggi irraggiungibili.
Il dramma è saturo di stimoli che non hanno tempo di sedimentare e cedono già spazio a nuovi temi, in un meccanismo che ricorda vagamene il modo di fare dei Babilonia Teatri, la cui poetica si fa però volutamene specchio dell’attuale società e della logorrea di informazione che la caratterizza: un’informazione ridondante come la formula “essere o non essere” pronunciata da Amleto e ripetuta in forma frammentata da voci atopiche che riecheggiano nella la sala, mentre l’attore con parole quali “madre”, “padre”, “figlio”, “vivo” o “morto”, fa da contrappunto.
Il personaggio della regina fa capolino da una struttura a forma di campana, che introdotta al centro della scena e coperta da una stoffa bianca, restituisce l’idea di una grande gonna. Il performer, arrampicandosi dall’interno, emerge a mezzo busto. Il petto è nudo. Il viso è nascosto da una maschera neutra e malgrado le braccia si muovano libere, dà l’idea di una marionetta, per via dei fili a cui è legato.
Abbiamo di fronte una donna che vive nella propria campana di vetro e i cui movimenti sono manovrati dal potere di cui si è tanto parlato? O l’utilizzo della maschera, l’enfasi sulla respirazione diaframmatica e i fili del burattinaio, vogliono tradursi semplicemente in un omaggio al teatro? In fondo come dice la regina “tutti pensano di sapere”, ma non è questa l’idea di Cacciola che conclude lo spettacolo con il “monologo del non so” di Mariangela Gualtieri.
La vera conclusione, però, non coincide con lo spegnersi delle luci, l’applauso del pubblico e gli inchini dell’attore. Il vero epilogo probabilmente avviene con la stretta di mano fra attore e spettatori, che sancisce l’attraversamento di una soglia già annunciata come uno dei temi portanti nel titolo dell’opera.
Gli stessi punti che delimitano Io sono. Solo. Amleto. sono collocati come delle soglie che legano e separano al contempo le tematiche dell’identità, della solitudine e dell’arte. Nel magma di una rappresentazione priva di gerarchie tematiche, la costruzione del senso è affidata allo spettatore.

Da Mombello a Case Matte: il percorso al buio dentro i manicomi di Teatro Periferico

11017679_1186438931371312_5539175738205756882_nRENZO FRANCABANDERA | Quella fila di sedie e il pubblico che entra nella luce fioca. Al buio le voci dei dimenticati fanno più effetto. Al buio diventano lo spiffero dei ricordi. Al buio le voci dei dimenticati, le “anime alla deriva” che urlano da dietro le porte della villa dei matti, diventano soffocanti e fanno venir voglia di scappare via.
Al buio Paola Manfredi, regista di Mombello, Voci da dentro il manicomio, lascia per alcuni minuti gli spettatori del suo lavoro corale, costruito sul testo redatto da Loredana Troschel e Dario Villa intorno al tema del manicomio, in quella che è stata e per certi versi ancora è una ferita del sistema di assistenza e solidarietà del tessuto civile e sociale italiano, specie dopo la chiusura dei manicomi a fine anni Settanta, con la legge Basaglia.

Mombello. Voci da dentro il manicomio è il primo progetto teatrale sulla “villa dei matti”: così era definita nella zona Villa Pusterla, il manicomio di Mombello (frazione di Limbiate), uno dei più grandi ospedali psichiatrici italiani e uno dei maggiori in Europa.

Il 5 Settembre 2015 da Villa Pusterla (Brianza), ha avuto inizio Casematte, il tour teatrale che sta portando Teatro Periferico ad attraversare l’Italia passando non di piazza in piazza o di monumento in monumento, ma dentro le più grandi e conosciute strutture ex-manicomiali italiane, per riaccendere la memoria, dialogare con comunità spesso segnate, se non lacerate, dalla presenza di complessi socio-sanitari di cui le città ospiti tante volte hanno provato a rimuovere il ricordo lasciandole a volte in stato di miserevole abbandono, oltre il pregio architettonico che queste strutture spesso ottocentesche avevano: Genova, Reggio Emilia, L’Aquila, Roma, Volterra e Firenze, e a breve tappa ad Aversa. L’obiettivo profondo, sociale, a Mombello come in tutti le città toccate, è riconsegnare questi spazi a forme di uso partecipato.
In Campania lo spettacolo sarà in scena dal 9 all’11 Ottobre a “La Maddalena” (nome con il quale più comunemente si fa riferimento al Complesso di circa 20 ettari, il 2% de territorio comunale).
Il manicomio di Aversa, fondato nel 1813, fu il primo d’Italia, a lungo l’unico nel Sud. Oggi quasi completamente distrutto e saccheggiato, accoglie strutture di resistenza attiva, cooperative e centri sociali. Si ricorderà il murales di Pignataro del 96.
Andiamo dunque allo spettacolo, prodotto da Teatro Periferico in collaborazione con delleAli, e proposto al pubblico nei lunghi corridoi degli ex manicomi. Notevoli gli interpreti, che sono Giorgio Branca, Elisa Canfora, Antonello Cassinotti, Alessandro Luraghi, Laura Montanari, Raffaella Natali, Loredana Troschel, Lilli Valcepina, Dario Villa. La loro è una coralità talmente profonda nella monadica rappresentazione del luogo mentale che riescono ad evocare che parlare delle singole interpretazioni sarebbe lungo. Perché ognuna è capace di toccare una corda. E ciascuno di loro arriva dove deve con il bisturi nella carne viva dello spettatore.
Il pubblico lungo una parete. Sul lato opposto del corridoio le porte delle stanze, la guardia infermieristica, nella scena pensata da Salvatore Manzella. Porte che quasi mai si aprono completamente, che più frequentemente si chiudono in un buio senza tempo, dentro cui affogano esistenze e storie, sensibilità e cedimenti, fotografie sfuocate, ritagli di giornale di eroi di un fuori che sembra un sogno, una tv accesa a fare da colonna sonora di un tempo interminabile che il pubblico pare sentire addosso, scandito da gesti ripetuti, ossessioni, manie. Fioche le luci disegnate da Andrea Violato, che variano fra il buio e il gelido medicale, con qualche riverbero dall’oltremondo delle fessure sotto le porte delle stanze dei “matti”.
E i “normali” a bruciare anche loro un’esistenza trascorsa ad addormentare con i farmaci, con pochi sussulti per bloccare spasmi di incontrollabile forza di vivere, sedati dalla chimica ma senza possibilità di guarigione.
Dopo una intensa raccolta di testimonianze fra il personale impiegato, i familiari dei malati, i malati stessi, anche alcuni cittadini, Paola Manfredi e il gruppo di lavoro hanno ricostruito un quadro preciso delle vite di molti degli ospiti di Mombello, arrivando a ricreare una sorta di assoluto emotivo, il canone ripetuto di vite fatte di solitudine, costrizioni spesso violente (camicie di forza, legature al letto, finanche sperimentazioni farmaceutiche non autorizzate), ma anche del lento scorrere della vita, raggi, sguardi, presenze vigili e a volte di rara umanità.

Il progetto Casematte è degno di menzione sia per valore assoluto rispetto all’esito artistico che per l’intento sociale, una sfida affrontata dalla compagnia in modo commovente, con un camper in giro per l’Italia, con quel coraggio così raro da trovare, di dedizione totale all’arte. Inspiegabili le scelte dei circuiti di sostegno regionali, che hanno privato quest’anno la compagnia del sostegno economico di cui le sue meritorie iniziative godevano, seppur in forma parziale. O forse spiegabilissime, in una regione che toglie i finanziamenti alle strutture che ospitano rifugiati.

Ma la Manfredi, Villa e tutte le altre donne e uomini di Teatro Periferico hanno saputo andare oltre questa assurda miopia, per rilanciare un progetto che segnaliamo a tutti, lettori, amici, appassionati, come una delle esperienze umane legate al teatro e alle arti sceniche più coinvolgenti di questi anni, ma anche e soprattutto del presente e del futuro di chi guarda alla scena non come la paludata narcisistica dimensione creativa di qualche artistino di un’umanità da poco, ma come qualcosa che abbia dentro davvero la potenza di cambiare le cose e dialogare col suo tempo fatto della ricchezza umana dell’esperienza del rapporto diretto, dal vivo con chi, interagendo, la fruisce, l’unica cosa che profondamente distingue questa forma d’arte da ogni altra.

eafbefa37f217374d63a3af098f8a208_XLLe date della tournèe sono 9 – 11 ottobre ad Aversa, 17 ottobre a Roma, 22 – 23 ottobre a Volterra e 24 – 25 ottobre a Firenze).

Da Venerdì 9 Ottobre all’11 ci saranno ad Aversa passeggiate notturne nella struttura a cura di Chille de la Balanza (compagnia teatrale residente nell’ex O.P. di San Salvi – FI), aperitivi e concerti, la presentazione del progetto “Atlante della città fragile”, di e con Gigi Gherzi, e infine lo spettacolo “Mombello. Voci da dentro il manicomio”, a cura di Teatro Periferico.

ATTENZIONE:
Per gli spettacoli “Passeggiata Teatrale – C’era una volta…il manicomio” e “Mombello. Voci da dentro il manicomio” si consiglia la prenotazione ai seguenti numeri:
3341185848 / 3356270739 / 0556236195 / 3472834447

MK, fra etica ed estetica: videointervista a Michele Di Stefano

1RENZO FRANCABANDERA | È iniziata ieri e durerà per tutta la settimana la personale che MilanOltre dedica in questa edizione a MK, la compagnia di danza ma forse ancor più e meglio di linguaggio artistico del corpo, fondata da Michele Di Stefano che da anni conduce una ricerca coreografica ed estetica al confine fra danza e atto performativo.

Ma la possibilità di conoscere il recente lavoro del collettivo è ampia, come la data a fine mese in apertura del Festival Autunno Danza a Cagliari. Insomma, i festival storici di danza di questa parte d’anno rendono omaggio, dopo il Leone d’argento alla Biennale di Venezia, capace di affermare con la propria pratica un canone estetico che per molti aspetti a modificato il modo di intendere la danza in Italia.

E la videointervista al fondatore della compagnia, realizzata durante il Festival Contemporanea a Prato, affronta una serie di questioni legate proprio alla prassi artistica del gruppo ma in generale di chi si occupa di danza in Italia oggi.
Con lui discutiamo della loro storia e delle creazioni recenti, come Giuda, del premio alla Biennale e del lavoro con Aterballetto, ma anche e sopratutto se e come sia possibile fare rete fra artisti, di come si sia evoluto il gusto nel nostro Paese, se esista una sorta di estetica generazionale e di cosa significhi promuovere cultura oggi.

CLICCA QUI PER IL VIDEOREPORTAGE

Filippo Dini, Ivanov a tutto tondo

IVANOV-ENSEMBLEVINCENZO SARDELLI | Un cast di primissima scelta. Un testo immortale, capace di scuotere la nostra quotidianità. La descrizione di un’umanità sul baratro. Ivanov, di scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino all’11 ottobre, è la prima grande opera teatrale scritta da Anton Čechov. Racconta l’ultimo anno di vita di un uomo che fa i conti con la propria incapacità di vivere.

Attraverso la figura di un inetto che piega la propria volontà all’immobilismo, l’allestimento di Filippo Dini (sul palco con Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe) racconta il declino di una società e di un’epoca.

Un classico della letteratura russa. Una scenografia grigia. Un impianto registico tradizionale. Tutto sembra rigore formale, cristallizzato dalla formazione accademica degli attori. Lo spettacolo dura tre ore. Ma il timore che tanta classicità sia indizio di un passatempo greve, dura un attimo.

Il sipario è aperto quando il pubblico entra in sala. Frinire di cicale. Le note di pianoforte di Arturo Annecchino (Luca Annessi assistente) creano un’atmosfera rarefatta. Luci sul palco e in platea. Filippo Dini alias Ivanov è già in scena, quasi accasciato. Eppure questo inizio soft crea una messinscena rapida, capace di rivitalizzare l’impianto narrativo di Čechov basato sui monologhi. Grazie anche alla traduzione di Danilo Macrì, Dini (aiutato alla regia da Carlo Orlando) sfuma la componente evidentemente troppo psicopatica del protagonista. In Ivanov sono già presenti molti temi della poetica più matura di Čechov. C’è l’anima candida di una donna (la sempre impeccabile Sara Bertelà) logorata dalla tisi e da un amore mal riposto. Ci sono le illusioni, che danno consistenza ai sogni o agli incubi: oltre all’amore, la bellezza, il suicidio, la morte, l’eternità. C’è un mix di satira e riconoscenza verso i medici, presagio di quello che sarà l’infelice esito terreno dello stesso Čechov.

Collerico e aspro, il personaggio di Ivanov fa parte di un filone letterario europeo dell’Ottocento in cui il protagonista è proprio l’uomo senza qualità che non sa applicare le proprie energie alla vita. La sua originalità risiede nella lotta tutta virtuale e velleitaria per non soccombere al destino e alle proprie nevrosi, ai limiti, che si traducono in meschinità. Le aspirazioni intellettuali di Ivanov, unite al senso d’impotenza, fanno di lui un eroe negativo, intorno al quale si muove un’umanità senza ideali e senza futuro: un microcosmo in cui ognuno tenta di sopravvivere alla noia interiore e guarda al passato con pietosa indulgenza. Nel riverbero dei fuochi d’artificio in lontananza, nell’odore caduco e pungente di candele accese o spente, emergono figure grottesche che si logorano a vicenda.

Uno spettacolo senza sbavature. Pasquale Mari disegna luci introspettive. Il movimento scenico diventa fluttuare della scenografia, con lo spazio che si dilata, restringe e ribalta, a creare vari ambienti, interni ed esterni.

La scena (curata con i costumi da Laura Benzi) viene a più riprese rivoltata come un calzino. Si ride per non piangere. I personaggi si muovono tra registri estremi. Sono ebeti dall’incedere parkinsoniano. Misantropi, che avanzano con l’aria da buffoni. Nobili dismessi, in libera uscita da finanze, moralità e bon ton.

Il movimento scenico mai fine a se stesso rende la pièce allegra. Le conferisce un estro a tratti carnascialesco. La tracimazione farsesca dei personaggi non ne intacca lo slancio vitale. Di questo variegato affresco umano apprezziamo il minuto realismo, che è anzitutto vivacità dei sentimenti e delle emozioni.

Lettera aperta a Rosy Bindi

ANDY VIOLET | Gentile Presidente,

chi le scrive è un insegnante di lettere precario di 31 anni, omosessuale dichiarato dall’età di 16. Ho potuto contare, sin dal mio coming out con i compagni di classe e con la mia famiglia, sulla fortuna di non aver mai subito per la natura del mio orientamento sessuale alcuna discriminazione né violenza, cosa purtroppo non scontata in Italia. Il fatto stesso che io utilizzi la parola fortuna per indicare la serenità con cui ho vissuto la mia omosessualità la dice lunga su quale sia la condizione di gay, lesbiche e transessuali nel nostro Paese: dobbiamo sperare che sia la fortuna a darci quei diritti che dovrebbero essere garantiti per legge, mancando una seria legislazione riguardo l’omofobia e i diritti civili.

 Questa gravissima lacuna nella legislazione italiana è frutto, quando non di livore ideologico, della colpevole incuria dei partiti, di destra quanto di sinistra, per l’argomento, relegato costantemente nell’alveo delle questioni poco importanti, poiché “c’è altro ben più urgente a cui pensare”. Il che, in un paese come l’Italia in cui l’emergenza è normalità, equivale a professare un completo disinteresse per i problemi di una fetta rivelante della popolazione italiana, completamente ignorata nelle sue legittime rivendicazioni,  peraltro già da tempo accolte in vasta parte dell’Occidente. E’ proprio quella fetta di popolazione che lei, nella recente apparizione alla Festa dell’Unità di Roma, ha definito una “minoranza”. Le sue esatte parole sono state: “Noi siamo chiamati a governare il paese,  non una minoranza”.

Ciò che forse le sfugge, Presidente, è che il fatto di essere una minoranza non la esime dal lavorare per l’affermazione dei diritti di tutti coloro che di questa minoranza fanno parte. Applicando il suo ragionamento alla lettera, non avrebbero alcun valore i diritti delle persone diversamente abili, degli immigrati, dei non cattolici, tutti configurabili come minoranze. Il suo, pertanto, è, senza se e senza ma, un concetto razzista, per di più alimentato non da ragioni oggettive, ma da un giudizio personale derivante dalla sua fede. Non si nasconda dietro la Costituzione: il suo rifiuto è frutto di ideologia cattolica pura e semplice, non meno irragionevole del burqa imposto alle donne.

Pretendo, da elettore e cittadino, che i miei diritti, non lesivi della libertà di alcuno, e il rispetto della mia persona vengano sanciti in modo inequivocabile, e non siano frutto di una fortunata coincidenza né degli indimostrabili convincimenti metafisici suoi e di altri colleghi del suo partito. Questo è dovere di chi viene chiamato a governare un Paese: ciò non la mette a capo di una minoranza, cosa che non le viene chiesto, ma la mette nella condizione di adempiere al suo mandato nell’interesse del Paese, che, sì, la stupirà, coincide con la difesa dei diritti di ciascuno, diritti che non derivano dal far parte di una maggioranza od una minoranza, ma dall’impegno dello Stato (e mi permetta di citare a mia volta la Costituzione) a rimuovere tutti i vincoli che non permettono la piena promozione ed espressione della persona.

Mi meraviglio, poi, che lo stesso discorso non lo faccia quando lei e i suoi colleghi venite chiamati a votare proposte di decurtamento del vostro stipendio o di altri benefici riservati alla ristretta élite della compagine politica, proposte che si sono sempre scontrate con un netto e ingiustificato rifiuto: non è quello agire negli interessi di una minoranza a detrimento del bene comune?

 Nell’invitarla a ponderare meglio le sue uscite pubbliche, che, per quanto prive di turpiloquio, non risultano meno offensive dei coloriti epiteti che qualche suo collega ogni tanto usa per definire le persone omosessuali, la saluto, informandola che la sua parte politica ha perso il mio voto. Ma cosa le importa, dopotutto? Io sono solo una minoranza.

Un cittadino di serie B.

Presto, Dobbiamo Liberarcene!

ANDY VIOLET | Può apparire una questione di poco conto, ma per un partito nato e cresciuto sulla base di una geniale intuizione di onomastica, la cosa si fa di precipua importanza. Nel lontano 1994, infatti,  in un clima politico analogo a quello odierno, Silvio Berlusconi riuscì ad imporsi anche grazie ad un’oculata rivoluzione del linguaggio politico, ispiratagli dalla sua esperienza in campo calcistico: mutuare dallo sport modi di dire e slogan, caricare di significato politico espressioni ampiamente diffuse tra le masse per pubblicizzarsi a costo zero.

E’ da qui che nasce la celeberrima “discesa in campo”, ma soprattutto è da lì che viene “Forza Italia”: contravvenendo a qualsiasi tradizione di nomenclatura dei partiti, Berlusconi battezzò il suo movimento con una frase che ogni italiano aveva almeno una volta nella sua vita pronunciato. Di lì in poi non sarebbe più stato possibile assistere ad un mondiale di calcio o di qualunque altro sport senza il costante rimando a Silvio e al suo partito: una vera e propria operazione di marketing virale, che ha generato una tale identificazione tra slogan e partito da imporre da vent’anni a questa parte la scelta del più neutro “Forza Azzurri” per evitare le implicazioni politiche ormai impresse nel più classico coro da stadio.

Tuttavia, Silvio decise in seguito di uccidere la sua creatura, sacrificandola per un fine più alto: fagocitare AN e creare il Popolo Delle Libertà, nome nato da una modifica del Polo delle Libertà usato in precedenza per identificare la coalizione di centro-destra. Ed ecco il PDL, un acronimo che ben descrive l’essenza dell’attuale partito, con tutti gli scandali in esso accumulati: Partito Dei Ladri, dopo la scoperta dei traffici della giunta del Lazio nonché della regione Lombardia, ma anche Partito Delle Liti, per identificare le divisioni e i dissapori che investono le componenti del movimento e le vaste spinte centripete che lo stanno facendo a brandelli.

Il gioco può andare ben oltre: da Mangano a Dell’Utri, da Cuffaro a Zambetti, gli oscuri contatti con le mafie di vario genere ci danno la non edificante immagine di un Partito Della Lupara, mentre i continui tentativi di forzare la Costituzione per creare un salvacondotto giudiziario all’ex premier ne hanno fatto il Partito del Lodo. Inoltre, i sospetti che Berlusconi altri non fosse che il braccio armato di Licio Gelli, sembravano confermare che si trattasse di una P Due Legalizzata. E che dire delle cene eleganti, delle gare di burlesque e dei festini di Arcore? Non si trattava d’altro che di incontri al vertice tra il Partito dei Libidinosi e il Partito Delle Lucciole, rinominato poi Partito delle Lap-dancers, tutti belli e in formissima grazie all’ultimo ritocchino estetico: chi un seno nuovo, chi una antidepilazione totale, chi un trapianto di capelli, perché si tratta pur sempre del Partito Del Lifting o del Partito Della Liposuzione. Della primigenia, geniale intuizione di Forza Italia, dunque, non ha più nulla, se non un trigramma ormai ingombrante e screditato, che tutti a gran voce chiedono al gran capo di cancellare: Presto, Dobbiamo Liberarcene.

Elena Arvigo: la mia Politkovskaja e quella libertà così difficile da raggiungere. In ogni tempo

imageRENZO FRANCABANDERA | In scena dal prossimo 7 Ottobre al Teatro Out Off di Milano con Donna non rieducabile, un testo di Stefano Massini sulla vicenda di Anna Polikovskaja, la giornalista russa uccisa per le sue cronache scomode, incontriamo l’interprete Elena Arvigo per addentrarci nei perché  di questo spettacolo.

Quando ha deciso di fare Donna non rieducabile e che rapporto ha avuto con il testo di Massini?

Era Dicembre dell’anno scorso il 2014 e Emanuela Rea che da qualche mese si stava occupando a Roma del Teatro Brancaccino mi chiese se volevo fare qualche data di 4:48 Psychosis di Sarah Kane: voleva provare ad avviare una stagione di drammaturgia contemporanea. Lì per lì le dissi di si, ma poi con Valentina Calvani (la regista) pensammo che non aveva molto senso ritornare a Roma con quello spettacolo, con cui avevamo avuto percorrenze anche di 5 settimane. Ci dicemmo che avremmo aspettato nuove idee, dandoci come limite di tempo Natale. Non riuscendo portare a completamento in quel breve tempo i progetti a cui mi continuo ancora a dedicare (“le imperdonabili: le donne e la guerra” e “Elena di Sparta”, studio sul mito di Elena) ho incontrato questo testo, cercando testi e suggestioni in libreria. Anzi così ho incontrato Massini. In libreria ho trovato Lehman Trilogy, gli ho dato un ‘occhiata e mi è piaciuta quella scrittura cosi frammentaria, a cascata, ma precisissima. È un scrittura libera, che respira bene dentro i pensieri. Sono andata su internet e sul suo sito ho visto questi testi –monologhi- su diverse donne. Gli ho chiesto se potevo leggere “Donna non rieducabile” perchè la storia della Politkovskaja un po’ la conoscevo e il testo mi è subito piaciuto molto. 

E lui?

Questo per Massini è sempre stato un testo un pò speciale e visto l’argomento più se ne parlava meglio era. Inoltre per raccontare quei fatti di cui parla il testo era necessario eliminare qualsiasi rischio di sentimentalismo e questo mi sembrava un cornicione pericoloso ma interessante su cui ballare. E cosi ci ho pensato qualche giorno e mi son detta “Ma si, proviamo!” 

Un bell’impegno! E Tedesco quando è arrivato?

Io sono molto pigra e combatto la mia pigrizia dandomi regole severissime e scadenze violente. Dunque il fatto di avere delle date a ghigliottina per me è sempre un modo per costringermi a fare le cose. Dopo aver fissato le date ho cominciato a cercare qualcuno che mi desse una mano e produrlo e non ho trovato nessuno. Ma la cosa non mi spaventa più. Se ho il tempo. Inizio nei luoghi che garantiscono l’accessibilità oggi, i centro o teatri occupati e uno spettacolo come questo mi costa 1000 euro compreso tutto. Allora ho iniziato a provare all’Ex manicomio di Santa Maria della Pietà e a cercare qualcuno con cui condividere il viaggio. E ho trovato Rosario Tedesco: non ci conoscevamo se non di vista ma il tempo era poco e ci è sembrato un buon incontro subito e siam partiti ed è stato un grande compagno di viaggio davvero.

E il rapporto con il testo?

Come le ho detto mi è piaciuto subito e ho fatto come avevo fatto con il monologo precedente “4 :48 Psychosis”. Cioè faccio la memoria e poi cerco di capire i passaggi quando i miei pensieri e le parole del testo vanno alla stessa velocità. Studio la punteggiatura. Gli spazi. Sono molto indisciplinata di natura e quindi mi do regole severe per evitare di perdere la strada e l’animo. Non mi do alternative. Il testo è quello, punto. Altrimenti è una catastrofe di indecisioni e insicurezza. Abbiamo tagliato pochissimo ma più per esigenze di tempo. Io non avrei tagliato nulla. Però un monologo non può durare piu di un’ora e mezza, mi dicono. La cosa che mi piace del testo è  la sua struttura, cioè la sequenza dei quadri. Inoltre ogni quadro ha un titolo. Il fatto di dare un titolo è una cosa che faccio sempre, anche quando i titoli non ci sono, in tutti i testi. Mi aiuta e quando ho visto che c’erano i titoli ho pensato che parte della strada era già indicata. Sono liberi uno dall’altro ma sono anche profondamente legati, ci sono dei passaggi da un quadro all’altro che mi piacciono tantissimo. Non sono indicati direttamente dalle parole, ma se arrivi bene alla fine di un quadro, il passaggio a quello dopo è un bel volo preciso di pensiero. È come se fossero stanze e si arriva nella stanza nuova solo se si è chiusa bene quella precedente.

Poi mi piace che il primo quadro parte da un’immagine, il gasdotto. L’inizio dello spettacolo è molto descrittivo, quasi nozionistico. È Anna che arriva in Cecenia, si guarda intorno e fa semplicemente il suo mestiere: guarda e descrive. Poi ad un certo punto succede qualcosa. Il cuore dello spettacolo secondo me è il quadro che parla dell’attentato a Grozny, “Il sangue e la neve”. Qui è come se la generica giornalista inviata “diventa” Anna Politkovskaja, diventa tutto più personale. Anna comincia a vedere e soprattutto ad ascoltare. Si sente investita di una responsabilità di ascoltare le gente, le loro storie, e di raccontarle. Se non lo farà lei non lo farà nessuno. Tutti la cercano per essere ascoltati per avere una voce e man mano che il testo procede, progressivamente ogni cosa diventa più “personale” e viene descritta sempre di più la persona e meno la giornalista. Ma credo proprio per questo sia stata un giornalista straordinaria, perché ancora più forte del desiderio di scrivere era la sua necessità di ascoltare le persone. Perché sapeva ascoltare e poi raccontare. E il testo conduce davvero bene dentro questo viaggio che da grande, dalla descrizione dei luoghi diventa sempre più piccolo, vicino, e descrittivo di stati d’ animo –l’ultimo quadro prima dell’epilogo si intitola “sono stanca”. È davvero un viaggio bellissimo Donna non rieducabile. E a proposito di viaggio nelle mie intenzioni iniziali c’era di andare in Russia e tra un quadro e l’ altro mettere dei video di alcuni luoghi, la casa, l’ascensore, andare alla tomba e fare qualche intervista, alla figlia e al direttore della Novaja gazeta e inserirle nello spettacolo, proprio per mettere anche il mio “viaggio”. Avevo contattato sia la figlia Vera, sia la Novaja tramite l’associazione Annaviva, ero anche andata a informarmi per il visto e guardavo ogni giorno i prezzi dei biglietti… poi non avevo abbastanza fondi, ma mi piacerebbe moltissimo far andare paralleli i quadri del testo con il mio viaggio… ma non si tratta solo di andare in Russia, quello l’ho fatto, si tratta di avere un operatore e fare delle riprese e va organizzato per bene… però è un’idea che mi piace anche solo immaginare per adesso. Perchè no? 

Ma intanto…

Alla fine con Rosario abbiamo deciso di andare avanti proprio “a mani nude”. Come quando si va in montagna a scalare senza chiodi. Ho solo una porta che mi accompagna. Un pezzo di una scenografia di un altro spettacolo che mi fa passare da un quadro all’altro. Come fossero flash o luoghi del ricordo o del pensiero o introduce personaggi nuovi.

In che modo la persona prima che il personaggio della giornalista sono entrati in contatto con lei?

Come detto, sono entrata in contato prima con il personaggio e poi con la persona. Ne conoscevo la storia, abbastanza superficialmente, e mi sembrava una buona compagna di viaggio per”Le Imperdonabili”. Mi sembrava stesse bene accanto a Etty Hillesum, Elena di Sparta e altre che mi appassionano come la Marina Cvetaeva (su cui tra l’altro la Politkovskaja fece una tesi di laurea). In questa prospettiva di progetto trilogia forse “Quadrilogia” sulle donne e la guerra –che resistono e che raccontano- mi sembrava perfetta. Il giornalismo come atto di resistenza. Continuare a raccontare. Mi sembrava si incastrasse perfettamente con il senso del mio progetto su queste donne “imperdonabili” perché in qualche modo resistono.

Poi studiando, si, ho incontrato la persona, piano piano gradatamente. Mi piace documentarmi è la parte più bella di questo mestiere, lo studio la ricerca. Poi oggi c’è  internet si può trovare tantissimo. E comunque era davvero una persona molto amata e a chiunque io abbia scritto, giornalisti, associazioni, documentaristi, fumettisti, erano tutti felici di darmi, mandarmi materiale e che si facesse ancora, di nuovo, uno spettacolo in cui si parlava di Anna P.

Ho letto tanto, non tutto probabilmente, ma tanto si. I suoi archivi della Novaja gazeta, i libri e poi i documentari e quello che è stato scritto su di lei. Ho cercato le persone che la conoscevano. Quest’estate sono andata a Locarno a conoscere Nicola Bellucci e Lucia Sgueglia che hanno fatto un documentario sulla Cecenia “Grozny Blues” ed è sempre interessante sentir voci diverse di persone che l’anno conosciuta. Pian piano le ho cominciato davvero a voler bene ad Anna. È passata nei miei appunti da Essere Anna Politkvoskaja ad Anna P. e quando scrivo al volo qualcosa che devo fare per lo spettacolo, tipo: comprare fiori o mele (che sono oggetti dello spettacolo) adesso scrivo “Comprare mele x Anna”. Siamo diventate amiche. Anche per me c’è stato un passaggio simile a quello del testo. Sono partita dalla giornalista e son passata piano piano alla persona. Sono passata ad ascoltare la persona non a raccontare “la giornalista”. Anche per recitare bene prima di raccontare bisogna fermarsi ad ascoltare, prendersi il tempo dell’ascolto, del silenzio, del pensiero. Ma forse in tutte le vicende umane, se non si ascolta, non può accadere nulla di nuovo nè di buono.

Penso che possa immaginare che la mente torni alla passata recente interpretazione che di questo personaggio ha reso Ottavia PiccoloIn che modo la sua lettura del testo si differenzia da quella?

La prima cosa che devo dire è che non ho visto quello spettacolo dal vivo. Ho solo visto qualche spezzone su youtube e interviste, però penso che se si vuole parlare di differenze di letture del testo la risposta sia più da cercare nelle differenza concreta che c’è tra Ottavia Piccolo e me, che nella lettura del testo in senso astratto. Ottavia Piccolo è Ottavia Piccolo. Era Cordelia, il fool nel Lear di Strehler, era nelle Baruffe chiozzotte. Al Piccolo a scuola, sono video che ci hanno fatto vedere davvero tante volte. Erano dei cult. Come Via col vento. Ma per noi era La tempesta o Re Lear. Quindi quando un’attrice con la storia di Ottavia Piccolo decide che le interessa fare un testo di questo genere allora l’interpretazione è chiaro che è strettamente legata a chi è lei. Una grande attrice che interpreta, dà voce e corpo ad una grande giornalista. Dalle immagini che ho visto quasi le assomiglia direi. Con gli occhiali e anche con i capelli corti, seduta al tavolo con i fogli. È Anna Politkovskaja. Interpreta Anna Politkovskaja che racconta questo testo e si fa testimone, lei stessa, di questa storia.

Io sono Elena Arvigo. E non ho certo la storia e l’identità che può avere Ottavia Piccolo: sono un’attrice che ha letto il testo e ha pensato che poteva essere davvero un bel viaggio, si è presa un mese di tempo e l’ha fatto, ed è stato ed è bellissimo e ha avuto dei consensi abbastanza inaspettati e direi straordinari, considerando le condizioni produttive. Ma non ho mai pensato di “interpretare” Anna Politkovskaja. Sto un passo indietro. Attraverso a piedi il testo e la storia e attraversando il testo cerco di “raccontare” Anna Politkovskaja. Offro a questo testo e a questo storia la mia immaginazione, i miei muscoli per attraversarla, fino in fondo. Provo ad andare lì  dove il testo mi indica, e cerco di rivivere ogni cosa come fosse davvero ogni quadro un viaggio dentro una realtà. E la porta (la scenografia) la “uso” proprio come gate verso altri luoghi del pensiero o anche geografici, mondi in cui mi tuffo per raccontare Anna e la sua storia.

imageQuesta operazione si fa testimonianza e in qualche forma anche memoria resistente. E quindi per lei un atto civile?

Per me è un atto civile anche mettere in scena Le allegre comari di Windsor o andare a fare la spese. Non saprei dire cosa non è un atto civile.

Le posso dire cosa è per me raccontare di Anna P. significa continuare a raccontare le cose di cui lei parlava. Quindi è come se volessi dire, continuare ad ascoltare, ad essere in ascolto di quelle storie. Il film “La notte delle matite spezzate” che parla di studenti desaparecidos in Argentina nel 1976 è stato realizzato da uno dei  sopravvissuti. Nella scena finale c’è quello che ai tempi era un suo amico, che viene preso per essere fucilato e un altro ragazzo che dalla finestrella della sua cella continua a dirgli, fino alla fine, io ti vedo, ti sto guardando, ti vedo, ti vedo, ti vedo, non smetterò di guardarti. Quel ragazzo in cella che guardava è quello che ha poi fatto il film. Per continuare a raccontare di quel suo amico. Per non lasciarlo solo. Mai. Non importa se lo avevano fucilato. Lui doveva continuare a raccontare. E cosi parlando di Anna si continua a raccontare di questa persona che c’era, che ascoltava, che aiutava la gente. E raccontando di lei si racconta ancora di loro. Non li si lascia soli. Raccontare di gente come Anna è importante, perché non hanno smesso di scrivere, di esserci, non hanno mai avuto il dubbio che potesse essere inutile. Il punto non era cambiare la situazione ma ascoltare e scrivere. Un messaggio importante di semplicità e di grande coraggio. A raccontare storie e forse anche a sentirle c’è persino il rischio di diventarlo un po’ più coraggiosi. Il teatro e in senso più ampio l’arte dovrebbero anche servire a prender un po’ di coraggio.

Lei pensa che al nostro tempo manchi forse coraggio per ridare uguali possibilità e accesso alla libertà alle persone?

Non credo ci sia mai stato un tempo in cui ci sia stato libero accesso alla Libertà. Non so se si può parlare di coraggio. Forse più semplicemente non conviene.

Morire di corsa. Tanto stupido da essere tragico

ELENA SCOLARI | Morti stupide, morti ridicole, morti apparentemente prive di senso. Morti che non si spiegano. La morte è un super tema, da portare in teatro. Come l’amore. Non_correre_Amleto01
Riflettere sulla morte prima o poi capita a tutti. E capita anche a Francesca Garolla, drammaturga che vive un brillante momento professionale anche all’estero, autrice di Non correre Amleto, in scena fino al 19 ottobre al Teatro i di Milano, per la regia di Renzo Martinelli.

Andiamo con ordine, si parte da un fatto di cronaca: nel 1993 un convoglio di aiuti umanitari diretto in Bosnia, formato da cinque persone, viene attaccato da miliziani. Tre dei cinque saranno uccisi, due riusciranno a fuggire correndo attraverso i boschi.
Da qui in avanti la riflessione si concentra sul fatto che – forse – sarebbe bastato che nessuno si fosse messo a correre perché la vicenda andasse diversamente.

A riflettere in scena sono Elena Ghiaurov e Milutin Dapcevic, entrambi molto molto bravi, due attori con uno stile non convenzionale, lei dotata anche di un timbro di voce molto bello e capace di dare profondità quasi tangibile alle parole, lui con un che di imprevedibile accompagnato da un distacco continuo qui assai appropriato.
Ruolo particolarmente forte hanno anche i suoni di Fabio Cinicola e le luci di Mattia De Pace, così come la regia, a nostro avviso elementi anche troppo presenti, quasi a fare da contrappeso a un testo rarefatto e che procede in modo aforistico. Molti oggetti in scena, molti movimenti, molti stimoli sonori, frequente uso delle luci come elemento drammaturgico. Tutte scelte che, in sé, non sono affatto sbagliate, ma qui sembrano voler riempire spazi che invece in una speculazione filosofico/esistenziale dovrebbero rimanere liberi. Per il bene del pensiero. Si rischia così di evidenziare (pur avendo l’intenzione opposta) una certa fragilità del testo, che tende ad attorcigliarsi intorno ad alcune osservazioni interessanti, ripetendole senza svilupparle.

L’idea, per esempio, che i morti siano veramente tali solo quando tutti lo vengono a sapere, e che pertanto esista un intertempo indefinito in cui la fine non è completa, un momento impossibile da incardinare nelle normali coordinate temporali è un pensiero originale ma che rimane incompiuto, nella rete di dubbi amletici di cui è fatto lo spettacolo. Già, perché di Amleto ancora non si è parlato, è citato nel titolo, creando aspettative sostanzialmente disattese nella realizzazione. Gli accenni a Shakespeare sono nella definizione per quadri, scanditi da scritte su display, dal fantasma iniziale all’Orazio finale. Amleto è anche nelle mazze da golf che Dapcevic maneggia, che si trasformano in fioretti su una ipotetica pedana da scherma, una striscia di terreno scenico, l’unica comune ai due personaggi e che entrambi calpestano, dominata da una lavagna dove si scrivono e si cancellano elementi investigativo/giornalistici che aiutano a fermare i dati dell’avvenimento analizzato.
Gli attori agiscono divisi da una linea di mattoni che forma due spazi distinti, come in NN figli di nessuno, dove la divisione tra i due personaggi era costituita da una fila di poltrone da cinema. Il dialogo è fatto dall’interazione di due monologhi, autonomi ma dipendenti l’uno dall’altro per la costruzione ad incastro del testo, le riflessioni si supportano solo nell’unione. È prevedibile che la separazione verrà superata, e infatti quando Dapcevic esce di scena Ghiaurov sconfina nella sua zona, chiudendo con un epilogo che lascia ai vivi di raccontare una storia non loro, quella dei defunti, insieme alla grana di convivere con l’inspiegabilità della morte. O di alcune morti.

Alla fine rimane la sensazione di un timore irrisolto nell’affrontare Amleto nella sua complessità, lo si tira in ballo in maniera tangenziale, parziale, non sempre giustificata, rilevando solo il suo aspetto dubbioso trascurando che in Shakespeare c’è anche la re-azione, anche se finirà in tragedia distruttiva c’è un piano preciso per rimettere ordine a un caos che si disprezza.

La scelta di riferirsi così marginalmente ad Amleto non giova a uno spirito che vorrebbe rinnovare gli interrogativi con la i maiuscola. Siamo tutti Amleto? Forse. Tutti siamo oggetto di raccomandazioni alla prudenza, spesso inutili, tutti ci arrovelliamo dall’inizio dei tempi per trovare risposte alle grandi domande, ci chiediamo se è il Caso a governare o se è il libero arbitrio a muovere ciò che accade (rileggere Sant’Agostino può schiarire il panorama) e quello che si scopre è la mancanza di logica razionale.
Ma il senso del mistero non è proprio questo?

Pergine Spettacolo Aperto 2015: tornando su quelle riflessioni fra arte e scienza

KYMA_450x280RENZO FRANCABANDERA | Era luglio, in pieno tempo di festival. Ci torniamo su ora, che il tempo ci porta in casa l’autunno, per ripercorrere alcuni momenti interessanti del percorso che Pergine Spettacolo Aperto ha proposto nell’edizione 2015 fatta come sempre, oltre che di spettacoli, anche di installazioni e azioni performative dedicate in senso lato alle arti, all’avvicinamento dei partecipanti ad una sensibilità verso quello che non siamo abituati ad osservare.

Il video reportage che proponiamo oggi, infatti, raccoglie non solo la voce della direzione artistica affidata ormai da alcuni anni a Cristina Pietrantonio, ma anche di alcune delle artiste presenti con le loro installazioni.

In particolare due installazioni si sono comunque confrontate a distanza sul senso dell’essere, sulla sensibilità umana e sul rapporto ancestrale con il mistero della vita e con la scienza. Si tratta di Kyma progetto di Elettra Bargiacchi e Marta De LLuvia, e di Grembo sonoro, un’installazione dedicata alle sensazioni prenatali, realizzata e curata nei minimi dettagli da Fatefaville, Alberto Irrera e Luca Tombolato, con accoglienza al pubblico e rielaborazione dell’esperienza a cura di Anna Carnovali, psicologa e operatrice in biomusica, che abbiamo intervistato.

CLICCA QUI PER IL VIDEOREPORTAGE