BRUNA MONACO | Che il contemporaneo (in arte, musica, danza o teatro) sia irriconducibile a uno stile unico e omogeneo, è cosa ormai nota. Ma quanti e quali siano i “modi di essere contemporaneo”, al di là dei generi di appartenenza (che per la musica e forse per l’arte sono facili da individuare, ma per danza e teatro?) è impossibile stabilirlo. D’altronde una classificazione non renderebbe giustizia a delle arti che per vocazione e anagrafe si vogliono multiformi, pluridisciplinari, inclassificabili, appunto. Dei 21 spettacoli visti al festival Equilibrio ne abbiamo scelti tre che fossero fra loro il più lontani possibile: tre modi d’essere danza contemporanea a confronto. Tre spettacoli così diversi che basta giustapporli perché le differenze balzino agli occhi. Le similitudini sono invece poche, da cercare col lanternino o con piglio di studioso. L’unica evidente, che risalta insieme alle differenze, è il punto di partenza: tutti e tre stanno sotto lo stesso cappello, danza contemporanea.
È dal Giappone, dal Burkina Fasu e dalla Spagna che vengono i nostri tre spettacoli: “Inter-mezzo” del maestro di Butoh Ko Murobushi, “Kohkuma 7º sud” di Serge–Aimé Coulibaly per la compagnia Faso Danse Théâtre, e “(espérame despierto)” di Juan Kruz Díaz de Garaio Esnaola.
Partiamo dalla fine, dallo spettacolo con cui si è concluso il festival, quello a noi più vicino, geograficamente e non solo: “(espérame despierto)” è una performance minimal per due interpreti che danzano senza musica. Uno spettacolo che parte in sordina con un gioco di sguardi. Lei suona un violino, male, ma ci prova. Dopo un po’ lui si sperimenta in un organetto a due bassi. “(espérame despierto)” non ha grandi pretese, né si fa portavoce di messaggi importanti, è uno spettacolo intimo che mette in danza una controversa vita di coppia. E lo fa bene perché i due interpreti (Eloísa Cantón e Juan Luís Matilla) sono bravi e sanno piegare il proprio corpo alle esigenze della drammaturgia: si intrecciano, si fondono, si prestano l’un l’altro braccia, gambe, spalle. E, anche se alle volte è prevedibile e non troppo incisivo, resta gradevole, poetico: intrattenimento di ottima qualità.
“Kohkuma 7º sud” del coreografo Serge–Aimé Coulibaly è invece uno spettacolo denso di elementi in cui si mischiano le simbologie, gli stili di danza e i linguaggi. I corpi dei danzatori (Yiphun Chiem, Lacina Coulibaly, Adonis Nébié e Sayouba Sigué) passano violentemente dalla rilassatezza agli spasmi, sembrano compiere una lotta interiore dura e solitaria. Sono compresenti sul palco, ma si esibiscono in degli aspri assolo. I momenti d’ensemble sembrano accadere malgrado loro. D’altronde quello in cui si muovono gli interpreti di “Kohkuma 7º sud” è un luogo di incontro ma anche di segregazione: un campo nomadi, dove si sta insieme per forza, non per scelta. Si convive senza condividere nulla, senza dialogare. “Kohkuma 7º sud” di contemporaneo, oltre alla commistione dei linguaggi, ha la denuncia della società contemporanea. Tutti gli elementi sono ben equilibrati: la danza, le immagini proiettate, la musica dal vivo di Sana Seydou, sorta di griot in questa fiaba per la scena che sembra fuori dal tempo, sebbene i tanti riferimenti scenografici la calino in contesto ben individuabile.
Il maestro Ko Murobushi sceglie ancora un’altra via per accedere al contemporaneo. Una linea retta che parte dalla tradizione e si ritrova, mutata, nel presente. La qualità dei suoi movimenti è quella del butoh: il suo corpo è una fascia di nervi e muscoli, controllati fino all’ultima fibra. Ko Murobushi si serve di quel linguaggio antico per dire delle cose nuove, anche se non sempre ciò che dice è davvero leggibile. Almeno non nel caso di “Inter-mezzo”, spettacolo creato ad hoc per il festival Equilibrio, da cui oltre a qualche immagine evocativa e all’ammirabile corpo scolpito che si muove quasi restando fermo, non trapela molto altro.
Insomma, al di là dei risultati, non sempre entusiasmanti, i 21 spettacoli scelti da Sidi Larbi Cherkaoui per questa VIII edizione di Equilibrio restano dei modi interessanti di declinare l’aggettivo contemporaneo. Ma il rischio che la varietà di linguaggi e modalità del contemporaneo (nella danza come nel teatro) si porta dietro è proprio questo: che l’“effetto sorpresa e novità” dei primi minuti incanti pubblico e programmatori, e poi quasi non ci si accorge che di lì alla fine dello spettacolo sulla scena accade poco e niente. E alle volte sembra che, anziché uno spettacolo, gli artisti si ripropongano di creare solo un linguaggio (il più possibile) nuovo.