tram latella valgoiRENZO FRANCABANDERA – MARIELLA DEMICHELE | In fisica, un fluido ideale è un fluido che ha densità costante e coefficiente di viscosità nullo. La più importante conseguenza è che se il coefficiente di viscosità è nullo, in un fluido ideale non vi sono sforzi di taglio. Alcuni liquidi comuni, tra cui l’acqua, hanno un coefficiente di viscosità molto basso e un modulo di comprimibilità molto alto. Ciò ci induce a considerarli fluidi incomprimibili e fluidi non viscosi.

Il parallelo ci consente di dire, e speriamo di esemplificarlo nel seguito, che il teatro, il punto di vista del grande regista, dell’autore, di per se stesso, non è un fluido ideale, in primis perché nel suo evolvere, di spettacolo in spettacolo, cambia di densità, di portata emotiva. In secondo luogo perché, diremmo quasi per assunto, non ha quasi mai una viscosità emotiva nulla.
Studiare e vivere il teatro dall’interno equivale, nella mia esperienza personale, a scorrere proprio la non idealità del fluido, a sperimentarne dunque le densità scostanti, la maggior o minor viscosità e l’intrinseca capacità di essere trapassato con maggior o minor facilità, a galleggiare su questo fluido variabile e non ideale, e capire, però, come tutto sia in grado di discendere da quanto precede, da quanto scorre a monte.
Poniamo il caso de Un tram che si chiama desiderio, produzione 2012 di ERT, che ha debuttato giovedì 16 febbraio 2012 a Modena e che abbiamo visto ad Imola al teatro Ebe Stignani (ma a breve anche a Pavia, Taranto, Catania, il cui stabile coproduce lo spettacolo).
Il testo di Tennessee Williams, nella regia di Antonio Latella, viene affidato ad una squadra di interpreti che hanno avuto quasi tutti a che fare con Latella, sono già stati immersi nel fluido dell’artista campano. Si tratta di Laura Marinoni (che torna dopo il grande successo de Le lacrime amare), Vinicio Marchioni (unico nuovo acquisto del gruppo) , Elisabetta Valgoi (Trilogia della villeggiatura, Lear), e gli storici interpreti Giuseppe Lanino, Annibale Pavone e Rosario Tedesco, che accompagnano almeno da un quinquennio il regista.
Le scene di Annelisa Zaccheria raccontano di una casa sventrata, di cui sopravvivono alla vista dello spettatore suppellettili con anima di legno, a segnare un ambiente rurale ma meccanico, sufficientemente spersonalizzato e asettico. La scena è già visibile allo spettatore all’ingresso, insieme ai grandi fari posizionati qui e lì in scena e collegati da grandi cavi elettrici a vista. Cosa potrà dunque venir fuori da questo teatro elettromeccanico? Forse un Williams spersonalizzato e decostruito? Il gioco di Latella nel primo atto è proprio questo, riprendere ed esasperare il rapporto con le didascalie, il sottotesto con cui già ne La trilogia e nel Lear con Albertazzi si era confrontato, per arrivare a distillare quel processo, tendendo ad annullare la densità testuale ma spingendo lo spettatore a vivere l’intrinseca viscosità della scena, l’attrito, il fastidio di una situazione, quella drammatizzata in cui, come Laura Marinone costretta per tutto il primo in un metro di spazio agìto, si trova schiacciato da una vicenda dal tratto disumano.
La storia (almeno quella nella rilettura di Latella, che rovescia i punti di vista) è quella di una donna (Marinone), che bruciata l’eredità familiare, raggiunge l’altra (Elisabetta Valgoi), sposa di un violento ragazzo di origine polacca (Vinicio Marchioni), turbando i loro equilibri familiari proprio mentre aspettano un bambino. Nascerà un amore con un amico di lui (Giuseppe Lanino), fra un passato da dimenticare e un futuro che non prende luce e che vira sui toni della follia. Una figura asettica di medico psicanalista (Rosario Tedesco) assiste, guida, suggerisce sottotesti e battute, in un clima denso, a tratti impenetrabile, in cui la drammaturgia, scarnificata, decostruita e ricomposta, lascia la mano allo spettatore, che arriva alla fine del primo atto con una serie di dubbi che riguardano tutti gli aspetti del fluido artistico in cui è immerso.
Ma come chi insegna a nuotare, come chi deve segnare i confini e le regole della propria grammatica, ecco che Latella nel secondo atto riprende lo spettatore per mano, con maestria e lo riconduce nelle pieghe più drammatiche del testo di Williams, addensando il fluido ma riducendo di colpo l’attrito, proprio a dimostrare come tutto possa continuare ad essere la stessa materia, essendo in realtà tutt’altra.
Lo spettacolo è una prova di grandissima abilità sia della regia che degli attori, con la Marinone e la Valgoi a scandire il perimetro di una femminilità deprivata e quasi ferina.
I costumi di Fabio Sonnino e le luci di Robert John Resteghini trasferiscono questa America pop in un continente di cui tutti, dagli anni Ottanta in poi, facciamo parte, con la colonna sonora di chitarre figlie del blues e di riff noti, come quelli irresistibili dei Led Zeppelin, e che sono nel primo atto le uniche ancore di salvataggio emotivo che lo spettacolo lancia allo spettatore disorientato.
Il secondo atto è un capolavoro di psicologia, del rapporto regista-scena e regista-spettatore. Ma non potrebbe esistere senza il primo atto, come nessun lieto fine può arrivare senza traversie, ammesso che lieto fine sia, quello de Un tram che si chiama Desiderio nella lettura di Latella.
(Renzo Francabandera)
Intensa prova di Laura Marinoni, capace di esprimere la complessità psicologica di Blanche Dubois, in una messa in scena che abolisce ogni riferimento realistico per recuperare la dimensione fortemente simbolica del testo teatrale.
Scheletri di mobili invasi da cavi elettrici e riflettori, in un angolo una vasca da bagno con le pareti rivestite di plastica trasparente azzurra, sullo sfondo una porta che si apre e si chiude continuamente, fragile confine con il mondo esterno. Uniche note di colore un paralume rosso e, accanto, il nero di una poltroncina in pelle.
Così si presenta la scena dello spettacolo “Un tram che si chiama desiderio”, con la regia di Antonio Latella, prodotto da Emilia Romagna Teatro con lo Stabile di Catania, che ha appena concluso le sue repliche al teatro Argentina di Roma.
L’ambientazione è volutamente non realistica: Latella si è infatti ispirato a Williams il quale affermava che “i simboli non sono altro che il linguaggio del dramma, la più pura espressione del teatro”. E così, il luogo dell’azione diventa la mente di Blanche Dubois, uno dei personaggi più controversi della storia teatrale del Novecento. L’ambiente domestico diventa allora ambiente psichico e gli oggetti in scena, nell’allestimento di Annelisa Zaccheria, perdono la loro “funzione d’uso” – spiega Latella – “per diventare proiezioni della mente di Blanche” che, in un crescendo ossessivo, ripercorre gli episodi che l’hanno condotta alla follia.
Funzionale a questo approccio è la scelta del regista d’invertire la narrazione rispetto al testo originario; qui, infatti, il medico che nel finale porta via Blanche compare all’inizio e, nel ruolo di narratore, ci introduce nella storia, ci trasporta in quel pomeriggio azzurro di maggio in cui Blanche compare per la prima volta in Via dei Campi Elisi, in un quartiere popolare di New Orleans. Costretta dai debiti e dalla vergogna per il suo decadimento economico e morale a abbandonare il suo paese d’origine, cerca rifugio presso la sorella Stella che vive in un piccolo appartamento con il marito Stanley, un giovane immigrato polacco, rude e dalla sensualità dirompente.
Un matrimonio inspiegabilmente felice che viene messo in crisi dai modi sofisticati di Blanche, dalle sue continue critiche a Stanley edall’incapacità di capire cosa possa legarlo a sua sorelle. Invano Stella cercherà di spiegarle che “ci sono cose che succedono al buio tra un uomo e una donna che rendono sopportabile tutto il resto”; eppure, Stanley la turba, risveglia in lei qualcosa di animalesco che invano l’educazione puritana ricevuta e subita in famiglia aveva messo a tacere. Si prova allora compassione per le continue bugie di Blanche: sono il suo modo di proteggersi da una realtà dalla quale si sente attratta, pur giudicandola volgare, troppo “ordinaria”. Proprio come Kowalski, con il quale, fin dal primo incontro, comincia un gioco di attrazione e repulsione, una schermaglia che alterna la seduzione alla violenza verbale e fisica. In questa inadeguatezza di Blanche ad accettare la vita nel suo spietato realismo c’è la radice della sua follia, atto estremo di difesa.
Tutta la prima parte dello spettacolo scorre senza suscitare forti emozioni e non mancano momenti di vera e propria irritazione per l’improbabile accento slavo di Stanley, per l’invadenza del dottore/narratore e per il generale stato di eccitazione, algido e cerebrale, che pervade gli attori sulla scena. A questo si aggiunga l’effetto di straniamento ottenuto mediante l’uso delle luci, azionate direttamente in scena dagli attori con frequenti puntamenti in platea, e dei microfoni, che amplificano e distorcono le voci.
Solo alla fine del primo atto, quando le luci si abbassano e comincia il primo monologo di Blanche, abbiamo l’impressione di uscire da una condizione di sgradevole distanza e di respirare con lei l’atmosfera sospesa di un piovoso pomeriggio a New Orleans, quando “un’ora non è più un’ora, ma sembra un’eternità” e ci sembra di scorgere con i suoi occhi Mitch, all’angolo dell’isolato, con un fascio di rose tra le braccia.
Ed è proprio questo personaggio, interpretato da Giuseppe Lanino, che nel secondo atto sostiene e valorizza l’impegnativa prova di recitazione di Laura Marinoni, anche grazie alla generosità e al garbo con il quale ha affrontato una scena scabrosa che rischiava, con il suo crudo realismo, di infrangere l’atmosfera onirica della narrazione. Il gruppo in scena, costituito da attori che hanno già lavorato con Latella e hanno assimilato la sua lezione – oltre alla Marinoni e a Lanino, Elisabetta Valgoi, Annibale Pavone e Rosario Tedesco -, appare affiatato, coeso. Unica eccezione Vinicio Marchioni, nel ruolo di Stanley: forse perché nuovo, forse perché ancora alle prese con la ricerca di un personale stile interpretativo, non ci è sembrato del tutto a suo agio nelle battute, che spesso ci sono arrivate finte, artificiali, prive di intenzione
(Mariella Demichele)

Il disegno è di Renzo Francabandera

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