copertina-Noir-Clair-a-coloriMARIA CRISTINA SERRA | E’ raro, nel grande susseguirsi di eventi, imbattersi in una mostra che dall’idea iniziale, al titolo, ai contenuti e fino al suo svolgimento, riesce a mantenere tutte le promesse, ponendo su una stesa linea di orizzonte le ragioni del cuore, della mente e dell’occhio. Obiettivi centrati nell’expo collettiva “Noir-Clair”, presentata alla Galleria Vanessa Quang, una meditata riflessione sul tema del Nero, analizzato come colore e materializzazione di stati d’animo; come necessità interiore di essere parola chiave, filtro, passaggio nascosto fra le tenebre per arrivare alla comprensione della luce. Uno sguardo da un’angolazione particolare sull’Arte e sulla Vita, nato da una conversazione, l’inverno scorso, fra Barbara Polla e Victor de Bonnecaze, che strada facendo si è sempre più riempita di contenuti etici. Sfuggendo da tracciati lineari, “l’elogio del Nero” si è manifestato in tutta la sua complessità: sintesi di tutti i colori, punto d’incontro degli estremi, simbolo ambivalente di lutto come di eleganza, passando per le strettoie del Grigio, il dubbio e l’incertezza, prima di approdare al Chiaro, attraverso un processo che ha il valore di una poetica e consapevole presa di coscienza sulla perenne dualità e fragilità delle cose.

“Perché il nero non è mai esclusivamente nero. Perché il chiarore permette di vedere, percepire, distinguere, dentro il cuore del nero: è ciò che ci fa uscire dal buio “, ci dice la scrittrice e gallerista Barbara Polla. Le intenzioni teoriche che hanno guidato i curatori sono preannunciate dalle parole di Shakespeare, “L’uomo che non medita, vive nella cecità, l’uomo che medita vive nell’oscurità. Noi non abbiamo che la scelta del Nero”; e anche con quelle di Victor Hugo: “L’inchiostro questo scuro da cui nasce la luce”.

Suggestioni che, dopo aver alimentato il complesso progetto, ora ci accompagnano, mentre ci aggiriamo nell’elegante spazio di un ex-manufatto industriale, collocato in fondo ad una stradina nel quartiere del Carreau du Temple, nel Terzo Arrondissement.

E’ Mounir Fatmi a iniziare il filo del racconto, gettando un ponte ideale per unire due culture, l’orientale delle sue origini e l’occidentale dei suoi vissuti, e due religioni: la musulmana e la cristiana. S’impone immediata la forza espressiva del suo “Angelo nero”, ispirato alla “Guarigione del diacono Giustiniano” del Beato Angelico. Il miracolo di Cosma e Damiano, che sostituiscono la gamba malata di Giustiniano con quella sana di un etiope deceduto, nella rivisitazione di Fatmi diventa paradigma di una grammatica artistica capace di narrare in modo sublime le strutture profonde dell’esistenza. “Io non ho bisogno di radici”, spiega l’artista, “la memoria è sufficiente” tramandata anche dalla scrittura, vergata con inchiostro scuro, che fissa le parole del presente per mantenere vive quelle del passato. A queste si affiancano vecchie immagini di un Tempo da non disperdere e da ritrovare, impresse in pellicole ormai obsolete. In un moto dell’anima, privo di barriere temporali o stilistiche, la frase pronunciata da Goethe in fin di vita, “Mehr Licht” (“Più Luce”), gli ispira l’installazione “Ein Grab für die Farbe Schwarz”, un lungo sarcofago trasparente, ricolmo di matasse nere lucide, aggrovigliate fra loro in modo indissolubile, nastri di vecchie registrazioni ormai fuori uso, frammenti di un passaggio epocale fra realtà analogica e digitale, che l’artista raccoglie come un archeologo della contemporaneità, per depositarli in uno speciale archivio della conoscenza.

 
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=0AJAz9sTyIE]

un’intervista ai curatori su ArteMediaChannel

La sottile velatura d’ombra che separa la luce dal buio è simbolicamente e liricamente rappresentata dalla poetica sequenza del “Ciclo delle lune” di Martin Lord, che scandisce il tempo senza misurarlo. Le frasi lapidarie sulla follia della guerra, che tutto distrugge e paralizza, sono lanciate come dardi per smuovere le coscienze dall’artista “Post-Situazionista” britannico Robert Montgomery, messe nero su bianco, in sequenze scioccanti, come trasposizioni plastiche di anime ferite. “Poesie sulla pace, sulla guarigione, sulla rigenerazione, come se le idee fossero scritte in un regno spirituale piuttosto che intellettuale”. Delle finestre spalancate sul caos del mondo, per far entrare la chiarezza di una visione utopica, ma anche realistica, di un nuovo Umanesimo privo di violazioni. Senza sovrapposizioni e con codici diversi, sfiorando le stesse tematiche pacifiste, le “Immagini per la pace che disegnano la guerra”, splendidamente disegnate da Tonino Cragnolini, fondono insieme il rigore dell’intelligenza con la lievità dell’immaginazione. Le sue architetture visionarie tracciano voli acrobatici sulle tele, eseguendo combinazioni di trame attinte dalle antiche leggende della sua terra, il Friuli, in un gioco incrociato di destini che dal Medio Evo viaggiano nel Tempo per svelarci la loro attualità; le tenui luci lontane rischiarano le tenebre, sottraendo peso al dolore per farlo specchiare in frammenti di evanescenti consolazioni.

In sedimentazioni ripetitive e illuminanti, “Una giornata perfetta” di Julien Serve racconta il mondo nell’arco temporale di 24 ore, frazionato in lanci continui di agenzie stampa, che ogni giorno si perpetuano con ossessività sempre uguale. “Certe realtà che disegno”, spiega l’ideatore della installazione, “come la violenza, la morbosità, io non posso né viverle né ammetterle, ma le disegno in modo da poter occupare così il mio posto in un mondo inconcepibile”. Il gran senso di accoglienza che si avverte all’interno dello spazio espositivo a misura d’opera, grazie agli arredi sparsi e al senso di comunicabilità in verticale del piano terra con quello sotterraneo e con il ballatoio, favorisce una connessione intima fra spettatore e opere. Lo sguardo riesce a districarsi senza fatica tra una prospettiva e l’altra. Anche le pause, i vuoti, i cambiamenti repentini, sono sollecitazioni vibranti di energie liberate, che si muovono fra le astrazioni di Andrea Mastrovito, le equazioni fra sogno e realtà di Jean-Michel Pancin, le inquietudini di Mat Collishaw. Come un’isola da esplorare irrompe sulla scena il Rosso, il colore della passione, con le sue variabili possibili: sfumato con il rosa nelle favole dai risvolti crudeli di Françoise Pétrovich; mischiato fra i colori vivaci nel mondo sanguigno di Lucien Murat, che ricorda Bosch; alternato ai delicati toni pastello di Fabrice Langlade. Senza così mai perdere la tensione per un racconto che prosegue oltre l’expo nella lettura del libro “Noir-Clair dans tout l’Univers” (Ed.La Muette): una raccolta di saggi, scritti da Barbara Polla, Victor de Bonnecaze, Régis Durand, Philippe Hurel, Jean-Pilippe Rossignol e Rémi Tomaszewski, che riunisce in un arabesco incantato letteratura, arte, musica, teatro, filosofia. Un labirinto di connessioni e riferimenti in cui perdersi per poi ritrovarsi con un “Diamante nero” fra le dita, sfaccettato e dalla brillantezza oscurata, così come è la vita.