Mercuzio 3LAURA NOVELLI | Cogliamo l’occasione del laboratorio teatrale “Mercuzio e altri personaggi mancanti” che Armando Punzo terrà alle Manifatture Knos di Lecce dal 25 al 29 marzo (nell’ambito del progetto “Io ci provo” della compagnia Factory) per raccontare qualche impressione sull’ultima fatica di un regista/simbolo della nostra scena contemporanea: anima di quella felice esperienza artistica e sociale che è La Compagnia della Fortezza di Volterra. L’ultima regia di Punzo si intitola appunto “Mercuzio non vuole morire” e già nel titolo – implicito il riferimento al “Romeo e Giulietta” – evoca una spontanea corrispondenza con l’imminente iniziativa pugliese, soprattutto in riferimento a quei “personaggi mancanti” sui quali si è concentra la ricerca di ambito shakespeariano condotta dal regista campano negli ultimi anni (basti considerare il precedente “Hamlice”, connubio tra Amleto e Alice).
Lo spettacolo, debuttato al festival di Volterra di quest’estate e visto al Palladium di Roma qualche settimana fa, non è uno spettacolo vero e proprio. O meglio, rappresenta secondo noi un’operazione che, nata per “invadere” letteralmente lo spazio urbano di Volterra coinvolgendo i cittadini e trainando la sua stessa aspirazione artistica fuori dall’istituto penitenziario in cui la Fortezza opera e crea, molto ha a che fare con la festa barocca: un montaggio traboccante di materiali (sonori, visivi, fisici, poetici) che si allontana dall’enigmatica essenzialità del teatro per abbracciare l’idea popolare – a tratti persino populistica – di un comizio in difesa della Poesia, del Sogno, dell’Arte, della Cultura: evento in cui, al di là della partitura testuale e della prova attoriale, contano soprattutto l’insieme, il coro, l’estemporaneità di un’esperienza da fare ora e insieme (teatranti, cittadini e spettatori) che stratifica, somma, moltiplica presenze e prospettive al fine di celebrare, attraverso Mercuzio, i Don Chisciotte di ogni tempo. Motivo per cui anche le repliche al chiuso previste nella capitale (e inserite nel più vasto contenitore “La provincia in scena”) hanno visto la collaborazione di tanti cittadini del quartiere Garbatella, reclutati per moltiplicare, ad esempio, il personaggio di Giulietta o per dare fisicità al popolo di Verona o , più simbolicamente, per inserire una tessera di presenza sospesa tra l’umano e l’artistico  (come ad esempio le splendide bambine in tutù o i piccoli musicisti). Anche al pubblico, accerchiato da continue “attrazioni” e innumerevoli sollecitazioni attinte all’arte figurativa,  è stato richiesto di indossare un guanto rosso (la mano che uccide, metaforicamente, l’ingenuità del bello e giusto) e di portare un libro caro, da sventolare come bandiera nel quadro più carnevalesco – ma anche più politico – della messinscena.

Dunque si capisce che questa operazione, scaturita dal bisogno di guardare alla tragedia di Shakespeare con il cannocchiale rovesciato verso le figure minori e verso quel concettoso Mercuzio destinato ad uscire presto di scena, e perciò, come direbbe Carmelo Bene, a diventare “o-sceno” e a segnare una perdita incolmabile per la tragedia stessa e per l’umanità, tenti una rivalutazione degli “ultimi” a più livelli: non solo i personaggi del dramma (tanto più che, a nostro parere, la parte migliore del testo shakespeariano è proprio la prima, quella fino alla morte di Mercuzio), non solo gli attori/detenuti del carcere di Volterra (una decina in scena, tra cui Aniello Arena), ma anche la gente comune, i bambini, i sognatori, chi crede nel senso (ancora  oggi) della cultura, del libri, dell’arte, delle parole. Punzo stesso si mette in gioco come una sorta di protagonista/demiurgo che recita, duella, legge, orchestra l’insieme azzerando la distanza tra sala e palcoscenico. Immergendo il lavoro in un pieno musicale ottimamente sostenuto da Andrea Salvadori (particolare plauso va al contraltista Maurizio Rippa).
Dissacrando epicamente ogni scampolo di finzione. Compiacendo l’atmosfera da festa, da concerto di piazza, da manifestazione popolare che questa drammaturgia sottende e pretende. Una scelta che ovviamente “apre” lo spettacolo a tanti varianti, a progressive inserzioni e modifiche, a continui innesti: un organismo vivo che cresce nel luogo e con il luogo in cui si radica.

Ma il rischio è quello di mettere troppa carne al fuoco, di con-fondere l’uditorio, di rendere fin troppo esplicito ciò che dovrebbe rimanere implicito, di restituire brandelli di testo slegati tra loro, di – paradossalmente – far distogliere l’attenzione (emotiva e cognitiva) del pubblico. Rimangono impresse battute come : “perché si vede che non ho paura”,  “vivere è di gran lunga più difficile”, “tutta la terra è un forzato di uomini con la testa rasata dal sole”, “sono il clown di Dio”. Il messaggio certamente è chiaro, arriva subito, è facilmente intuibile dopo la prima mezz’ora di spettacolo, per cui molta di questa abbondanza barocca finisce con l’essere didascalica.
E allora, rovesciando anche noi il cannocchiale, ci viene da pensare che questo “Mercuzio non vuole morire” vada letto essenzialmente come qualcosa d’altro rispetto al teatro, vada spostato l’insieme dei codici con cui lo si interpreta, vada spinto oltre lo spettacolo, dentro la vita reale. Fermo restando che, personalmente, sentiamo un po’ di nostalgia per lavori come “I Negri”  (’96) o “I pescecani, ovvero quel che resta di Brecht” (2003). Lì sentivamo la forza di una parola che si fa corpo, l’urgenza espressiva di uomini/attori avvezzi al dolore ma reattivi all’incontro misterioso con il pubblico, il sapore agro – o grottesco – di una scena pronta veramente a mostrare e distorcere la vita.

Alcune immagini video dello spettacolo nella versione di Volterra

           

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