continu-sasha waltzLAURA NOVELLI | Dinnanzi ad un capolavoro come “Continu” di Sasha Waltz non si può che restare ammirati, incantati, rapiti. Insieme alla raffinatezza formale, affidata a ventitré danzatori di diversa nazionalità che eseguono in modo perfetto una coreografia a quadri modulata su un’efficace alternanza di scene di massa e momenti più intimi, stacchi violenti e intarsi silenziosi, colpisce la sensibilità espressiva con cui la grande coreografa tedesca fa “parlare” i corpi restituendo, nel complesso della piéce, un universale messaggio di “pietà”. Il palcoscenico (quello dell’Auditorium Conciliazione che ha ospitato l’evento per il Romaeuropa Festival) è vuoto.
Abiti e luci prediligono le tinte fredde: colori non colori che vanno da nero al bianco al beige e al marrone. Si danza l’idea del dolore, della sopraffazione, della guerra, della morte. E lo si fa in una cerimonia compassata, visionaria, ancestrale, dove l’impianto classico, imbastito però su musiche del ‘900 (per lo più attinte al repertorio del greco Iannis Xenakis e del francese Edgar Varèse), sembra voler tradurre in una fisicità fluida e trasformabile la fissità statuaria della Storia e dell’Arte.

Non è un caso che questa magnifica opera nasca, nel 2010, come terza tappa di un percorso creativo che ha visto la Waltz firmare due installazioni site specific concepite per due importanti musei europei quali il Neues Museum di Berlino e il MAXXI di Roma. E’ da questi due spazi espositivi, dalle loro architetture, dalle collezioni che ospitano, dallo spirito che li attraversa che scaturisce l’idea di una composizione ispirata essenzialmente all’arte antica, alla pittura egizia, a reperti preistorici, a incisioni tramandateci su oggetti di milioni di anni fa. Ed è proprio tale richiamo all’antico a plasmare l’eleganza statuaria dei movimenti geometrici e composti che vanno via via disegnando questo tuffo nell’umano. Movimenti ciclici eppure sempre primigeni, leggiadri e insieme forti, sensuali e al contempo duri. Mai però l’orchestrazione d’insieme cede al didascalico, all’archeologia, al richiamo esplicito. Motivo per cui è proprio questa straordinaria capacità di sublimare e personalizzare una materia tanto lontana nel tempo a costituire uno dei più raffinati pregi di “Continu”. Perché se, da una parte, la coreografa si allontana enormemente dalla concretezza e dall’ironia riscontrabili in altri suoi titoli (basti citare quel “Travelogue I – Twenty to Eight”, spettacolo del ’93 riproposto l’anno scorso all’Eliseo sempre nell’ambito del Romaeuropa, di cui avevamo scritto sul numero del 16 ottobre di www.paneacqua.info), dall’altra, ci consegna una visione allusiva della parabola umana, del costante bisogno di violenza (e amore) che la attraversa, assorbendo l’antico nel moderno e raccontando con astrattezza classicheggiante l’eterna trasformazione dell’uomo, della vita, del mondo.

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Il primo quadro è già emblematico in tal senso: alcune danzatrici vestite con un lungo abito nero abitano lo spazio primitivo e funesto evocato dalle percussioni suonate dal vivo e sembrano preannunciare, nelle loro movenze larghe e a tratti nervose (tanto da ricordare lo stile di Pina Bausch ma anche quello di Marta Graham), l’ambivalenza “storica” che attraversa il lavoro: la sensualità della scena successiva cede, infatti, subito dopo ad una cruda visione di esecuzione con quel “pam pam” solennemente recitato sotto i cui tiri cadono i corpi, uno dopo l’altro. Ma ecco poi la seconda parte aprirsi su uno scenario del tutto nuovo. In una terra desolata dal biancore accecante una danzatrice esegue un assolo in costume. C’è qui un forte contatto con la terra (sottolineato anche dai colori degli abiti), con il basso, con l’animalità: qualcosa di ctonio che accomuna anche le scene corali successive. I corpi si legano tra loro. Uomini e donne si incontrano e si scontrano, fino alla cerimonia sacra introdotta da tre figure femminili trasportate in scena sulle spalle dei partner. Sono loro ad aprire gli ultimi, vitali, momenti della pièce, laddove i piedi dei danzatori disegnano sul palcoscenico bianco strisce, cerchi, righe, figure geometriche dai colori lividi e cupi. Un tappeto di segni, di antichità moderna, di morti e rinascite che – siamo all’epilogo – si arrotola poi su stesso come un sudario di dolore. Un arazzo di vergogne umane da cui ripartire.