castellana bandieraCARLA RUSSO | “Più che una strada, Via Castellana Bandiera è un budello a doppio senso in cui, se due auto si incrociano, una deve per forza cedere il passo…”. Con queste parole si apre la prefazione del romanzo d’esordio di Emma Dante, “Via Castellana Bandiera”, edito da Rizzoli nel 2008, che ora è diventato un film, con la regia della stessa autrice alla sua opera prima cinematografica e che le ha permesso di sbarcare a Venezia per la 70° edizione del Festival, dove Elena Cotta si è aggiudicata la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile.

Cambia il medium, ma la mano della Dante ripropone sullo schermo i topoi della sua scrittura drammaturgica. La famiglia, luogo ambiguo in cui si sviluppano odio, opportunismo, costrizione, esemplarmente dipinta dalla regista negli spettacoli della sua Trilogia della famiglia siciliana (mPalermu, Carnezzeria, Vita mia). L’omosessualità, che genera esclusione e desiderio di fuga, tematica esibita e sviscerata senza tabù a più riprese. E soprattutto la poetica del silenzio, ricercato e ostentato (non vi è musica nel film, tranne che nel finale), affinché possa emergere la musica della vita, fatta di rumori, parole, respiri. Un silenzio paradossalmente assordante accompagna il caparbio duello tra Samira (Elena Cotta) e Rosa (Emma Dante) a suon di clacson, di sguardi feroci, di gesti provocatori che, a mano a mano, livellano le vite delle due donne, rendendole partecipi, per molti versi, di un comune destino. Si respira aria di Sicilia ad ogni frame che scorre dinanzi agli occhi. Sembra di sentirlo sulla pelle il vento rovente che con forza s’insinua in ogni vicolo, ricoprendo ogni cosa con la polvere che solleva. Non bastano l’acqua e i tergicristalli azionati da Rosa a ripulire e a fare chiaro. Tutto è annebbiato, la vista, i cuori, le vite stesse. Samira e Rosa, una di fronte all’altra, due straniere in terra straniera, vittime di un sistema da cui entrambe attuano un piano di fuga. Rosa sceglie un’altra città, Milano, in cui vivere liberamente la propria omosessualità. Samira si consegna alla morte, sottraendosi così ai giochi manipolatori dei suoi parenti acquisiti. Donne che rivendicano la propria libertà attraverso scelte estreme, assurde, mosse dalla caparbietà di chi “ha le corna più dure” e non è disposto a cedere, a lasciarsi “passare sopra” per l’ennesima volta.

La prospettiva della macchina da presa ci offre, in più occasioni, i protagonisti “di spalle”, come il Kantor de La macchina dell’amore e della morte la cui visione al Biondo di Palermo folgorò la giovane Emma Dante (nel lontano 1987) che, in quell’occasione, decise che non le interessava fare “certo teatro” e che preferiva fare come lui: dare irriverentemente le “spalle al pubblico” e fare ricerca. Le riprese restituiscono il movimento delle auto e dei protagonisti, con un effetto di realtà che rimanda a tanta poetica cinematografica, dal neorealismo alla Nouvelle Vague (come non ricordare le inquadrature della coppia Belmondo-Seberg in auto e a spasso per gli Champs-Élysée in À bout de souffle?).

Gli specchietti retrovisori catturano volti, cose, paesaggi come un prisma che, con le sue molteplici facce, raccoglie frammenti di realtà per restituirceli in una sintesi visiva percepibile in un solo colpo d’occhio. Dettagli essenziali di una realtà filtrata che lascia precipitare, come macigni, verità/immagini scomode e dolorose.

“Com’è sula sta’ strata”, intonano i fratelli Mancuso, mentre il film scivola verso il finale. Tutto è compiuto, il duello ha visto solo vinti sulla scena ed ognuno abbandona il proprio “rifugio” omertoso per accorrere ad assistere all’ennesima tragedia giunta al suo inesorabile epilogo.

Film metafora di una Sicilia (o Italia?) immobile, atavica nel suo ristagnare imperturbabile, dove i ritmi sono scanditi dall’eterna lotta scatenata in nome di diritti da far prevalere, di soldi da intascare disonestamente, di vite da maltrattare fino all’ultimo spasimo.

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