CLARISSA VERONICO | Ancora mi capitava di chiedermi cosa è teatro e cosa non lo è. Un tormentone tutto mio e nel difficile compito di dissimularlo, soprattutto agli spettatori che invece si pongono proprio altre domande e che io, proprio io, avrei invece il compito di stimolare a vederlo il teatro, in giorni strani, in mezzo alla settimana, fuori orario, a biglietto ridotto, a biglietto di cortesia, in coppia, in gruppo, attraverso newsletter, partecipazioni a eventi fb, sorprese regalo e tutta una stimolazione dell’offerta già antica, che proprio non ce la fa a stare al passo con la complessità delle ragioni e delle necessità che mi spingerebbero a dire un semplice “vieni”, proprio così, alla seconda persona singolare. “Vieni tu”, che non c’è più un gruppo, una comunità, una collettività. Che di quello abbiamo parlato e ragionato tanto e potremmo farlo ancora per anni, ma adesso vieni tu e basta, che si sta bene e che comunque dopo ne possiamo parlare.
Ma per mettere in ordine le cose riepilogo. Un non più giovane attore-performer-musicista-tecnico, un amico sopratutto, mi invita a vedere “Pietre blue’s”. Siamo ancora nel sottoscala di un’associazione, siamo ancora in venti, si possono mangiare polpette marocchine con un bicchiere di vino e c’è lui, che per la cronaca è Nicola Eboli, con una sedia, una tinozza e una chitarra. Pietre inizia come una specie di flusso di parole, c’è Ulisse forse di mezzo, ci sono sicuramente delle sirene ammaliatrici e Circe, c’è molta Grecia e molto mare, e ci sono tante parole che non riescono a comporre nella mia testa un unico filo conduttore. C’è soprattutto una chitarra, ogni tanto la prende e suona. La suona bene, a tratti canta. Poi eccolo un momento di teatro. Piedi nell’acqua della tinozza, un mazzolino di fiori in mano e un addio o un arrivederci struggente e comico. Pietre finisce. Ulisse se ne è andato ubriaco e non aveva voglia di tornare a nessuna pietrosa Itaca. L’atmosfera è serena, calda, peccato che non si possa fumare altrimenti saremmo davvero in Grecia. Mi chiedo se è teatro. A guardarmi intorno direi che me lo chiedo solo io, perché i venti spettatori presenti erano semplicemente lì in quell’atto. Mi viene in mente che forse è blues, forse è jazz o è rock and roll. Poi ricordo frammenti di un viaggio greco. Da poco avevo letto il libro di Vinicio Capossela, Tefteri, e girando per le strade di Lefkada aveva cercato con un’ottima guida un locale dove si suonasse Rebetiko. Anche lì c’era un bar e questa strana musica di nostalgia, rabbia e periferia. Poi per tutta l’estate la mia guida aveva stretto amicizia con ristoratori e baristi da isola, quelli che a novembre tornano ad Atene e fanno tutta un’altra vita e che nei bar per turisti ti sparano la musica pop. Appena gli nominava il Rebetiko lo abbracciavano e gli offrivano da bere e dicevano, in greco inglese italiano, che quello è il vero rock.
Ecco Pietre mi ha fatto pensare al rebetiko. Anche lì per ascoltarlo si scende in un sottoscala, si beve vino, e si sta lenti lenti ad aspettare un’emozione che dipende da te. Che musica è? Io non lo so dire. Che teatro è? Teatro rebetiko d’occidente forse.
Altro giro altro bar. Trovo il neonato collettivo L.E.S.O (all’anagrafe gli attori Leoci, Eboli, Stella, Ocelli) in “Parvemi udire uno sparo”. Stretti stretti in una saletta annessa a bar in voga nella città vecchia 4 attori in accappatoio sono incorniciati nel più classico esercizio da teatro generazionale: provare Shakespeare. Tra battute, improvvisazioni e finti litigi, ognuno ha il suo pezzo ben fatto. C’è Otello e il suo rimando a una fidanzata un po’ leggera, c’è Riccardo in occhiali da sole, Amleto e le sue noie. Sono bravi, Francesco Ocelli veramente molto bravo. Si ride di gusto, si segue bene, e poi a sorpresa parte un mimato e esilarante “ Stai, stella stai su di me” di Umberto Tozzi ed è l’apoteosi. Si può fare solo in un bar forse un teatro così, mi chiedo nel solito tormentone. Ne sono quasi sicura perché qui il pubblico gli sta addosso. Gli attori lo sentono respirare, devono chiedere permesso tra le sedie per fare qualche movimento di scena, devono chiedere al barista di accendere le luci di sala per parlare con le persone. Ma le persone non lo sanno. Stanno semplicemente lì.
Poi a teatro ci vado veramente. Nel teatro che è anche un po’ mio. Al Nuovo Teatro Abeliano c’è “In fondo agli occhi” di Berardi Casolari. Con Gianfranco Berardi avevo parlato tanto dei bar e della loro ricerca in giro per l’Italia a sentire storie, conoscere persone, chiedersi cosa pensano e cosa vedono. “In fondo agli occhi” è nato così, in giro per l’Italia due anni e ne ha conservato la storia di Italia e Tiresia e del loro micro-macro cosmo italiano e perso. Di quei bar sulla scena non c’è quasi più niente. Una scelta di Cesar Brie che ne ha curato la regia e che è meno fissato di noi con i giri da caffè corretti forse. Ma dei bar c’è la rabbia, le bugie, i dubbi, le paure. Dei bar c’è il tutti e il nessuno. C’è l’io in prima persona, il loro che stanno fuori, il noi che viviamo la stessa condizione. E di teatro c’è soprattutto un piacere dello sgaruppamento, della non confezione, dell’imperfezione a favore di una verità più profonda, di una domanda senza risposta, di una contraddizione. C’è la poesia, la provocazione diretta, la ripetizione a tratti. Alla seconda replica dello spettacolo, quando già tra il pubblico non ci sono più gli amici pugliesi di Berardi che approfittano delle poche repliche regionali per fare centinaia di chilometri in lunghezza, gli applausi sono lunghissimi e sentiti. Sono spettatori normali. Non un critico né un teatrante. Gente della parrocchia vicina, gente del quartiere, gente chiamata una per una con quel “vieni tu” . Che teatro è? Bah, quello che sta in fondo agli occhi, che sta fuori dalle regole, anche fuori dal marketing e che ti permette di essere lì, con lui e con te.
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