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Foto Clarissa Cappellani

LAURA NOVELLI | Ancora una volta Emma Dante ci tira dentro uno struggente quadro di umanità provata dal destino. Ancora una volta la sua Sicilia prorompe in scena con una ritualità ancestrale e violenta. Ancora una volta il sogno diventa incubo, il reale trasborda nel metafisico, la carnalità della lingua insegue un dire/raccontare/urlare sospeso senza tregua tra tragedia e commedia. Ancora una volta il corpo emana una sua verità assoluta e sacra che lo rende espressivo ben più e ben prima delle parole. Con “Le sorelle Macaluso”, ultimo lavoro della drammaturga e regista palermitana proposto al teatro Palladium di Roma nei giorni scorsi (prima di affrontare una lunga tournée ed approdare al prossimo Festival di Avignone), sembra di tornare indietro nel tempo, alla forza di spettacoli come “mPalermu”, “Carnezzeria”, e soprattutto a quell’intenso grumo di poeticità e dolore raccontato in “Vita mia”. Anche qui il tema – se così si può dire – è quello della morte; o meglio, della morte che si mescola alla vita confondendo le carte in gioco, quasi che i veri morti in fondo siano i vivi e quasi che sia impossibile tenere lontano i defunti, i cari estinti, dal quotidiano, dall’esistenza di chi ancora resiste.

Palcoscenico vuoto avvolto in una scatola di quinte nere che, nella loro semplicità, paiono come catafalchi funebri da cui affiorano ombre, drammi, morti premature, soprusi domestici, diversità fragili, legami di sangue compromessi eppure fortissimi. Una società matriarcale (d’altronde sempre al femminile era imbastita la lotta per la sopravvivenza fotografata nel film “Via Castellana Bandiera”) che sceglie per elezione di non separare i ricordi dal presente, i vuoti dai pieni. Sul proscenio: una fila di croci, una fila di scudi e spade rubate al teatrino dei pupi nascondono tombe, fotografie. L’ultimo lutto che ha toccato la famiglia è la scomparsa di Maria, la maggiore, ed è lei che, camicia e pantaloni neri, apre lo spettacolo ballando come una danzatrice classica. Dal fondo poi marcia il gruppo delle sorelle, dei parenti. Tutti neri come corvi minacciosi. Un crocifisso indica prepotentemente il senso di quel marciare, di quel cadere, di quel pianto trattenuto. Le suggestioni si susseguono contrastanti e la storia delle sette sorelle (superbamente interpretate da Serena Barone, Elena Borgogni, Italia Carroccio, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso e Leonarda Saffi), cui si aggiungono un padre redivivo e penoso, un nipote giovane stroncato da un colpo di cuore durante una partita di calcio e una madre eterea ed angelica scomparsa troppo presto (altrettanto bravissimi Sandro Maria Campagna, Davide Celona e Stephanie Taillandier), non può che procedere anch’essa per accostamenti contrastanti, brandelli di memorie in cui spesso le risa – talvolta sguaiate ed ossessive – trascolorano in lacrime di pietra.

La frenesia di una gita al mare con la corriera e il melone abbandonato per strada ecco mutarsi in morte: il gioco perverso sottacqua spalanca i sensi di colpa, trascina quel Fato maledetto (sembrano echi quasi verghiani) dentro le relazioni tra sorelle, le travolge, le fa confliggere. E la morte – declinata in scena anni fa pure in un intenso lavoro di Babilonia Teatri, “The End” – resta immortalata nel suo momento di epifania, diventa danza, gesto ripetuto, sussulto del corpo, tremore impaurito (tanto che l’annegata Antonella continuerà a vivere l’annegamento sino al termine della pièce/cerimonia). Così come nella scena della scomparsa del piccolo nipote malato di cuore: un Maradona tutto muscoli e piroette che cade a terra seguendo la partitura di un pupo senza più fili. Ebbene sì: siamo in un teatrino di pupari che muovono fantocci dalla sorte già segnata. Ma siamo anche in uno specchio impietoso delle nostre paure più ancestrali e profonde: intono a quella tomba filiale di “Vita mia” esorcizzata fino alla negazione; dentro quel thrénos dai richiami classici che trova ragione nel suo essere femminile e materno; dentro lo struggimento di quel tutù soffice che alla fine corona l’amarezza di un sogno mai realizzato. Di nuovo sola in scena, l’ultima defunta della famiglia lo indossa per la sua ultima danza. Che è già al di là della terra. Ma caparbiamente ancora qui.