sigariVINCENZO SARDELLI | Doppia regia di Alberto Oliva al Litta di Milano, con Il venditore di sigari di Amos Kamil e l’Enrico IV di Pirandello. Due facce della stessa medaglia, l’essere e l’apparire. E il nascondersi. Dietro la lucidità, sferzante e insinuante. Oppure nella riservatezza. Dietro un banco, l’anonimato. Oppure nella follia.

Comunica riflessioni sempre nuove Il venditore di sigari, bel testo dell’israeliano Kamil. Anzitutto il bisogno di indietreggiare di fronte alla Storia, di sospendere il giudizio su vittime e carnefici. O su quelli che, mentre l’Uomo affondava, s’aggrapparono al primo legno per galleggiare.

1947, la guerra è finita, Berlino si prepara alla lacerazione del muro. Ma le divisioni sono prima di tutto nell’anima, in chi prova a ritrovare solidarietà e dignità.

In una tabaccheria dell’ex capitale del Reich s’incontrano tutte le mattine, alle 6.30 in punto, due uomini dal passato intrigante. Gruber, ex soldato tedesco, ne è il gestore; Reiter, ebreo, ex docente universitario, è l’avventore.

Ogni giorno un nuovo round. Reiter attacca, velenoso, tagliente, compiaciuto di scuotere il tabaccaio. Gruber, schivo e introverso, sta in guardia. Oggi però contrattacca, con un crescendo sorprendente.

Il filtro del bancone separa i due. Con le vetrine (di Francesca Pedrotti) per scrutarsi di sottecchi in trasparenza o farsi da specchio. Un’inimicizia corpo a corpo basata sul sospetto. Colpi di vita. Un concentrato di filosofia, teologia e buon senso, alla ricerca di verità autorevoli. Nel tentativo (vano) di fissare torto e ragione, colpa e innocenza.

Una regia sobria. Le luci di Fulvio Melli tratteggiano notte che sfuma e giorno che avanza, voglia di dimenticare e bisogno di ricordare.

Spazio alla parola, gesti essenziali. I protagonisti, Gaetano Callegaro e Francesco Paolo Cosenza, trovano finalmente la propria dimensione attoriale autentica. Incontrano due personaggi che sembrano coincidere con la loro sfera umana e psicologica.

Reiter e Gruber c’inchiodano alle nostre mezze verità. Quando siamo in bilico. E il passato è zavorra che frena il futuro.

A proposito di passato. Proprio a Milano, al Manzoni, fu rappresentato la prima volta, nel 1922, l’Enrico IV con Ruggero Ruggeri. Un testo ancora attuale. Anche se il filone della follia è stato sviscerato nel frattempo in una miriade di sfumature, partendo da Ionesco e Beckett.

Dell’originale pirandelliano Oliva mantiene la struttura classica del genere tragico. Ne riprende il nodo (all’origine c’è una passione amorosa divoratrice), la peripezia (il capovolgimento della situazione iniziale: è proprio il pazzo Enrico a “giocare” i visitatori), il riconoscimento (della follia del protagonista).

Forse per insistere sulla connotazione gratuita e universale della follia, Oliva lascia sullo sfondo la catastrofe, cioè l’uccisione in scena da parte del protagonista del rivale Tito Belcredi (nell’originale Enrico dovrà continuare la parte del pazzo fino alla morte, per eludere le conseguenze di quel reato).

Non c’è catarsi: tutto si svolge sotto un cielo di carta, senza giustizia né destino. Come nel Venditore di sigari, la scena di pannelli girevoli (di Alessandro Chiti, con il contributo di Valentina Bianchi) traccia il confine tra desiderio di stabilità e peso della finzione. Le maschere le troviamo in scena. A nascondere il viso dei cosiddetti “normali”(i costumi sono di Marco Ferrara).

Enrico il pazzo è l’unico a non mascherarsi. Eppure le tracce della follia affiorano sottopelle. Sono un marchio indelebile anche per lui.

Enrico rivela la follia altrui senza liberarsi della propria. Anche questa regia è sobria. Oliva asciuga l’originale riducendone la durata. Focalizza l’attenzione sulle dinamiche umane ipocrite, sull’incapacità di riconoscersi. Ecco il ricorso a vetrate opache.

Un grigiore diffuso domina la scena. Le luci di Melli rischiarano rari barlumi di verità. Infieriscono con il buio sui meandri della mente, sull’angoscia, sui mostri generati dalla ragione che dorme.

Le musiche e i suoni di Bruno Coli creano belle ma effimere coreografie, con giochi d’ombre, movimenti divertiti o schizofrenici, danze che riproducono cavalcate, cenni di burattini inerti. Il tutto poteva essere potenziato. Ma Oliva non ha osato, per il momento, e va bene così. Incombeva il rischio opposto, di strafare, di eccedere in didascalie. Più spesso le musiche sfumano in sibili, che rendono insensatezza e devianza.

Generosa la prova degli attori (Davide Lorenzo Palla, Giancarlo Latina, Daniele Nuotolo, Sonia Burgarello). Efficace Mino Manni nel ruolo di Enrico.