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MARTINA VULLO | Dopo avere accorciato le distanze fra il pubblico bolognese e la Birmania  “non poi così lontana” di Aung San Suu Kyi, il teatro delle Albe ritorna nella Rossa per raccontare un’altra storia di resistenza, diversa e simile allo stesso tempo.

Il luogo è quello del teatro delle Moline, nella cui scena, per la regia di Luigi Dadina (interprete ed attore insieme a Michela Marangoni), si manifestano le presenze di due eroi vicinissimi geograficamente, ma resi distanti dall’oblio del tempo.

Si tratta degli spiriti di due anarchici ravennati, vissuti nella seconda metà dell’800: Maria Luisa Minguzzi e Francesco Pezzi. Due compagni di vita e di partito che si raccontano fra Amore e Anarchia.

Nel buio che avvolge la sala, la luce fievole delle candele al centro del tavolo ne illumina la superficie: a destra una caraffa d’acqua e due bicchieri in vetro, a sinistra dei taccuini neri. Ai due capi del mobile in legno, sono seduti l’uomo e la donna: si fissano immobili aspettando che gli spettatori prendano posto.

Il contesto è presto svelato: la voce fuori campo di una maestra che spiega la storia dell’unità d’Italia e il bisbigliare dei bambini che fa da sottofondo, indicano che ci troviamo in una scuola.

Luigi Dadina, Francesco e “Gigia”, li ha immaginati così: onnipresenti in un istituto elementare di Ravenna, ad osservare e commentare ciò che accade alle giovani generazioni, con lo stesso slancio, la stessa passione e la stessa ambizione che li caratterizzava in vita. Ancora sognanti, ancora idealisti, ancora fermi nella volontà di cambiare le cose.

I due con fare caricaturale assumono espressioni concentrate e seguono con interesse tutto ciò che accade in classe.

Lei: abito lungo nero, collo bianco e scarpe nere comode, è l’autrice del Manifesto a tutte le operaie di Italia. Loquace, ostinata, instancabile nel lavoro di sarta che anche da morta porta avanti con meticolosità. Cuce e scuce lo stesso grembiule per far passare il tempo e mentre se ne sta seduta con i suoi aghi, i fili, il ditale, la postura rigida e i capelli raccolti, sprona il compagno con simulata indifferenza.

Lui, Francesco Pezzi, in abito nero gessato, sembra invece riflessivo, distante… forse stanco, nel silenzio di un’espressività all’inizio affidata esclusivamente ai gesti.

Lei lo interroga su più aspetti: gli chiede perché si sia suicidato e perché mai a scuola non si parli di loro che la storia l’hanno fatta, fra proteste, manifestazioni, riunioni e moti rivoluzionari e senza temere sacrifici, confinamenti e carcere.

La storia, a dire il vero, l’hanno attraversata anche dopo la morte, dentro le mura della stanza cupa in cui i suoni si sono fatti spia di quello che accadeva fuori.

Hanno imparato a decifrarlo il mondo, distinguendo la notte con suoi rumori ambientali, dal giorno delle campanelle scolastiche e delle lezioni, ascoltando il rumore un tempo raro delle macchine, farsi nel tempo corale e seguendo attraverso il suono delle feste o delle bombe l’avvicendarsi di pace e guerre. Senza mai rimanere indifferenti.

Sono fantasmi: la loro natura è ulteriormente sottolineata dall’oscurità della scena (il chiarore costante delle candele copre appena il raggio d’azione del tavolo, mentre dei fasci di luce sono utilizzati in modo sporadico per illuminare dall’alto o frontalmente le azioni che si svolgono altrove nella scena).

Agiscono però come persone in vita: si corteggiano, si emozionano, battibeccano. Sembrano a tratti la caratterizzazione della tipica coppia di vecchietti che vive insieme da una vita (nonostante, essendo fantasmi, non abbiano età), ma il loro modo di apparirci cambia quando gli argomenti diventano più seri.

Un’aura genuina e sognante sembra sprigionare dal Francesco Pezzi che si immerge nel ricordo vivo del suo incontro con la donna, con una precisione di dettagli che si colora di descrizioni paesaggistiche sul mare piccolo nella cartina ma grande per chi lo guarda, sulla terra bagnata dalla pioggia sopra cui camminavano e senza tralasciare il profumo dell’Elianto: fiore da lei preferito.

Maria Luisa esprime tutta l’umanità della rabbia, nel biasimare gli insegnanti per il trattamento differente che riservano ai figli dei ricchi e dei professionisti: a loro vorrebbe rcordare che “Gesù è quello seduto in banco in fondo, con le scarpe con un buco”.

Pare che non le mandasse molto a dire in vita e non si lascia impressionare nemmeno dalla morte: Eccola allora salire su una sedia – che il marito da vero gentleman le favorisce – e pronunciare un discorso agli insegnanti sull’educazione alla libertà che va impartita ai bambini, con tanto di riferimento a Tolstoj.

Fra toni nostalgici, divertiti e piccoli aneddoti, i due ripercorrono la propria vita e i viaggi: da Firenze, a Lugano e poi Napoli, Londra e Buenos Aires. Sorridono, ironizzano. Ogni tanto tirano fuori una parola dialettale.

Parlano dei loro amici dando calore e vita a nomi come Enrico Malatesta o Andrea Costa irrigiditi dalle etichette della storia.

Dopo aver elogiato la finezza di Anna Kuliscioff, con cui  ha condiviso l’esperienza in carcere, ”Gigia” trasforma la propria voce squillante, in una dolce vocina quasi sussurrata, per Intonare la canzone “dimmi bel giovine”, che si fa retaggio di tutte le voci degli attivisti della sua generazione che dietro agli ideali hanno speso la vita.

 “La società del presente ci ha detto: o soffri la fame o venditi. La società dell’avvenire ci dirà: vivi, lavora ed ama”: Questo è il messaggio che Luisa lanciava alla sua generazione a fine 800.

Se possono sembrare dimenticati, i valori affermati dai nostri protagonisti sono inarrestabili: persistono nell’operato di artisti, bravi insegnanti o attivisti (come non pensare allora a quella straordinaria politica birmana che ha fronteggiato 20 anni di arresti domiciliari per affermare l’importanza della democrazia?).

Forse per questa ragione il finale resta sospeso: candele spente. La coppia è seduta di spalle al pubblico e illuminata da un neon: adesso può vedere il mondo ed osservandolo, continua imperterrita ad intonare il proprio canto.