sebastiano_lomonaco_ulisse_21MARTINA VULLO | Kundera scriveva in uno dei suoi più bei romanzi, che la luce rossastra del tramonto, illumina col fascino della nostalgia persino la ghigliottina. Ne facevamo pensiero una volta accomodati nei palchetti  del Teatro Pirandello di Agrigento (dove ho frequentato le scuole), sia per il sovvenire delle memorie degli impegni scolastici sia e soprattutto  per il soggetto della messinscena che si rappresentava: Il mio nome è Nessuno: L’Ulisse, con la regia di Alessio Pizzech, l’adattamento drammaturgico di Francesco Niccolini, protagonista Sebastiano Lo Monaco.

Un’ispirazione fondamentale, per la messinscena della vicenda di questo eroe vagante, sono stati due libri della trilogia di Valerio Massimo Manfredi dedicata ad Ulisse che in scena non è l’antico eroe dell’Odissea, ma un uomo moderno e pacifista, preclaro per valori, saggezza e intelligenza.

A distinguere lo spettacolo dall’antologia studiata nelle scuole è l’ininterrotto fascino esotico delle suggestioni: l’Ulisse qui odora di salsedine, come suggerisce il telo color sabbia su cui poggia la barca in scena, ed intriga con i giochi d’ombra che si manifestano dietro le tende bianche sul fondale. Ancora sorprende con le entrate dei componenti dell’orchestra sax in progress di fiati e percussioni e seduce come i veli rossi della misteriosa Atena dal volto coperto.

Qui l’antico si fonde al moderno e questo mix risulta congeniale: apparizioni sporadiche di compagni d’avventura e fantasmi del passato stemperano la pesantezza a cui rischia di esporsi l’ora e mezza buona, per lo più riempita, come nel poema del resto, dal cunto del protagonista monologante.

Certo, Lo Monaco conosce il suo mestiere e questo gli permette di dosare sapientemente i propri strumenti: colpisce la modulazione della voce che supera nella forza espressiva anche la mimica del volto. Di tanto in tanto ci sfugge qualche parola, ma il suo personaggio è quello di uomo che si racconta…

Dà invece più all’occhio la parolina che qui è lì manca dalla Dea Atena (la pur bravissima Maria Rosaria Carli), i cui connotati  sono più onirici, le apparizioni più rare, la voce modulata dagli effetti eco e le parole gravi, come il timbro della sua voce.

L’Ulisse approfondito di Lo Monaco con l’ampio ventaglio di emozioni che sfoggia, si contrappone ai caratteri a volte anche infantili che lo circondano: la dea è eterea, le donne sembrano bambine ed Achille non si separa mai dalle sue armi.

Anche Cristina Da Rold nella sua scelta dei costumi, gioca di creatività e contaminazione: il dolente Patroclo la cui figura ossea insanguinata è ricoperta da uno straccio a coprirne i glutei, sembra l’immagine iconografica del Cristo crocifisso, mentre c’è un che di androgino nell’Antinoo dal trucco sbavato ed il sontuoso mantello sopra i boxer neri. Gli stracci di Ulisse e la tonaca di Laerte si contrappongono poi all’abbigliamento nel finale di Penelope e Telemaco degno quasi di un red carpet.

Come non menzionare infine, parlando di costumi, le armature antiche e pendenti dal soffitto, come un esplicito omaggio alla tradizione siciliana dell’opera dei pupi?

E’ davvero furbo questo Ulisse di mezzo: eroe quanto basta per affascinare, ma anche abbastanza umano per emozionare, antico a sufficienza per dare luce alla tradizione, ma al contempo sfrontato e intraprendente nei giochi estetici di luci, suoni, scene e costumi. E’piaciuto molto al pubblico del Pirandello, un pubblico appassionato, caloroso, ma cui manca ricambio generazionale: pochi i giovani spettatori. Quanto sarebbe stato più esaltante, poter notare in sala, la stessa contaminazione che dominava in scena?

A margine di questa riflessione una nota ambientale: sorprende, dando un occhio al cartellone la presenza insistita di famosi attori, spesso televisivi e ben sottolineati dal carattere maiuscolo a dispetto dei titoli delle stesse opere segnate in basso.

Mi domando come mai non si provi ad aggiungere accanto ai titoli che attirano gli abbonati, altre proposte, magari più simili a questo Ulisse, che rinnovino il pubblico e abituino al contempo quello attuale anche ad altro teatro.

Penso ancora con un certo orrore omerico al telefono che ha iniziato a squillare in piena declamazione del lamento per la morte di Ettore, con conseguente boato del pubblico, interrompendo l’orazione funebre. Lode all’attore che ha ripreso prontamente un momento di pathos così delicato dopo la bizzarria del momento, ma indizi del genere dovrebbero fare riflettere sulla necessità del teatro di farsi più presente e attento, per chi lo programma e per chi lo frequenta.