imageRENZO FRANCABANDERA | L’epoca della riproducibilità digitale,  l’originale di un’opera d’arte: si era interrogato per primo Benjamin sulla questione, già un secolo fa. In questi mesi due eventi ci hanno posto davanti a risposte particolarissime, che riguardano due artisti apicali dei rispettivi linguaggi in Italia, ovvero lo street artist Blu e il regista teatrale Romeo Castellucci. Ha senso modificare, distruggere, fare a pezzi e proporre in parti un’opera d’arte? In che modo il senso dell’opera trasformata, partizionata, perfino negata, dialoga con quello originale?
Entrambe le situazioni prendono le mosse da Bologna, città strana, che sembra sempre vivere in un limbo senza tempo, e dove, da secoli verrebbe da dire, la società si propone in modo avanguardistico rispetto ai dibattiti del contemporaneo.
Il caso di Blu, uno dei maggiori street artist in Italia e nel mondo, certamente è il più eclatante dal punto di vista mediatico, con la decisione di coprire (e far coprire da un gruppo di persone a lui vicine) alcuni murales da lui precedentemente realizzati in città, in polemica con una mostra sulla street art organizzata nel capoluogo felsineo. Pur essendo stati già prima dell’inizio della mostra (‘Street art Banksy&Co. – L’arte allo stato urbano’ – Palazzo Pepoli) sollevati ai curatori temi relativi all’autorizzazione da parte degli autori stessi ad utilizzare le loro opere senza un esplicito consenso (si veda ad esempio l’intervista rilasciata da Omodeo ad Artribune), alcuni ‘strappi’ di Blu da alcuni muri di Bologna, come i murales delle ex Officine Casaralta e Cevolani hanno portato alla decisione dell’artista di dare una mano di grigio sui suoi murales.

Il tema della distruzione, della modificazione nel tempo dell’opera ci pare abbia qualcosa di sottilissimo in comune con quanto fatto da Romeo Castellucci, con la sua idea di riproporre un titolo storico della sua compagnia, la Socìetas Raffaello Sanzio, il Giulio Cesare, ispirato alla tragedia di Shakespeare, ma non in una riproposizione integrale, bensì in un riallestimento in “frammenti”: una nuova forma per rievocare uno spettacolo irripetibile secondo lo stesso autore, posizione confermata anche in occasione della replica presso il Crt di Milano nei bellissimi saloni della Triennale.

Il caso di Blu, oltre che le questioni relative ai diritti che un autore ha su una sua opera, compreso quello di distruggerla, fa emergere e riflettere per la prima volta sulla natura potenzialmente performativa dell’opera d’arte figurativa e di strada, per la sua intrinseca caratteristica transeunte molto più spiccata rispetto alla tela in salotto o in un museo.
Le opere in questione,
 proprio in quanto già in origine sottratte alla categoria del semovibile, del commerciabile, mettono di per se stesse in crisi alcune categorie del mercato di riferimento.
In questo caso ci troviamo di fronte ad un chiaro intento distuttivo, o di inibizione della fruizione. Moltissimi autori sicuramente distruggono le loro opere in privato, nei loro studi, senza che questo impatti la società. Eppure nel caso dei murales questa decisione ha assunto un rilievo sociale, di comunità, portando per la prima volta a far riflettere la città sul rapporto adottivo che la stessa e il suo immaginario visivo hanno con le opere degli street artist nel medio-lungo periodo.

1457167448_10683711_1163766486991250_4494927510210936766_oNel caso di Castellucci, invece, un lavoro teatrale è di per sé un’opera che incorpora il crisma dell’irripetibilità e quindi decidere di riproporne alcuni pezzi, per giunta come esito di un percorso di rivisitazione accademica dell’intera produzione artistica del regista, è scelta che non può non portarci ad ulteriori riflessioni. Anche in questo caso l’origine dell’impulso creativo è stato un corso di linguistica generale condotto da Castellucci a Bologna  nel 2014-15 all’interno di un progetto più ampio intitolato “E la volpe disse al corvo”,  di cui si trova dettaglio a questo link. 
I frammenti che Castellucci ha deciso di far rivivere e che riprendono alcuni momenti salienti di un allestimento fra i più significativi della Compagnia (segnalo per una sinossi rapida ma efficace questo contributo di Gianni Manzella su DoppioZero) hanno una natura sicuramente impattante sia dal punto di vista semiotico che visivo, andando alla radice della parola, sia attraverso la sonda ottica che l’attore (Scarlatella) ad inizio spettacolo fa arrivare dal naso fin nella gola alle corde vocali, sia nei due successivi monologhi, quello di Giulio Cesare (Plazzi) e quello di Marco Antonio (Masini), il primo tutto a gesti, di cui si ode lo spostarsi dell’aria nel movimento delle braccia, il secondo affidato ad un interprete che ha subito un’operazione alla laringe che ne ha lasciato sul corpo traccia e cicatrice indelebile, che ne modifica la possibilità di una parola forte. Anche in questo caso il loro fisico, come l’opera intera, viene offerto al pubblico sezionato, fatto in parti, lacerato. Eppure quella forza arriva a prescindere dal volume. Così come arriva la forza di un discorso di solo gesto, senza parole. 

Castellucci preserva in questa scelta, quindi, un’intenzione quasi performativa, di “pezzi staccati per un intervento drammatico su Shakespeare”, come recita il sottotitolo, se performativa è un’azione che ad un certo punto costringe gli spettatori ad alzarsi per far passare gli attori nello spazio, proprio mentre il corpo di Cesare viene trascinato via; l’allestimento vive un costante riadattarsi agli spazi in cui viene proposto, in una sorta di gioco del 15 con l’opera d’arte che non è più l’originale ma una sua rivisitazione volta ad indagare, fra forze e debolezze dell’uomo, il suo dialogo con la società e con l’arte (ARS recita la scritta sul piedistallo da cui Marco Antonio fa la sua orazione).

Ricompare nei pezzi il celeberrimo cavallo su cui viene scritto il motto Mene Tekel Peres dal sogno biblico di Baldassarre, riportato nell’Antico Testamento in Daniele 5, 30-31: la fabbrica della parola, ambivalente quando attinge al poderoso armamento della retorica si confronta con l’arte, la società, il simbolo.

Rembrandt-BelsazarCertamente simbolo di vitalità e forza straordinaria appare quella dell’equino in scena, che nel salone della Triennale con le opere di Sironi defeca e fa venire in mente, anche se in modo forse non voluto, il Concetto di volto, lì col dramma della vecchiaia, qui con la morte dell’anziano dittatore e con la forza prorompente e che impaurisce della bestia in scena, il rischio di una sua ribellione incontrollabile.

L’opera che può sfuggire all’artista, l’artista che realizza un’opera capace, almeno in potenza, di sfuggirgli di mano e diventare autonoma, ingovernabile. Shelley con Frankenstein.

Ulteriormente curioso ai nostri fini appare il  fatto che sul cavallo, come nello spettacolo originale, venga riportata la scritta di quella che è testimonianza di uno dei primi murales della storia della letteratura, eseguito niente meno che per mano di un dio (episodio biblico e motto ce li ricorderà poi Rembrandt in un suo dipinto), e che nel suo significato fa riferimento al fare a pezzi. Nel finale di questi pezzi separati, di Castellucci, progressivamente un’elica si muove su un asse distruggendo via via delle lampadine fino a lasciarci in un buio senza parole, in quel dialogo fra macchina distruttrice e assordante che va dal Giulio Cesare al recente Moses. Un buio di senso dopo la parola, e il sentimento di qualcosa di ingovernabile che ci sovrasta. L’arte che deve fare a meno della parola, la convivenza affidata alle macchine ai meccanismi, fa piombare nell’oscuro.

L’arte fatta a pezzi, riproposta in parti, cancellata, abrasa, selezionata è profondamente in dialogo con il nostro tempo. Cosa ci resta di questa esperienza di negazione (che come spesso accade finisce per diventare enfasi di quello che è stato cancellato)?   L’operazione di Blu e quella di Castellucci hanno qualcosa a che fare con i libri di Emilio Isgò, che cancellava parole nelle pagine e con il non essere? Con la negazione che diventa affermazione di identità? In ogni caso, siamo lontani dalla fotocopia, dalla serialità numerata a matita delle gallerie d’arte, dalle ricche case borghesi con la serigrafia autenticata. E riflettiamo. Non solo noi addetti, o assidui frequentatori. Ma in più. E diventa dominio pubblico. L’arte che si riappropria di un ruolo centrale nella società e nel suo discutere con la vita, con il quotidiano. Di tutti.

 

 

Giulio Cesare

Intervento drammatico su W.Shakespeare

Ideazione e regia Romeo Castellucci 

con

Marco Antonio: Dalmazio Masini
…vskji: Sergio Scarlatella
Giulio Cesare: Gianni Plazzi 

Assistenza alla messa in scena: Silvano Voltolina
Tecnica: Andrea Melega
Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio

 

Street art Banksy&Co. – L’arte allo stato urbano’,

fino al 26 giugno a Palazzo Pepoli

La decisione e una mostra che hanno suscitato grande dibattito, su cui due punti argomentativi complessi sono quelli sintetizzati nell’articolo di Leonardo sul suo blog e in quest’altro articolo di Smargiassi su Repubblica