ALESSIO DEGIORGIS | L’invidiabile privilegio dell’immagine cinematografica di attraversare confini, non solo geografici, è stata la fortuna di molti cineasti. Non certo per vezzo o perché intenti a costruire poetiche sofisticate, alcuni registi, al contrario, scelgono di chiudere la rappresentazione entro contorni ben definiti. Il gioco della finzione va interrotto perché, a volte, ciò che si racconta non può essere trasfigurato con troppa leggerezza. Il cinema di Claudio Caligari è un esempio di questa rara sensibilità. Impone, con rigore calvinista, un confine invalicabile. Oltre il lungomare di Ostia non è possibile andare, alle spalle le disordinate periferie romane, al di là il moto ondoso che simboleggia alternative che la vita scoraggia.

“A Cè, nun lo guardà er mare che te vengono i pensieri!”. Dicono a Cesare, protagonista di “Non essere cattivo” (2015), ultimo capitolo della trilogia tormentata iniziata con “Amore tossico” (1983) e proseguita con “L’odore della notte” (1998). Il tormento non va confuso, in questo caso, per posa scapigliata. C’è la fatica del regista di veder riconosciuto il proprio lavoro intellettuale, così distante dalla piccineria e dall’alterigia dell’intellighenzia italiana. Lo stesso disgusto che ispira Pasolini nel suggerire a Orson Welles quelle malevole parole sulla stupidità compiaciuta dell’intellettuale medio (“La ricotta”). Come il Pasolini neorealista, del quale è il depositario più credibile, Caligari ricompone, scontrandosi con innumerevoli difficoltà produttive, uno sguardo su coloro che l’intellettuale mediocre è capace di raccontare solo con ostile indifferenza, maledetti da “marchio speciale di speciale disperazione”.Immagine_di_%22Non_essere_cattivo%22

Cesare, appunto. Che è, in verità, moltitudine anonima, impegnata in una flânerie autodistruttiva. I teatri fatiscenti dove si svolge la scena sono quelle periferie urbane che si è scelto di dimenticare o indicare, con solerzia pretesca, come Sodoma e Gomorra dalle quali stare alla larga. La paziente intelligenza di Caligari sta tutta nel rifiuto di credere che la desolazione di certi paesaggi debba corrispondere a uno sguardo giudice verso chi entro quei recinti si è trovato ad abitare. La discrezione dell’io regista è indizio di un’attenzione critica che si accompagna a una sottile maieutica, capace di lasciare spazio a un linguaggio viscerale che non scade mai nel patetismo. Nulla è concesso a quella retorica che imperversa nel biografismo dei cosiddetti film “sulla droga” (“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” o “The basketball diaries” per fare degli esempi). Così come sono distanti i virtuosismi di pellicole acclamate come “Trainspotting” o “Requiem for a dream”, che si risolvono in soluzioni accattivanti e strizzatine d’occhio a consolidati cliché.

Si diceva del mare di Ostia e della sua natura paradossale di argine. Di fronte ad esso, un desiderio di vita, oscuro e confuso, che fatica a trovare pieno riconoscimento nel quotidiano, tanto più quando si è costretti a inseguire. Cesare (quello di “Amore tossico” come quello di “Non essere cattivo” e come tutti coloro che una pellicola non può contenere) è un milite ignoto del quale un po’ ci si vergogna e il cui destino si rifiuta di includere in una storia collettiva di cui volentieri si tace. Non ci è dato sapere con quanta consapevolezza vada incontro alla morte, possiamo solo intuire quanto questa lo colga impreparato e disarmato.

La percezione complessiva è che l’opera di Caligari poco abbia da spartire con i consueti meccanismi di finzione scenica. Il merito è da attribuire a un lavoro registico che opera per sottrazione, rinunciando al commento didascalico dell’immagine. Per una volta, il cinema non lavora di fantasia ma, piuttosto, rinuncia ai suoi artifici per accogliere storie che non si ha voglia di ricordare. In un testo (“In exitu”) che è possibile accostare, per infiniti motivi, a Caligari, Giovanni Testori scriveva, in morte del protagonista, un giovane tossicodipendente milanese:

“Quanti, l’indomani, s’affrettaron per primi ai treni, lo videro. Coperta d’un lenzuol bianco, la barella, su cui era stato deposto, attraversò, infatti, l’intera stazione. Alcuni chiesero e seppero. Altri andaron oltre. Tutti, però, al passaggio, scorsero una sorta di luce che, lentissimamente, andava formandosi sopra il cadavere e pareva vincere il grigior delle volte, il buio di ciò che, di là da esse, risultava improprio definir alba, benchè neppur possibile fosse ritener notte.”

Caligari, con il suo cinema essenziale e appassionato, non ha avuto fretta di distogliere lo sguardo. Paziente e discreto come i migliori maestri, ha testimoniato in favore della natura complessa della notte. Con buona pace di quel manicheismo crudele e ottuso che la immagina, sdegnosamente, separata dal giorno.