ALESSANDRA CORETTI | Un alfabeto relazionale complesso caratterizza il corpo mutevole di Daniele Ninarello che, in sintonia con il suo sentire, offre squarci di visione, punti di vista spaziali. In God Bless You (2010), performance proposta nell’ambito di Nessuno Resti Fuori, Festival di teatro, città e persone, l’artista piemontese – attraverso un corpo che perde aderenza sezionando lo spazio – sbanda la visione, la conduce verso il basso, per poi costringerla a improvvisi cambiamenti prospettici. Al di là dei tracciati concettuali, la grammatica corporea di Ninarello non intende marcare volumi o disegnare forme, piuttosto fa emergere delle forze spaziali latenti, delle venature impercettibili; il suo corpo diventa trasduttore di una trama che trascende la creazione, che sopravvive alla riproduzione gestuale, continuando a vibrare oltre i confini spazio-temporali dell’opera. L’ottica di fluidità marca il modus compositivo di Ninarello, spesso coadiuvato dall’uso di tecnologie interattive, di cui il danzatore adotta una visione drammaturgica integrativa. Un’idea di tecnologia non dogmatica, non esclusivamente estetizzante, che non prende il sopravvento sulla scena, che non offusca il pensiero artistico, ma ne diventa cassa di risonanza; risorsa per il processo creativo dell’opera e per la consapevolezza corporea del danzatore. Nella conversazione che segue, il giovane coreografo ripercorre l’esperienza vissuta durante il festival – tra interventi performativi e laboratori in residenza – svelando una poetica articolata, lucida e in continua sperimentazione, in cui corpo ed estensioni tecnologiche creano nuovi innesti.
All’interno del festival hai condotto il laboratorio La città fisica, aragoste, pellegrini, cavalieri in fuga: un’ipotesi di riflessione sul rapporto corpo e territorio. Ti chiedo delle coordinate di lettura. Che cosa significa per te riconfigurare i confini territoriali attraverso la danza?
Significa riappropriarsi del territorio partendo dal corpo; dall’idea di corpo come unità di misura, come strumento per esplorare prossimità e distanze rispetto al territorio circostante. Mi interessa comprendere, attraverso la relazione corpo-spazio, quale azione possa emergere intuitivamente e come essa abiliti un rapporto nuovo, uno scambio inusuale, tra corpo e spazio. Parto da un’idea di compenetrazione tra corpo e paesaggio e da qui cerco di espandere alcuni confini. Metto in crisi gli automatismi del movimento, decostruisco le convenzioni, le stravolgo e invento funzioni nuove, quindi costruisco un territorio nuovo.
God Bless You, la performance che hai portato a Matera, è la restituzione site-specific di un percorso di indagine svolto attorno al concetto di disorientamento e all’idea di spazio urbano. Potresti parlarmi di come hai sviluppato il lavoro, dal concept alla realizzazione tecnica?
God Bless You ha una doppia genesi. Anzitutto è il risultato di un percorso di ricerca condotto sul rapporto tra metodi energetici e composizione artistica. Durante una residenza alla Fondation Royaumont, sotto la direzione artistica di Myriam Gourfink, ho sviluppato uno studio intorno all’autoipnosi, allo Yoga biodinamico, al Tai-Chi Chuan: discipline che pongono il corpo in condizioni sensoriali e percettive differenti da quelle usuali. Inoltre, nello stesso periodo, ho familiarizzato con l’uso di sistemi interattivi che connettono corpo, suono e spazio; l’approccio compositivo integrato dall’apporto delle nuove tecnologie mi ha portato a riflettere sulla quantità di stimoli che riceviamo e su come essi possano influenzare l’orientamento corporeo. Indagine in linea con il mio lavoro da sempre incentrato sulla composizione di sistemi orientativi per il corpo all’interno dello spazio. Prendendo spunto da un trittico di Francis Bacon, ho elaborato un lavoro sul senso di abbandono del corpo nella condizione di disorientamento in cui ho allestito un immenso spazio con dei bicchieri coinvolgendo tre danzatrici, le quali, con un iPhone collegato al corpo, attraversavano lo spazio scenico mandando input al computer, che in tempo reale rielaborava i dati inviati e li ritrasmetteva alle danzatrici per orientarle. In realtà il feedback che ricevevano le danzatrici non faceva altro che disorientarle nuovamente, emergeva dunque un’idea di orientamento come negoziazione tra caduta e ripresa, tra pieno e vuoto. Le danzatrici ricostruendo, distruggevano lo spazio sprigionando un senso di liberazione. Il progetto mi ha permesso di approfondire il concetto di disorientamento, indagandolo da un’angolazione nuova, ovvero come mancanza del punto da cui nasce il sole (dis-oriente), idea che nel mio lavoro assume un significato preciso: equivale a una qualità del movimento e coincide, nel processo coreografico, con un’ascesa, una trascendenza. Contemporaneamente mi era stato proposto un lavoro che aveva come tema la fontana, procedendo per corrispondenze, ho associato l’elemento fontana alla figura dell’homeless, entrambi hanno in comune sia la strada, sia la moneta, quest’ultima, gettata in acqua o mendicata dai senzatetto, è collegata alla ricerca di fortuna e alla benevolenza degli dèi. Ho strutturato il lavoro osservando gli homeless per strada e assimilando le loro posture, che ho ricondotto alle ricerche fatte durante la residenza sul corpo disorientato. In ogni posto, in cui la performance è stata realizzata, ho costruito – adattandomi alle peculiarità architettoniche del luogo – una fontana di bicchieri-salvadanaio, che viene distrutta dagli attraversamenti del mio corpo disorientato: dal corpo destabilizzato dell’homeless, che chiede e che inciampa, accartocciandosi in un senso di vergogna. Il corpo che distrugge la fontana simboleggia la distruzione di un desiderio, azione che noi compiamo sistematicamente quando neghiamo il nostro aiuto a chi lo implora.
I tuoi lavori prevedono spesso l’ausilio di captatori gestuali e sistemi interattivi. Al di là dell’impatto estetico, quanto consideri le nuove tecnologie una risorsa per il processo compositivo e uno strumento utile per allargare l’orizzonte propriocettivo del danzatore?
Per circa un anno ho esplorato le potenzialità delle nuove tecnologie applicate al corpo, sono attualmente ritornato a lavorare su questo fronte tessendo i primi pensieri con un artista che disegna software, per sviluppare un lavoro che debutterà il prossimo anno: Still. Mi interessa attivare dei feedback esterni partendo da un impulso che viene da dentro. Un feedback esterno che possa riportare delle informazioni al corpo che lo ha generato e continuamente orientare l’azione. Un tratto fondamentale del mio lavoro non è l’aspetto visibile, la spettacolarizzazione del meccanismo, mi interessa capire invece come le tecnologie possano ampliare le possibilità dei processi artistici, come questa catena di feedback, derivante dai sistemi interattivi che uniscono corpo e spazio, mettano in gioco e amplifichino la percezione del danzatore entrando nel processo e agendo dall’interno, conferendo al lavoro la dimensione necessaria per costruirsi e compiersi. La sperimentazione è appena iniziata ed è molto aperta. Ho un anno di tempo durante il quale studiare lo strumento, di base il mio pensiero è che la tecnologia non sia marginale ma centrale nel percorso creativo – dal processo alla restituzione. Centrale e non esclusivamente funzionale. Non solo uno strumento quindi, ma un corpo. Un segno come la luce, come il corpo del danzatore, come la musica; uno dei segni a disposizione del processo.
Rimanendo sul piano compositivo, trovo molto interessante la dimensione di ricerca – improntata all’eterogeneità, che contraddistingue i tuoi lavori. Sembra che la visione artistica, alla base dei tuoi progetti, sia attraversata da sensibilità e linguaggi differenti che si compenetrano. Qual è il perno della tua visione e come incastri i diversi sguardi conservandone la specificità?
La centralità del mio lavoro la riveste in primis il corpo del danzatore. Mi interessa partire dal corpo, espanderlo – anche con l’ausilio delle tecnologie – ma ritornare sempre ad esso. Sicuramente trovo stimolante, ai fini artistici, comprendere come il pensiero di una figura non direttamente coinvolta nel progetto possa rientrare nel lavoro. Ho lavorato con dramaturg, con paesaggisti, in un recente lavoro, anche con un musicista jazz, che ha elaborato, per un’azione scenica, il processo creativo parallelamente alla mia prassi operativa, attraversando il mio stesso pensiero con il suono. È interessante notare come ogni individuo, con i propri strumenti e punti di vista, possa avvicinarsi al sottotesto del lavoro e suggerire alla creazione qualcosa che vada a completare e a determinare, ogni giorno di più, la direzione del progetto. Sposo l’idea di condivisione e apertura del processo artistico, fondamentale è che non si esauriscano mai la tensione di ricerca e la volontà di scoperta.