LAURA NOVELLI | Un grande tappeto da preghiera con disegni color pastello simile a quelli che si trovano nelle moschee. E’ questo lo spazio generatore sul quale e dentro al quale si inscrive la parabola giovanile raccontata da Roberto Scarpetti (autore) e (regista) in Prima della bomba, lavoro prodotto dal Teatro di Roma e da Campo Teatrale e presentato in prima nazionale a India in questi giorni nell’ambito di Short Theatre.

C’è innanzitutto da dire che Scarpetti e Brie hanno già costruito insieme il precedente (e pluripremiato) Viva l’Italia, le morti di Fausto fotolia_79780218_xle Iaio e dunque, a partire da quell’esperienza del 2014, hanno elaborato l’idea di un nuovo progetto di interesse civile e di ascendenza cronachistica che tratta il tema del terrorismo islamico per scandagliare, in realtà, il vuoto valoriale dei nostri tempi e della nostra cultura capitalista.

Il fatto di camminare insieme, autore e regista, non è mai cosa da poco perché permette di innestare la scrittura, e tanto più le sue diverse fasi di elaborazione, su un immaginario scenico ben preciso che nasce, cambia e prende forma parallelamente alle parole e alle azioni della drammaturgia. Ciò è molto evidente in questo allestimento ma forse ne è anche il limite più pericoloso. E mi spiego meglio: in scena ci sono cinque attori, Andrea Bettaglio, Catia Caramia, Massimiliano Donato, Marco Rizzo, Umberto Terruso, che danno vita, interpretando spesso personaggi diversi, alla vicenda di Davide, un giovane italiano idealista e inquieto il quale finirà assoldato tra le fila dell’Isis e si farà esplodere nella metropolitana di una grande città occidentale convinto di sacrificarsi per una causa giusta. I fatti però vengono rievocati con una scansione temporale a ritroso, che prende avvio dalla scena dell’attentato per riportarci agli albori di quella crisi spirituale e personale da cui scaturirà la terribile scelta. Gli spettatori sono perciò testimoni di un lungo flashback suddiviso in episodi via via sempre più lontani nel tempo che, nella loro linearità cronologica (e alla fine dei conti prevedibile), finiscono per risultare ridondanti, ripetitivi, didascalici.

Su questa fragilità della scrittura si innesta poi una regia altrettanto illustrativa, oserei dire persino “didattica” che, malgrado certi passaggi molto riusciti, fa leva su trovate semplici, artigianali, concrete (la farina come polvere post-esplosione, occhi finti per sgranare lo sguardo, acqua che cola dai panni, cambi di abito a vista, corpi attoriali trasformati in burattini) inclini ad evocare sì una certa idea di teatro povero e una ben chiara antropologia teatrale in stile Odin, ma che al contempo qui, in questo contesto così tanto parlato e spiegato, rischiano davvero di sembrare banali, infantili, o perlomeno sovrabbondanti.

Lo spettacolo si apre con l’immagine di una bomba artigianale nascosta in uno zainetto: una panca nera al centro del tappeto allude al vagone del treno scenario dell’attentato e gli attori, prima vestiti, si spogliano per mostrare i loro corpi martoriati. Vittime e attentatore sono entrambi martiri di una guerra senza confini e senza senso. Nella quale però Davide – convertitosi all’Islam con il nome di Ibrahim – sembra trovare quel gancio esistenziale che non ha trovato negli studi, nell’amore, nella famiglia, nel cattolicesimo, in un Occidente capitalista e globalizzato incapace, ci dice l’autore, di fornire ideali ai giovani.

La sua è una storia comune: frequenta l’università ma vorrebbe cambiare il mondo, cerca una risposta politica e spirituale alle sue ansie ma si sente perso, e solamente quando, dopo la tragica scomparsa di un caro amico, incontra due italiani convertitisi all’Islam, si convince che quello è l’incontro giusto, la strada giusta. Le abluzioni in moschea, la lettura del Corano (alcuni brani del quale vengono citati a introduzione di ogni singolo quadro con un effetto epico nel complesso incisivo), l’apprendimento della preghiera e delle regole islamiche vengono però presto soppiantate dalla fascinazione per la propaganda jihadista, per gli slogan rivoltosi e catastrofici intercettati su internet, per gli inquietanti riferimenti a un nuovo “olocausto” contro il quale i giovani di tutto il mondo sono chiamati a combattere.

Purtroppo questa è la nostra cronaca quotidiana. E’ vita vissuta per molte famiglie, per tutti quei genitori occidentali che ogni giorno attraversano la Turchia nel tentativo spesso vano di andare a recuperare i loro figli in Siria. Ma nello spettacolo di Scarpetti e Brie (regista argentino da sempre attento a tematiche attuali e scottanti e basti ricordare il suo Teatro de Los Andes, in Bolivia) questo aspetto non emerge, non è centrale. Centrale qui è piuttosto la scelta di un singolo: la sete ideologica e l’inciampo nella violenza di un ragazzo europeo come molti. La traiettoria personale, pur se emblematica, finisce cioè col prevalere sugli aspetti collettivi della vicenda e risuona svuotata di ogni volontà/possibilità di giudizio.

Al termine dei ricordi lo spettacolo ritorna ovviamente all’immagine iniziale: c’è molta poesia in quei corpi insanguinati e negli occhi impauriti di quei morti, ma è una poesia a mio avviso troppo familiare, troppo nota, troppo esplicitata. In definitiva, Prima della bomba mi è parsa una bella occasione sprecata: l’urgenza di affrontare un fenomeno così drammatico viene compromessa dalla mancanza di “enigmaticità” nel linguaggio teatrale stesso. E il pubblico alla fine esce dalla sala senza domande, senza quesiti da porsi, da risolvere. Mentre il teatro, si sa, da sempre ha bisogno di mistero, di visioni “altre”, sghembe, inusuali, sospese, dubbiose, perché solo così esso può tradursi in esperienza e in conoscenza autentiche.