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LAURA NOVELLI | Nel 2009 Katia Ippaso (autrice) e Cinzia Villari (interprete) presentarono in un piccolo Jazz Club romano il monologo Doll is mine, primo movimento di una trilogia sul Giappone immaginata come un agone tragico in odore di classicità (e mi torna in mente il titolo di un bel saggio della stessa Ippaso pubblicato anni fa su Biblioteca Teatrale: Elettra e Oreste: elaborazioni drammaturgiche e letterarie del tema della sorellanza) che mettesse a fuoco le fragilità della società e, tanto più, della famiglia moderne trattando riti e miti emblematici dei nostri tempi ma anche – e soprattutto – di portata universale. Ad ispirare quella pièce, incentrata sulla figura di una ragazza che per lavoro accompagna i clienti di un hotel nel sonno vegliandoli mentre essi dormono e premiata in Francia con il prestigioso “Aide a la création” del Ministero della Cultura, erano stati principalmente i romanzi La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata (1960) e Sonno profondo di Banana Yoshimoto (1989): scorci di inquietante solitudine e disabitudine ai sentimenti più elementari tradotti in una lingua teatrale – e musicale – insieme lirica e concreta, forte e dolcissima.

Adesso la trilogia si arricchisce di un nuovo tassello che prende a pretesto una “malattia” adolescenziale molto preoccupante – sono circa due milioni i ragazzi giapponesi che si chiudono in camera, non escono più, lasciano la scuola, smettono di lavarsi, si ammalano di dipendenza da Internet e rischiano di morire suicidi (in Italia questa forma di disagio riguarda già 100.000 ragazzi) – per raccontare, ancora una volta, lo sfascio dell’identità personale e dei legami familiari in un impianto di vera e propria tragedia classica. Questo secondo movimento, cui ne seguirà un terzo, Evaporati, incentrato sulla fine dei Padri, si intitola Hikikomori (il nome stesso che i nipponici attribuiscono al “fenomeno”), ha debuttato a dicembre al teatro dell’Orologio di Roma e vede la Ippaso impegnata nella scrittura insieme con Marco Andreoli. Una scrittura tesa su binari diversi: tanta riflessione sul rapporto Madre/Figlio (allargando lo sguardo alla relazione di coppia e al confronto con le figure genitoriali), una buona dose di immaginario giapponese desunto per lo più dai Manga, un richiamo costante a La Metamorfosi di Kafka e un continuo sbilanciamento tra sogno e realtà, vita e morte, antico e moderno, Oriente e Occidente. Perché il tragico è tragico sempre e ovunque. La fragilità umana è fragilità sempre e ovunque. Cambiano le cause, le dinamiche, le forme, ma l’animo umano non muta e attraversa la storia e la geografia replicando da millenni gli stessi meccanismi per difendersi da  paure e angosce.

Un letto sfatto al centro della scena. Libri a terra. Soldatini schierati su un campo di gioco/battaglia. Un computer semichiuso. Vestiti sparpagliati in modo disordinato. Una porta sul lato destro. Qualche sedia. Un lungo corridoio/pontile che funziona – lo si capisce meglio a spettacolo avviato – come unico collegamento con la realtà, la vita, gli altri, oltre che come esplicito richiamo a quel “ponte” del teatro Nô (hashigakari) attraversando il quale si prelude alla finzione, alla mimesi, alla trasformazione dell’Uomo in Attore.  E’ in questa gabbia quotidiana e ordinaria che si consuma la tragedia di un adolescente, chiamato semplicemente Figlio e interpretato dal bravo Giulio Pranno (attore non professionista scelto tra ottanta candidati), incapace da mesi di uscire, andare a scuola, studiare, farsi una doccia, parlare con i parenti e gli amici. Una tragedia che il Web amplifica e radicalizza ma che qui non trova nel rapporto con il mondo virtuale il suo principale appiglio. Anzi, questo Figlio, a dire il vero, soffre di agonie ben peggiori; è vittima di crudeltà familiari ben più atroci. Fatto sta che il suo io gira a vuoto. E il ragazzo assume sul suo stesso corpo il disagio di esistere, il tremore di sentirsi perso, depresso, inutile. La sua sembra una ribellione contro le Istituzioni, e in primo luogo contro la Madre/Luisa Marzotto (recitazione asciutta e incisiva, virata su un registro nel complesso espressionista), ma in realtà è una ribellione contro se stesso, contro il suo futuro, contro i conflitti in cui si trova impigliato.  Non è un caso, d’altronde, che nelle prime scene del lavoro, cui Arturo Armone Caruso regala una regia accurata e sobria tesa soprattutto a sottolineare l’interpretazione volutamente sopraesposta degli interpreti, egli ci appaia come un tutt’uno con il letto: la tuta verde acido, i capelli lunghi, la fascia nera in testa lo rendono grottescamente fumettistico ma la sua postura, la sua pressante tendenza a stare a terra svelano il senso di caduta che lo attanaglia. E quando le parole di Kafka arrivano ad evocare (voce fuori campo di Roberto Latini) una mostruosità analoga, una rivolta giovanile analoga, una “diversità” analoga, allora non abbiamo più dubbi che quel Figlio possa essere chiunque e/o il Figlio di chiunque.

Noi siamo lui, siamo i diversi. Ma siamo anche la Madre, l’apparente normalità. L’altra parte della barricata: quella autorità così sbiadita agli occhi del Figlio eppure così vigorosa con cui non può però esserci simbiosi, comprensione, comunicazione, amore. E non può esserci amore perché ella stessa ne è priva e deprivata. Su di lei pesa una colpa estrema (aver ucciso il suo stesso Padre perché malato, diverso anch’egli, ultimo tra gli ultimi) e su di lei pesa pure un matrimonio infelice con un uomo violento, qui solo evocato.

E dunque, proprio come in una tragedia antica, è il mondo dei Morti a sciogliere i nodi, a ristabilire un ordine pur drammatico, a ribaltare quella prigione interiore. Il nonno del ragazzo (uno straniato e quasi caricaturale Aldo De Martino) scandisce le visioni salvifiche del Figlio mettendo in moto la memoria e un gioco di specchi identitari (in quel luogo anche lui era stato a lungo recluso) che aprono al protagonista di Hikikomori una via di fuga diversa – se non opposta – rispetto a quella dello scarafaggio schifoso e reietto in cui si trasforma il Gregor Samsa kafkiano. Complice una bicicletta regalatogli proprio dal fantasma del vecchio, il Figlio riuscirà infatti ad evadere, ad attraversare lo spazio/teatro della sua prigionia uscendo letteralmente fuori-di-scena. Ma lo scotto da pagare è alto e la sua via di fuga si rivela necessariamente tragica per la Madre: ferita presumibilmente dal marito, la donna ritroverà suo Padre, forse un barlume di perdono, in una zona confusa ancora una volta tra la vita e la morte, il sonno e la veglia. Insomma, l’unica catarsi possibile è il risarcimento al dolore recato, è l’accettazione dell’altro, è la possibilità di rileggere il proprio passato e accoglierlo. Ovvio che, in una trama così complessa, si rischia forse di trainare una storia di instabilità adolescenziale verso traiettorie diverse. Ma credo che questa ricerca di un tragico contemporaneo, molto vicino tra l’altro alla drammaturgia onirica di Strindberg, sia proprio la linea su cui intenda muoversi lo spettacolo e, alla fine dei conti, se il fenomeno hikikomori rimane sullo sfondo, poco importa. Perché il Giappone, come campo di osservazione di una società malata, non è mai stato tanto vicino a noi.

 

HIKIKOMORI

di Katia Ippaso e Marco Andreoli

con Luisa Marzotto, Aldo De Martino e Giulio Pranno

e con la voce di Roberto Latini

regia Arturo Armone Caruso

scene Fabio Vitale

costumi Roberto Conforti

produzione Associazione Culturale Progetto Goldstein/Ariel Produzioni in collaborazione con Officinema

 Teatro dell’Orologio, 3-18 dicembre 2016

Via dei Filippini 17/A

00186 – Roma