ILENA AMBROSIO | Ci sono cose, accadimenti, persone, che si riescono a comprendere solo a posteriori, che per tutto il tempo in cui le viviamo, le conosciamo, sembrano essere quiete e placide, comuni, ma anche nascondere un piccolo segreto che ci spinge a indagarle, ad andare in fondo. Lo stesso può valere a teatro ed è proprio ciò che accade con Cartastraccia, scritto e diretto da Mario Gelardi, che ha debuttato in anteprima nazionale al Nuovo Teatro Sanità.
Dopo L’abito della sposa, Gelardi torna a collaborare con Pino Strabioli, in scena insieme a Sabrina Knaflitz e Barnaba Bonafaccia, in un lavoro che intreccia un omaggio letterario a prepotenti riferimenti storici e culturali.

La presenza letteraria è quella di Palazzeschi e del suo Sorelle Materassi. Teresa e Agostino, fratelli conviventi e proprietari di un piccolo laboratorio di carta artigianale, sono modellati sulle due sarte fiorentine – mestiere, del resto, del Lucio/Strabioli in L’abito della sposa. Ma qui siamo a Roma e precisamente nella Roma del 1968, quella delle proteste studentesche, dell’emancipazione femminile, del Piper e della sua regina, Patty Pravo. Questa realtà brulicante di vita, tuttavia, non pare coinvolgere – almeno non  direttamente – i due protagonisti, chiusi nella quattro mura della loro casa/bottega e, per giunta, in procinto di abbandonarla per fare ritorno al paese natio.

46715036_2157566210949803_2059864575699845120_o.jpgLa scena – curata da Paolo Iammarone – è tutta concentrata su questi primi elementi drammaturgici: in primo piano delle valigie  e un grande baule; in fondo, un tavolo da lavoro ricoperto di carte; teli bianchi – la carta in lavorazione – che calano dalla graticcia in corrispondenza delle quinte.
La vicenda inizia proprio nel giorno precedente la partenza. Da un lato l’apatia flemmatica di Teresa, vestita in nero, accasciata sul baule, in preda a uno dei suoi consueti (e immaginari) malori e alla nostalgia per una fantomatica carriera da pittrice; dall’altro il brio acido e dispettoso di Agostino il quale, in tutta fretta, prepara le valigie. Lo scontro caratteriale tra i due è il centro nevralgico della vicenda: si punzecchiano, si insultano, pur lasciando trasparire un legame fraterno ben saldo. Godibili i loro botta e risposta salvo un forse eccessivo squilibrio tra i toni recitativi acuti ed eccentrici di Strabioli e quelli troppo – rispetto a quanto comunque richiederebbe il personaggio –  placidi della Knaflitz, a discapito  di un ritmo che resta comunque ben serrato.

Quella, dunque, la loro vita di sempre; sono a Roma, «al centro di un movimento rivoluzionario», eppure, quel fermento giunge solo come un’eco, quella delle canzoni della mitica Patty Pravo, canticchiate da Agostino o riproposte in lirici frammenti al pianoforte realizzati da Carlo Vannini.

46749185_2157566300949794_5176551209435136000_oMa il ’68 fu qualcosa di troppo irruento per risparmiare la tranquilla routine di qualcuno. E così irrompe in scena e nelle vite dei due fratelli, Remo, nipote di una per nulla cara sorellastra. Remo – e un nipote Remo travolgeva anche le vite delle sorelle di Palazzeschi – è la rivoluzione personificata: giacca di pelle, camicie variopinte e pantaloni a zampa; irruento, espansivo – fin troppo: va in giro per casa mezzo nudo accendendo le fantasie di entrambi gli zii –, vuole godere della vita, di quella Roma in fermento e piena di possibilità. Una smania che contagia gli zii convincendoli ad accoglierlo in casa e a rimandare la partenza.

Inizia così un percorso drammaturgico fatto di leggerezza, comicità, tutto giocato sul progressivo sciogliersi e abbandonarsi di Agostino e Teresa, trascinati da questo “guru” del vivere liberamente, senza freni, che scatena, anche, gelosie e ripicche tra i due fratelli.
46519408_2157566434283114_6868305030231883776_oEppure si percepisce che questo è solo un livello del racconto; una vocina, nello spettatore, dice che no, gli sguardi languidi e la voce suadente che Remo usa con Agostino – avendone compreso il punto debole – non sono ingenui; che gli abbracci appassionati e i bacini rubati alla zia non sono disinteressati.
Questo Remo riporta allora alla mente anche il Ferdinando di Ruccello nel suo essere ambiguo, sottilmente lascivo; caratteri però stemperati, per buona parte del tempo, da una buona dose di leggerezza fanciullesca alla Pinocchio – quello di Collodi, pure riferimenrto del Remo di Palazzeschi.

Ma a mano a mano emergono elementi che gettano una luce misteriosa, oscuramente misteriosa, sul giovane. L’oscurità irrompe all’improvviso, scatenata dal rifiuto di Agostino di prolungare la loro permanenza a Roma. «Mi hai rotto il cazzo.. frocio!». Remo diventa un altro – molto credibile Bonafaccia in questa mutazione – o, meglio, svela il suo vero essere. Getta in faccia agli zii i misteriosi volantini che nascondeva: “Reazionari fascisti. 16 marzo 1968”. In quella data, pochi giorni dopo la battaglia di Valle Giulia, l’attacco fascista alla Sapienza.

La Storia, che fino a ora i due protagonisti avevano solo sentito avvenire, entra in casa loro e nella sua variante più orrenda. «Fascista!» urla Teresa e – forse per la prima volta nella sua vita, davvero attiva – strozza il giovane dietro uno dei teli di carta; il suo delitto coperto dalla voce, ancora, di Patty Pravo.

Un coup de théâtre che darebbe una conclusione netta, definitiva alla vicenda. Cattivi smascherati e puniti. Fine.
Ma la drammaturgia di Gelardi non abitua a questo; più che agli assiomi punta ai dubbi, all’interrogazione.

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La voce di Patty si deforma, riparte il motivo – davvero bello, dobbiamo dirlo – di La Bambola rielaborato al pianoforte. Le luci si abbassano, diventano bluastre e i due fratelli si siedono sul baule. Alla medesima composizione scenica, erano state affidate, durante la rappresentazione, parentesi diegetiche o di riflessione a parte dei due. Così anche ora Agostino e Teresa commentano l’accaduto; ma quelli che abbiamo di fronte ora non sembrano gli stessi miti e ingenui personaggi di prima. Nessuna disperazione, nessun senso di colpa; placidi si compiacciono dell’atto compiuto, si preparano finalmente a una tranquilla vita in campagna e, tra una spennellata di smalto e l’altra, decidono dove seppellire quel giovane che «era troppo bello per essere una brava persona».
Sulle loro risate soddisfatte e maligne cala il buio.

Cartastraccia dunque, coniuga leggerezza e politicità in modo – a quanto pare – volutamente sbilanciato: lascia lo spettatore tranquillo, se non fosse per quella vocina persistente, per poi farlo saltare sulla poltrona con una svolta che cambia o, meglio, dà senso a tutto quanto visto fino ad allora.
E allora la distinzione buoni/cattivi perde i suoi contorni netti, si fa sfumata, incerta. La riflessione sulle conseguenze degli estremismi, della violenza, delle guerre – in qualunque forma si verifichino, perché guerra fu quella di quegli anni – inevitabile.

CARTASTRACCIA
Storia romantica con musica nella Roma del 1968

scritto e diretto da Mario Gelardi

con Pino Strabioli e Sabrina Knaflitz
e con Barnaba Bonafaccia
musiche Carlo Vannini
scene Paolo Iammarone
costumi Antonella Balsamo
produzione Alt Academy

Nuovo Teatro Sanità – Napoli
25 novembre 2018