ILENA AMBROSIO | «Lasciata a se stessa, l’attenzione trova sempre qualcos’altro dietro cui correre».
Lo sappiamo bene, lo viviamo tutti i giorni, in trincea, sotto l’assedio di informazioni sparate da ogni angolo della realtà che ci circonda.
Andiamo a teatro – il Teatro Area Nord di Napoli, nello specifico – pensando di starcene placidamente in poltrona per un’oretta, di poterci concentrare su qualcosa, al sicuro dalla mitragliatrice della distrazione.
E invece ci attende l’agguato di Overload di Sotterraneo.

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Foto Filipe Ferreira

Il lavoro, vincitore del premio Ubu 2018 come spettacolo dell’anno, non semplicemente tematizza la condizione di iperinformazione cui siamo soggetti, ma concretamente la ripropone tramite un meccanismo/gioco scenico-drammaturgico che vede coinvolta e sollecitata in ogni momento l’attenzione del pubblico.
Un’operazione intelligente, acuta e mai scontata – “Ma come gli sarà venuto in mente?”, mi sono ripetuta di continuo – oltre che ben realizzata dagli interpreti.
Non uscire dalla sala entusiasti o, quantomeno, colpiti, sarebbe stato impossibile. Mai quella poltrona ci è sembrata riposante, fissa almeno; quasi fossimo su montagne russe della percezione.

Di idee a monte, modalità di costruzione e, ovviamente, del “post Ubu” abbiamo parlato con Daniele Villa, autore di Overload, espressione della funzione registica del gruppo e tra i fondatori di Sotterraneo.

Overload: sovraccarrico. Il tema del vostro lavoro è chiaro fin dal titolo: il sovraccarico di informazioni cui la moderna vita digitalizzata ci sottopone e, ormai, ci costringe. Ma al centro della rappresentazione la figura di David Foster Wallace. Nel suo discorso sull’acqua del 2005, rivolto a un gruppo di neolaureati, sottolinea la necessità di saper pensare, di scegliere a cosa pensare, di accorgerci dell’acqua – tutto ciò che ci circonda e che normalmente diamo per scontato. Quel discorso sembra fare da trama alla vostra drammaturgia. Quale “scintilla” vi ha portato a scegliere Wallace e le sue parole come fulcro dello spettacolo?

Wallace c’era da prima. I suoi romanzi, racconti, saggi, le sue interviste… Era una risorsa da cui attingevamo spesso e che usavamo per capirci tra di noi e capire alcuni aspetti del nostro tempo. Quando abbiamo realizzato di cosa parlava Overload – realtà aumentata, attenzione, iperstimolazione, pensiero non lineare, immaginario delle superfici e così via – la reazione chimica fra tutto questo e Wallace è stata automatica.
La sua scrittura va continuamente in sovraccarico, diversi suoi testi operano tentativi di movimento non lineare, lui stesso era ossessionato dai limiti del linguaggio e della rappresentazione del reale, dai media; si definiva un “television addicted” e parlava del nostro tempo come dell’Era del Rumore Totale – e lo faceva nel 2008, quindi agli albori degli ultimi sviluppi del web 3.0.
Insomma, si era immerso in profondità nei temi che con Overload volevamo scandagliare, e l’aveva fatto, come sempre, intersecando divertimento e dolore, che è una cifra che sentiamo vicina.
In pratica, ci serviva in una guida esperta del territorio, chi meglio di lui?
Poi certo, rimangono delle contraddizioni: il suo discorso sull’acqua è pieno di aspetti che amiamo ma anche di cose che non ci convincono fino in fondo ma con una guida è bello anche discutere un po’ sull’itinerario da seguire.

Il sovraccarico non è solo tematico ma concreto, scenico. Come avete progettato, se l’avete fatto, il lavoro degli attori e la struttura performativa?

Volevamo mettere in scena un ipertesto, ma facendone un pre-testo: cioè non tanto limitarci a riprodurre il meccanismo digitale a teatro, quando ricreare quella vertigine che ci dà la possibilità di saltare da un “luogo” all’altro, quel senso di immediatezza che ci danno le interruzioni e i collegamenti virtuali, e però traslare questa mobilità accelerata dentro il perimetro di un medium millenario e inderogabilmente confinato nei suoi limiti di spazio, tempo e corpo. Questo era il cortocircuito che cercavamo.

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Foto Filipe Ferreira

Abbiamo scelto di avere un “centro”, ovvero David Foster Wallace che ci racconta la sua ultima giornata di vita, e di creare ogni possibile collegamento che da quel centro si allontanasse fino a farci smarrire.
Abbiamo composto a tavolino decine di ipertesti che partendo da Wallace – una sua parola, un suo gesto, un oggetto nelle sue mani – si collegassero ad altro, poi ad altro e ad altro ancora fino a trasformare il suo discorso in un labirinto di contenuti. Abbiamo improvvisato in sala su ognuno di questi ipertesti, finché non è sopravvissuta una parte che risultava necessaria e sufficiente. Alla fine il teatro ha un suo meccanismo intrinseco di selezione naturale.

Overload è certamente un lavoro corale ma, in generale, la vostra attività si fonda su una collettività e orizzontalità che coinvolge chi sta al di qua ma anche al di la della quarta parete.
In quale modo varie esperienze artistiche confluiscono nelle vostre creazioni e, d’altro canto, come riuscite a inserirvi la inevitabile dose di imprevisto data dall’interazione con il pubblico?

Per noi la quarte parete non esiste. Poi ovviamente ogni teatrante adotta una strategia personale a riguardo e non esistono leggi assolute. Per noi 100, 200, 300 spettatori sono una risorsa drammaturgica e dinamica immensa e ci piace che vengano messi direttamente in moto. Mai però in termini di spontaneismo (niente di ritualistico, sciamanico o simili) né mai nei termini di una messa alla prova dello spettatore. Il punto è sempre coinvolgere la persona che osserva nel frangente di una piccola scelta [alzarsi per attivare i “contenuti extra” nel caso di Overload, ndr], una piccola svolta drammaturgica che assume un peso specifico nel corso dello spettacolo senza ridiscuterne l’autorialità. Per questo l’imprevisto è gestibile, perché ha un margine entro il quale noi sappiamo come muoverci. Il punto non è improvvisare col pubblico, quanto piuttosto mettere un pensiero in azione sul palco e permettere a quel pensiero di tornare  indietro, in forma di azione che scaturisce dalla platea.
Del resto, quelli in platea mica sono meno intelligenti di noi, no?!

In questa interazione con il pubblico il gioco sembra essere la vostra declinazione del rituale caratterizzante il teatro e il rapporto tra scena e spettatori.
Quale meccanismo credete si inneschi quando ciò avviene?

Il gioco funziona se viene preso sul serio, altrimenti è solo una distrazione. Noi giochiamo sporco e duro e siamo convinti che il pubblico partecipi consapevolmente al gioco, come se entrasse in una trappola anche solo per conoscere un certo tipo di dolore e poterne parlare.
Noi per gioco intendiamo una temporanea simulazione di realtà in cui devi capire il tuo ruolo, che poi è un modo per interrogare il presente. Ci piace che oggi la gamification sia una tendenza diffusa che attraversa tutta la società (aziende, viaggi, device elettronici) perché pone una questione di differenza: non tutti giocano allo stesso gioco e non tutti giocano nello stesso modo, c’è chi gioca per facilitarsi la vita e chi per complicarsela.

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Foto Filipe Ferreira

Dal 2015 avete cambiato nome da Teatro Sotterraneo a Sotterraneo per – cito da vostro post – “rimanere aperti a molteplici discipline creative dentro e fuori dalla scena… essere in movimento”. Un “sovraccarico” ma in positivo, quindi.
Credete che il teatro possa e debba accogliere tutto? Che questa sia la strada per fare in modo che svolga ancora una funzione reale e non solo estetica?

Tutte le volte che si parla di cosa dovrebbe essere il teatro tendiamo a svicolare dalla domanda. I teatranti devono fare quel c***o che pare loro, e poi vediamo che succede.
A noi piace quando in teatro accade di tutto, quando il teatro chiama a sé le altre arti ma anche pezzi di realtà o visioni che solo un certo autore poteva generare. In poche parole ci piace il teatro vivo.
Svolgerà la sua funzione fintanto che continuerà a mutare e stare nel proprio tempo, che è poi il principio che guida l’evoluzione di ogni essere vivente.
Oggi paradossalmente abbiamo una strada in più: nell’era della doppia realtà (materiale e digitale) a noi piace pensare che sentiremo sempre più il bisogno di esperienze non-mediate e collettive come il teatro. Anche di esperienze di salto al buio, come vedere uno spettacolo senza sapere cosa aspettarti e magari rimanere deluso: nell’era della saturazione delle informazioni e dell’ipertecnologia il teatro può farsi caverna.

Alla premiazione degli Ubu è stato sottolineato come voi facciate parte di quella fetta di teatro indipendente e autoprodotto e proprio tu hai riconosciuto il sostegno che da sempre ricevete da una rete di realtà – festival, centri di produzione e centri di residenza, Centrale Fies in primis – che formano il vostro habitat naturale, periferico da un punto di vista geografico ed economico ma oramai centrale. D’altra parte hai sottolineato che Overload è nato con una produzione e un punto di vista europei.
Quanto è importante che questi due aspetti, periferia e dimensione europea, diventino costituenti per il teatro?

È fondamentale premettere che con ‘periferia’ non si intende una marginalità, ma la dinamicità di un sistema che, in mezzo a mille difficoltà, continua a generare biodiversità culturale, tanto che forse le ricerche più avanzate s’incontrano di più ai bordi del territorio che non nei grandi centri.
Con Europa, poi, non s’intende un sistema finanziario-istituzionale ma una identità complessa, un respiro più profondo che sentiamo con forza quando ci muoviamo all’estero perché è il respiro di chi cerca di osservare un orizzonte più vasto delle cose.
È una dinamica molto concreta: appena affronti un problema del presente (clima, migrazioni, economia) parlarne su scala nazionale e parlarne con interlocutori di Londra, Madrid, Sarajevo cambia completamente il tuo approccio, ti costringe a esercitare un pensiero complesso e aperto, invece delle continue semplificazioni e chiusure in cui versa oggi troppa parte del pensiero italiano.
Chi fa cultura oggi, appunto, nell’Era del Rumore Totale, sa che la vitalità delle periferie e l’ampiezza dello sguardo europeo sono condizioni imprescindibili da cui partire per porsi i problemi nella giusta ottica. Certo, questo non dà di per sé garanzie sulle soluzioni, ma i teatranti sanno bene che prospettiva e prossemica sono i presupposti fondamentali per qualsiasi azione.

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Foto Alessandro Sala

Infine, domanda di rito. Premio Ubu, di certo non ve lo aspettavate. Cosa ha significato? Vi ha in qualche modo spostato nel vostro percorso artistico?

Dopo la candidatura ho passato un mese a dire a tutti gli attori della compagnia di non illudersi perché non l’avremmo MAI vinto. Adesso da circa un mese non fanno che rinfacciarmelo.
Questo per dire quanto non ce lo aspettavamo. Non crediamo sposterà il nostro percorso visto che è il nostro percorso che ci ha portato a questo riconoscimento, e non intendo in termini qualitativi (non spetta a noi dirlo) ma proprio per la natura di quello che facciamo: tantissime persone erano felici per il nostro Ubu perché sentivano che era un po’ anche loro. È stato come se a vincere l’Ubu non fosse una singola compagnia ma un esempio di pratica, un pezzo di un ecosistema, un modo d’intendere le possibilità del teatro, come se alla mappa del teatro si fosse aggiunto un minuscolo rilievo affollato di persone.
Per questo, se mi chiedi cosa ha davvero significato rispondo anzitutto responsabilità.

 

OVERLOAD

concept e regia Sotterraneo
in scena Sara BonaventuraClaudio CirriLorenza GuerriniDaniele Pennati, Giulio Santolini
scrittura Daniele Villa
luci Marco Santambrogio
costumi Laura Dondoli
sound design Mattia Tuliozi
props Francesco Silei
grafica Isabella Ahmadzadeh
promozione internazionale Giulia Messia

produzione Sotterraneo
coproduzione Teatro Nacional D. Maria II nell’ambito di APAP – Performing Europe 2020, Programma Europa Creativa dell’Unione Europea
contributo Centrale Fies_art work space, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG
con il sostegno di Comune di Firenze, Regione Toscana, Mibact, Funder 35, Sillumina – copia privata per i giovani, per la cultura