MATTEO BRIGHENTI | Raccontare è dare voce al giorno anche dentro la notte più scura. La parola testimonia, di ascolto in ascolto, la forza di volontà contro la volontà della forza. Una luce che oltrepassa le sbarre del pensiero dominante, perfino della Storia, e arriva fino a noi, a indicarci possibili vie alternative all’attuale stato di cose e di vite.
Giustizia, libertà, uguaglianza non sono dell’altro mondo, ma di questo. Una realtà migliore della nostra esiste: Marta Cuscunà ed Einat Weizman la realizzano e mettono pubblicamente in salvo dai “è da sempre così” e “sarà per sempre così”, accogliendo esempi di coscienze in rivolta. Il teatro è il verbo attivo della loro scelta di dire per resistere e quindi esistere. Da donne e per le donne, ma anche per gli uomini.
Adesso tocca a noi, a tutti, decidere da che parte stare, prendere in mano le nostre esistenze e farne biografie scritte dal coraggio e non dalla rassegnazione, come riaffermano, rispettivamente, con Il canto della caduta e I, Dareen T., visti di recente al Teatro Cantiere Florida di Firenze all’interno della rassegna Materia Prima promossa da Murmuris.

Marta Cuscunà - Il canto della caduta - ph Daniele Borghello
Il canto della caduta foto Daniele Borghello

Nel proseguire idealmente il discorso della Trilogia sulle resistenze femminili (È bello vivere liberi!, La semplicità ingannata, Sorry, Boys), per Il canto della caduta Cuscunà rivolge la sua ispirazione al Regno dei Fanes, una delle leggende più ricche e complesse della tradizione ladina dolomitica. La fine di quel regno mite retto dalle donne, l’unica saga nata sul territorio italiano paragonabile ai grandi cicli europei (ad esempio, l’arturiano o il nibelungico), viene attraversata, come già sottolineato su Pac da Giambattista Marchetto, tenendo come bussola i saggi Il linguaggio della Dea (Venexia, 2008) dell’archeomitologa Marija Gimbutas e Il calice e la spada (Frassinelli, 2006) dell’antropologa Riane Eisler.
Il mito è Storia. Ai primordi dell’Europa Dio era una Dea. Il matriarcato e il ruolo centrale della donna rendevano pacifiche le società e paritario il rapporto fra i sessi. Se quel tempo c’è stato – ragiona Marta Cuscunà – può esserci di nuovo, nonostante la nostra sia l’era, appunto, della caduta, conseguenza diretta dell’affermazione del predominio maschile. Uno strapotere che passa, ormai, per naturale e inevitabile.

Marta Cuscunà - Il canto della caduta  - ph Daniele Borghello
Foto Daniele Borghello

A quella inevitabilità, a terra con i cadaveri della prima guerra e di tutte le altre a venire, guarda fin dall’inizio il coro tragico del Canto della caduta. Si tratta di quattro corvi animatronici (progettazione e realizzazione Paola Villani) movimentati live dall’attrice con joystick meccanici attraverso un sistema di leve a cavo. A differenza di Sorry, Boys, spettacolo per cui è nata loro collaborazione con Villani, la manovratrice è a vista, in cima a una struttura che assomiglia a una montagna, quanto a un uccello ad ali spiegate.
Allora Cuscunà era celata agli occhi del pubblico. In tanti restavano stupiti oppure increduli che potesse muovere e far parlare, da sola, le dodici teste mozze immaginate per i fatti della scuola media superiore di Gloucester, nel Massachusetts. Perciò, questa volta deve aver preferito tornare alla visibilità più completa. Una decisione che, da un lato, rende palpabile la sua maestria d’interprete, dall’altro, però, ne svela e annulla la magia. Le domande sul come riusciva a farlo, diverse per ogni spettatore, ma che aprivano, comunque, all’immaginazione, vengono di colpo sopite dalla risposta, uguale per tutti, sul cosa.
Peraltro, la possibilità per i quattro corvi di beccare avanti e indietro, a destra e a sinistra, rappresenta la loro unica forma di espressività. Sono né più, né meno che ingranaggi industriali, azioni-reazioni di una catena di montaggio di morte. Il tempo del Canto della caduta risulta così bloccato a un circolo vizioso perenne, dalla culla alla tomba.

Marta Cuscunà - Il canto della caduta ph Daniele Borghello
Foto Daniele Borghello

Ai corvi rispondono giù in basso due fratellini, tra i pochi superstiti dei Fanes, chiusi con le marmotte, loro alleate, in un antro sotto le rocce del Regno: da lì aspettano che suonino le trombe argentate che ne annunceranno la rinascita. Sono pupazzi nascosti sotto teste di topo, come i bambini disegnati da Herakut, il duo tedesco di street artist che ha lavorato in diversi campi profughi e zone devastate dai conflitti.
Tra l’universo di sopra e quello di sotto si dipana il tortuoso filo del mito che, per poter essere seguito nella sua interezza e profondità, avrebbe bisogno di una legenda o una mappa, come in apertura dei libri fantasy. In estrema sintesi, si narra di un uomo, un Re straniero, che, per avidità e brama di potere, ha venduto una donna, sua figlia Dolasilla, e il popolo, mandandoli a morire in battaglia.

Su di un televisore piatto passano battute di dialogo (non è specificato a chi appartengono, sicuramente ci sono il padre e la figlia), che dovrebbero ricondurre l’azione all’era mitica, al pari delle chat Whatsapp che riportavano gli scambi tra le ragazze incinte ribelli in Sorry, Boys. Ora, invece, un simile espediente (progettazione video Andrea Pizzalis) produce esclusivamente l’effetto di frammentare Il canto della caduta e rendere la narrazione ancora più distante di quanto già non sia.
Difatti, tutto l’impianto scenico è teso a ciò che non si vede, o perché avviene fuori scena, in altri spazi, circostanze, tempi, o perché è irrappresentabile, alla stregua dell’orrore che la guerra porta con sé. L’intera costruzione si rivela, pertanto, una maschera vuota, trasparente, al servizio, più che altro, di uno sfoggio d’inventiva tecnologica. Perdendo, a nostro avviso, la cifra stilistica propria della pluripremiata artista di Monfalcone, che è l’esatto opposto: piegare la tecnica al patire umano, fino a mostrare l’indicibile della violenza, per saperla poi riconoscere e affrontare, pure al di là del palcoscenico.

In definitiva, nel Canto della caduta la macchineria teatrale è il centro di vicende accadute altrove e qui soltanto ripetute. Non riaccadono davanti a noi.
Al contrario, I, Dareen T., diretto da Nitzan Cohen e presentato in anteprima nazionale in collaborazione con Middle East Now 2019, pur essendo teatro esplicitamente documentario riesce a farci sentire sulla pelle l’arresto, gli interrogatori, le perquisizioni, il processo, il carcere subito da Dareen Tatour.

Dareen Tatour
Dareen Tatour

Einat Weizman in scena è se stessa. Diventa, però, la poetessa palestinese condannata dalle autorità d’Israele per “sostegno al terrorismo”, a causa di un video su YouTube e di tre post su Facebook. Bastano pochi, significativi gesti, che replicano e riportano la sua testimonianza a ora, cioè sul corpo dell’autrice, attrice e attivista israeliana, per giunta. Il tramite sono solamente le parole. L’ambiente è minimale: un tavolo, un computer, una sedia, uno schermo sul fondo (scenografia Tal Arbiv). Nient’altro.
Il fondamento di I, Dareen T. sono le memorie di Tatour, scritte durante i tre anni agli arresti domiciliari, combinate poi con i testi di Weizman che sta affrontando, a sua volta, una battaglia contro la censura delle sue opere, che intendono mettere in scena proprio autori palestinesi. Gli incontri tra le due artiste tengono unita una serie di ricostruzioni degli eventi. Infatti, il filo narrativo segue anche la cronistoria della nascita di un’amicizia speciale, di pari passo con il resoconto metateatrale delle fasi di costruzione del lavoro.

 

I Dareen T. 3
I, Dareen T.

Il filmato dell’ottobre 2015 in cui la poetessa legge la sua Resisti, mio popolo, resisti a commento dello scontro di giovani palestinesi con soldati e coloni israeliani, le procura l’arresto durante un’incursione nella sua casa di famiglia, nel villaggio di Reineh, vicino Nazareth. Sono i giorni della cosiddetta Intifada di Gerusalemme. Il verso al centro dell’accusa, «Seguite la carovana dei martiri», viene erroneamente interpretato dalle autorità come esplicito invito al martirio e non come l’esortazione figurata a conservare la memoria delle vittime nel West Bank.

Quelle immagini scorrono alle spalle dell’attrice (video Nimrod Zin) e, in seguito, vengono proiettati gli altri tre post usati come capi d’imputazione: Israa Abed, una donna di Nazareth, ripresa a terra nella stazione centrale degli autobus di Afula, dopo essere stata colpita da soldati e guardie israeliane; una foto profilo con la scritta in arabo “Io sono il prossimo martire” (assimilabile alle nostre espressioni di solidarietà tipo “Je suis Charlie”); una citazione dell’appello della Jihad islamica per l’Intifada in Cisgiordania e all’interno della linea verde per la Moschea di Al-Aqsa. E poi, ancora, le email, le poesie, i disegni di Dareen Tatour. Il tutto incorniciato dai sovratitoli, che traducono il copione dall’ebraico: quello schermo è la nostra finestra di dialogo, tenuta aperta dall’ostinazione di I, Dareen T.
Una fermezza che trova nell’arte la sua forma di lotta, quella “resistenza bianca” che dà alla poetessa palestinese la forza di restare se stessa davanti alla repressione, al giudizio sommario, all’umiliazione del corpo e dello spirito. La arma di determinazione a difendere il senso di umanità, fosse anche con una parola sola. Nei suoi mesi di carcere s’imbatte in un ragazzino di dodici anni: vorrebbe aiutarlo a rialzarsi, dopo che è caduto sotto il peso delle sue catene, ma non le viene concesso, non ha diritto a dimostrare compassione. Può parlare: lo chiama “Habib” (“Amato”). Tiratosi su, il bambino scompare come un’ombra, che Dareen Tatour ha tuttora davanti agli occhi.

I Dareen T. 2

Tuttavia, l’oscurità per lei comincia ben prima della prigione governativa, nell’oppressione della società patriarcale sulla donna, dentro le mura domestiche. Campeggia una gigantografia di Tatour bambina di sette anni, quando la cella era la brutalità sulla sua infanzia violata. Einat Weizman, le trecce come nella foto, guarda noi e la piccola, come a pretendere la più ferma giustizia e, nella toccante condivisione del suo dolore, chiederle il più sincero perdono.
«La corte mi ha condannata per terrorismo. Se questo è il mio terrorismo, io dono al mondo un terrorismo d’amore», ha dichiarato la poetessa, processata in via definitiva nel luglio 2018 e rilasciata nel settembre successivo. Sua è la voce a cui il monologo affida gli ultimi palpiti. Il diritto di parola è la libertà di fare degli altri la propria causa. Dalla parte di I, Dareen T. io è solo insieme.

 

IL CANTO DELLA CADUTA

liberamente ispirato al mito del Regno di Fanes
di e con Marta Cuscunà
progettazione e realizzazione animatronica Paola Villani
assistente alla regia Marco Rogante
progettazione video Andrea Pizzalis
lighting design Claudio “Poldo” Parrino
esecuzione dal vivo luci, audio e video Marco Rogante
costruzioni metalliche Righi Franco Srl
partitura vocale Francesca Della Monica
assistente alla realizzazione animatronica Filippo Raschi
distribuzione Laura Marinelli
co-produzione Centrale Fies, CSS Teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Torino, São Luiz Teatro Municipal | Lisbona
in collaborazione con Teatro Stabile di Bolzano, A Tarumba Teatro de Marionetas | Lisbona
residenze artistiche Centrale Fies, Dialoghi – Residenze delle arti performative a Villa Manin, São Luiz Teatro Municipal, La Corte Ospitale
con il contributo del Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna L’arboreto-Teatro Dimora | La Corte Ospitale
sponsor tecnici igus® innovazione con i tecnopolimeri, Marta s.r.l. forniture per l’industria

Marta Cuscunà fa parte del progetto Fies Factory di Centrale Fies

Teatro Cantiere Florida, Firenze
28 marzo 2019

I, DAREEN T.

uno spettacolo di Einat Weizman
scritto da Dareen Tatour e Einat Weizman
musica e suono Gianluca Misiti
video Nimrod Zin
musiche Tamer Nafar e Itamar Zigler
scenografia Tal Arbiv
light design Nadav Barnea
regia Nitzan Cohen

Teatro Cantiere Florida, Firenze
4 aprile 2019