MARIA FRANCESCA GERMANO | Se è vero che siamo la nostra storia, siamo il nostro passato e i nostri ricordi, cosa succede quando l’alzheimer sfasa i piani temporali, cambia le regole di percezione della realtà circostante in uno sfaldamento d’identità, in un declino cognitivo che priva un uomo di ciò che costituisce l’essenza stessa del suo essere: la memoria, i ricordi, la coscienza del tempo presente? C’è ancora spazio per i sentimenti? Per la bellezza, per l’arte?

Nel disorientamento affettivo in cui i familiari perdono identità, età e fisionomia, in un rovesciamento del normale rapporto genitore-figlio, nella scoperta che le storie riescono ancora a colmare la angosciante vacuità di uno sguardo annacquato dall’oblìo, si dispiega il tema doloroso del dramma Il principino – Breve cronaca familiare da un trivani vista ciminiere, scritto e diretto da Damiano Nirchio, in scena all’Abeliano, nell’ambito della Stagione Teatrale del Comune di Bari – Teatro Pubblico Pugliese.

In un mesto tinello abitato da un tavolo, due sedie di fòrmica e una credenza color passato di legumi, Vito Signorile è posato su una consunta poltrona. Sopra la canottiera della salute indossa una camicia a quadri aperta. Ha lo sguardo abbandonato in una solitudine ancestrale; è impallidito dai riverberi di una televisione a tubo catodico che meccanicamente e senza intenzione gestisce con il telecomando, passando dai jingle pubblicitari dei cornetti Algida e del Dolceforno Harbert, a intermezzi pop con le voci di Heather Parisi e Raffaellà Carrà, fino alle notizie del TG1.

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Siamo al 12 giugno 1981; mentre le voci televisive tessono la tragedia di Alfredino, il bambino caduto in un pozzo a Vermicino, irrompe nella stanza il figlio trentenne (Danilo Giuva), “sceso” dal nord – dove vive da più di vent’anni – con lo scopo di vendere la casa e parcheggiare il padre malato di alzheimer in una clinica privata. Scopriamo di essere nella periferia di Bari, in una casa con vista sulla velenosa cementifera Fibronit, fabbrica a cui l’uomo, tra polvere d’amianto e turni di lavoro estenuanti, ha offerto l’intera esistenza, garantendo alla sua famiglia un tenore di vita dignitoso: una casa di proprietà, gli studi del figlio al settentrione, una pelliccia per la moglie Lucia, morta di cancro molti anni prima.

Tra i due si instaurerà un rapporto dialogico in una sonorità emotiva in bilico tra la veemenza sgarbata del figlio e la puerilità sventata e invalidante di suo padre. Rapporto che attraverserà anche momenti di violento conflitto il cui culmine è immortalato in un frame di un braccio alzato a impugnare una bottiglia sul capo chino del vecchio, piegato in resa sul tavolo.

A chiudere il cerchio, la figlia incinta dei vicini (una brava Anna de Giorgio), come un’ombra silenziosa, entra ed esce dalla stanza e dalla scena in un andirivieni quasi ossessivo. Nei panni di una caregiver, a volte persa nel suo dolore, si prende cura dell’uomo con pazienza, premura e materna compassione.

Il figlio è un uomo arrabbiato, rancoroso, nervoso, sulla scena sempre agitato e impegnato in camminate veloci e in telefonate tonanti. Ha una gestualità irritante, una mano nella tasca dei pantaloni e il dito indice dell’altra mano sovente puntato. Inforca una sigaretta in atteggiamento strafottente, sembra incapace di perdersi in un ascolto indulgente; un uomo di un pragmatismo cinico e una concitazione surreale.

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Tutto ciò sembra stridere con la morbidezza del padre che, con un garbo che ha della poesia, ci conduce tra le pieghe della sua deriva psichica e della dolorosa solitudine. Ci smarriamo con lui nella perdita della memoria semantica e gestuale, in un non luogo in cui, confusamente, ciò che era non è più, in cui ogni interazione è transitoria potendo dissolversi da un momento all’altro; in una esistenza frammentata e oscillante tra il passato che torna a tratti e un presente informe.

In questo deserto emotivo, l’unico punto di incontro tra padre e figlio sarà la lettura di stralci del libro Il piccolo principe di Saint Exupéry. Il libro, letto dal padre al suo principino quando era bambino, rappresenta il solo bel ricordo che li lega. Sulla scena, come un amuleto, diventa una specie di canovaccio che a turno gli attori leggono nei momenti più intimi del loro racconto. La celebre frase: «Mi disegni per favore una pecora?» diventa la richiesta appassionata e ricorrente del padre al figlio.

I tentativi di lotta lasceranno lo spazio a una sorta di struggente consapevolezza, il vecchio padre accetterà la nuova destinazione per la quale ha già preparato la valigia con le sue poche cose. Ma non tutto è perduto, una fievole poetica speranza ci sorprenderà in un finale toccante.

Geniale l’impianto scenico di Michele Iannone; tre isole di sabbia e pietrisco come fossero tappeti e un profluvio di polvere nella credenza. Ogni volta che in scena gli attori aprono le ante una nube angosciante invade la cornice del palcoscenico; polvere come metafora dei veleni della fabbrica ma anche del deserto in cui annaspano le solitudini, rese in scena da due isolotti-pianeti laterali su cui insistono i protagonisti. Suoni di pianoforte disturbanti scandiscono i cambiamenti di inquadratura con le luci a volte accecanti e vivide altre volte speciali a far emergere particolari e atmosfere.

Uno straordinario Vito Signorile indugia pacatamente in movimenti minuziosi – come quando raccoglie invisibili granelli di polvere gravitanti nell’aria – , emoziona con la sua voce avvolgente, trasmette con lo sguardo liquido e smarrito tutto il dramma della malattia, modula i suoni restituendoci intatti lo stupore e la meraviglia infantile ma anche la rabbia e l’angoscia dell’essersi scoperto solo; non perde mai il ritmo e suggella sempre l’aggancio con l’interlocutore.

Quello che ci lascia un po’ perplessi è la caratterizzazione del personaggio figlio, benchè ben interpretato dal capacissimo Danilo Giuva. Troppo arrabbiato, troppo nervoso, anaffettivo. Fin dall’inizio la drammaturgia ha lasciato che lo odiassimo. Per quasi tutta la durata della pièce non ci è stato fornito nessun collegamento alla sua rabbia eccessiva, al suo rancore pervasivo se non qualche flebile accenno a una infanzia in cui il padre consumava la sua vita operaia in fabbrica, sottraendo tempo al loro rapporto. Possiamo fare solo congetture. Un mistero che non ci permette di immedesimarci nel suo essere figlio. Non riusciamo nemmeno a commuoverci nell’unico momento di apertura e  simil-dolcezza – un accenno di carezza – perché avviene quando il vecchio padre dorme e non può sentirlo.

Solo alla fine scopriamo che il giovane è arrabbiato perché, tanti anni prima, il padre non si era adoperato per curare sua madre, malata di cancro, in un posto migliore di un ospedale del sud. E nel sud si sa, la sanità non funziona. Ma anche questo forse non basta. O non riesce più, orama,i a farci cambiare idea.

Senza retorica. Dietro cosa si nasconde l’amore del figlio? Bisogno vitale di ogni uomo. Perché la Malattia può strapparti via tutto ma non la capacità di riconoscere istanti sconnessi di amore.

 

IL PRINCIPINO
Breve cronaca familiare da un trivani vista ciminiere

drammaturgia e regia Damiano Nirchio
con Vito Signorile, Anna de Giorgio e Danilo Giuva
con la partecipazione del piccolo Gabriele Milillo
disegno luci e suoni Carlo Quartararo
impianto scenico Michele Iannone
staff tecnico Roberto De Bellis e Luca Ippolito
ricerca costumi e attrezzerie Cristina Bari
assistente alla regia Simona Mastro
foto di scena Umberto Lopez
si ringraziano Associazione Alzheimer Bari – Onlus, Cooperativa C.R.I.S.I.
produzione Teatri di Bari/Abeliano
progetto Senza Piume

Teatro Abeliano, Bari
5 aprile 2019