ELENA ZETA GRIMALDI| La XX edizione di Primavera dei Teatri potremmo chiamarla − affettuosamente, s’intende – autunno dei teatri: non solo per il meteo incerto e mutevole, ma soprattutto perché sui palchi di Castrovillari si è messo in mostra un umido autunno dell’umanità, che si dirige – ma speriamo di riuscire a fermarci − verso il buio di un letargico inverno. Rapporto con la morte, negazione della memoria, rifiuto del confronto e del riconoscimento, violenza come metodo e soluzione, sono stati fantasmi e visioni aleggianti ovunque, con spietata franchezza, accorata ironia e delicata profondità, ultimi strumenti rimastici per reagire allo sgomento di questo presente su cui avanziamo come su scogli ricoperti di muschio.
La mia immersione comincia al Teatro Vittoria. In La ragione del terrore – debutto del Teatro Koreja con testo di Michele Santeramo – un intenso “monologo a due” ci inghiotte nel maelstrom di una storia accaduta davvero, attraverso il travolgente racconto di Michele Cipriani e i potentissimi sguardi di Maria Rosaria Ponzetta, che dialoga in silenzio, ora imponendo, ora soccombendo. Rinchiusi nello loro stretta storia, come sono rinchiusi nell’angolo della loro stretta stanza (mirabile creazione di Bruno Soriato e Mario Daniele), come tutti siamo rinchiusi nel nostro piccolo terrore cercando una via di scampo. O, almeno, un nascondiglio.
Sul palco un grande angolo di una piccola stanza che sembra volerci inghiottire tutti, prepotente e profonda. Un uomo si fa avanti in platea. Con il solo sguardo, profondo e prepotente come la casa che si è costruito, riesce a zittire in un soffio il vocio della sala. Accende una candela, le luci si spengono: deve raccontare una storia. Lei vuole che continui a raccontare quella storia. Sempre la stessa, per tentare di liberarla dal terrore. «Non potremmo raccontare un’altra storia? – prega lui – Per una volta, una storia diversa, una che abbia dentro almeno una risata». Ma il silenzio di quella figura invisibile parla chiaro. La candela si spegne e il racconto comincia, da ancora prima che nascessero. A dispetto delle lamentele del protagonista, ci sembra che in questa storia le risate ci siano, seppure amare, seppure a denti stretti, seppure, forse, per scaricare la tensione di sentirsi un po’ colpevoli. Colpevoli di essere stati fortunati, colpevoli di essere buoni, di stare bene, colpevoli di essere innocenti: colpevoli di non poterla capire fino in fondo, questa storia.
Una storia di uomini e di grotte, di uomini che vivono dentro le grotte, e di sentimenti che vivono dentro gli uomini come in delle grotte, nascosti negli scantinati dell’animo. L’odio è come il cuore, dice lui: ogni uomo l’ha dentro, ma quando si sta bene non ce ne accorgiamo; è quando si sta male che l’odio sale a galla. E batte, batte, batte, batte.
E quando l’odio bussa forte alla porta del petto e lo squarcia, persino i ghigni più amari non trovano più spazio. La detonazione è improvvisa, imprevista, sanguinosa.
Non c’è bisogno di studiare antropologia o psicologia per rendersi conto che quando ci troviamo messi all’angolo i nostri istinti più violenti tendono a venirci in aiuto; potremmo dire a ‘sostituirsi’ a noi, volendo ingannarci che siano cose che non ci appartengono più, ma in realtà sono solo nascoste dal velo della ‘civiltà’. Finché il velo non si squarcia, come succede in Noi non siamo barbari, debutto di Scena Nuda, che comincia con qualcuno che bussa alla porta di Mario e Barbara e dei loro vicini Linda e Paul, chiedendo aiuto e ospitalità in una notte piovosa e fredda. I primi decidono di ospitare il richiedente, al contrario dei loro nuovi amici che gli hanno sbattuto la porta in faccia. «Mai si sarebbero immaginate le conseguenze di questo evento», che vanno intersecandosi con un tocco di noir.
L’essenziale messinscena si avvale delle solite sedie (quattro) e di un tavolo che assume diverse forme tranne quella che gli è propria, costruendo un binario con il testo del tedesco Philipp Löhle, su cui viaggia a tutta velocità il solito tema del rapporto con il diverso, attraverso lo scontro di punti di vista dei personaggi, che passano dalla diffidenza, all’ammirazione, alla pena, all’odio, senza mai essere ciò che dovrebbero: equilibrati.
Un intenso dibattito sul tema che reitera concetti e frasi che ormai ripetiamo e sentiamo ripetere all’infinito da amici, passanti e politici. In alcuni momenti un po’ snervante, in altri tanto efficace da farti venire voglia di salire sul palco e prendere a schiaffi il demagogo di turno e la sua retorica approssimativa, o dare una strigliata alla crocerossina della situazione e al suo assistenziale buonismo. Impossibile prendere una parte. Se la diffidenza degli uni per l’africano – o forse è pakistano? − lo pone alla stregua di una bestia selvatica, le attenzioni di Barbara per Bobo – o si chiama Klint? − si pervertono nel suo contrario, innalzandolo di poco a livello di animale da compagnia, lasciandoci l’unica certezza possibile: «Noi siamo noi, e gli altri non lo sono».
Ma, come spesso la vita ci ricorda, anche il diverso più distante, in fondo, ci assomiglia, e potremmo ritrovarci a vestire i suoi panni senza averne avuto la minima avvisaglia. È il caso della storia ideata da Kronoteatro in Sangue del mio sangue (anteprima nazionale), liberamente ispirato a Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello di Michel Foucault, che raccoglie e discute i materiali relativi al sanguinoso episodio del ventenne francese che nel 1835 uccise i familiari per liberare il padre dell’oppressione della moglie.
Lo spettacolo si svolge durante la detenzione del giovane omicida, traslando la vicenda in un tempo indefinito che mette insieme un anacronistico Pierre Rivière, suo padre e due moderni secondini (uno dei quali incastrato in un matrimonio asfissiante), monologhi letterari e registri quotidiani; a scandirne il tempo, i materiali raccolti dal filosofo francese e dai suoi allievi. La compagnia conduce una «ricerca del confine del male, del marcio che può esserci sottopelle in ognuno di noi» (T. Bianco), quasi a volerci suggerire le ragioni del gesto di Pierre, certamente folle, ma i cui germi ci covano dentro, e potrebbero in ogni momento scatenare una febbre.
Una vicenda e una tematica altamente intriganti, e un’intuizione drammaturgica azzeccata quella del parallelo tra il giovane omicida e il suo secondino, che lo chiama “bestiolina” e da tale lo tratta, lo sottomette e lo umilia, lo disprezza senza accorgersi (al contrario del pubblico, a cui è palese quasi da subito) di somigliargli molto più di quanto voglia pensare. Buone idee che purtroppo non colpiscono nel segno come potrebbero, forse a causa del troppo materiale a disposizione, che, moltiplicando input e obiettivi, disperde l’attenzione e non affonda la lama nel punto vitale della questione.
Chi non risica non rosica, e, risicando e dialogando, rosicando e crescendo, ci avviamo verso il prossimo spettacolo.
LA RAGIONE DEL TERRORE
Teatro Koreja / Michele Santeramo
testo di Michele Santeramo
regia Salvatore Tramacere
con Michele Cipriani e Maria Rosaria Ponzetta
assistente alla regia Giulia Falzea
NOI NON SIAMO BARBARI
Scena Nuda
di Philipp Löhle
traduzione di Umberto Gandini
regia Andrea Collavino
con Filippo Gessi, Saverio Tavano, Teresa Timpano, Stefania Ugomari di Blas
assistente alla regia Daniele Palmeri
co‐produzione La Contrada Teatro Stabile di Trieste / Scena Nuda
in collaborazione con Civica Accademia D’arte drammatica Nico Pepe di Udine
SANGUE DEL MIO SANGUE
Kronoteatro
di Riccardo Spagnulo
liberamente ispirato a Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…di Michel Foucault
con Simone Benelli, Tommaso Bianco, Matteo Di Somma, Maurizio Sguotti
regia Maurizio Sguotti
produzione Kronoteatro
con il sostegno di Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello
Primavera dei Teatri
Castrovillari
25 maggio – 1 giugno 2019
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