DAVIDE NOTARANTONIO | È di qualche giorno fa un articolo di Renzo Francabandera in cui analizza due spettacoli ispirati al mito di Edipo e rappresentati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. In Edipo. Tragedia dei sensi del Teatro dei Lemming il meccanismo spettacolare è costruito per l’esperienza di un singolo spettatore, che viene bendato e guidato dai performer in un viaggio sensoriale che si conclude nella riacquisizione della vista, in una sorta di “rinascita”; in Tebas Land, di Sergio Blanco per la regia di Angelo Savelli, gli spettatori assistono a un dialogo tra un attore – che interpreta Blanco stesso – e un presunto “patricida”, ponendo in discussione la colpevolezza di un Edipo non consapevole del suo delitto. Uno è quindi uno spettacolo puramente sensoriale e ritualistico, l’altro è più filosofico-politico, ma sono legati da un meccanismo caro alla scena contemporanea: il re-enactement del classico, l’allontanamento dal testo originale per raggiungere un punto di vista nuovo. Non si slega dal senso e dalla metafora principali, ma li riflette con la luce della contemporaneità.

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Foto Andrea Macchia

Poi vi è un terzo Edipo, andato in scena a Carrozzerie n.o.t. Quello di Michele Sinisi, Edipo. Il corpo tragico, è ancora più lontano, dal punto di vista estetico, drammaturgico e semantico, dal testo originale rispetto ai due lavori sopracitati. Il corpo di Sinisi è la drammaturgia di questo spettacolo, si presenta al suo pubblico con una maschera grottesca dagli occhi tumefatti e una vecchia giacca sbiadita. Man mano questo corpo si svela fisicamente: tolte la maschera e i vestiti, raggiunge infine la nudità, che è manifestazione della natura libera dalle sovrastrutture culturali, e quindi verità assoluta. È perciò la ricerca della verità lo scopo della mise en scène dell’artista pugliese, così come era centrale nell’Edipo re di Sofocle: ma è una verità che viene ricercata al contrario, partendo dal finale, dall’esodo – Edipo che si acceca dopo il suicidio della moglie, e madre, Giocasta –, fino ad arrivare al principio di tutto, a quando Edipo sfidò e sconfisse la Sfinge risolvendo il suo indovinello. È quella, per Sinisi, la verità assoluta; è l’anthropos, l’uomo, o meglio l’umanità intera, la soluzione dell’indovinello, nonché della tragedia; siamo noi quell’umanità così come siamo noi Edipo, vittime e carnefici della nostra vita, afflitta da una harmartia primordiale e inevitabile.

L’esperienza drammaturgica è realizzata all’insegna dell’impatto della vista e dell’ascolto. Il pubblico entra in sala con Sinisi già in scena, di spalle, circondato da teli in plastica che ricordano il luogo di un delitto. Assieme a lui, Federico Biancalani, anche scenografo dello spettacolo, con addosso un costume da “controllore di treni” e che qui svolge proprio la funzione di controllore dello spettacolo: visita il corpo di Sinisi per assicurarsi che sia pronto, lo assiste nello svolgimento di azioni particolarmente complicate. Ma lui rappresenta anche la Sfinge, impegnata a risolvere un numero della Settimana Enigmistica e che esplica, con una voce sguaiata, l’enigma al pubblico: «Qual è quell’animalo (errore voluto nel testo, n.d.r.) che la mattina ha quattro zampe, il pomeriggio ne ha due e la sera ne ha tre?»
Da qui in poi, ritroviamo le cifre stilistiche ormai consuetudinarie della sperimentazione di Sinisi: le luci in platea e sulla scena perennemente accese, fisse, immobili; l’utilizzo di registrazioni audio al di fuori della diegesi del testo, ma ad esso direttamente proporzionate – come un’audio-lezione storiografica di Simone Faloppa sul teatro greco –; la reiterazione delle stesse azioni e delle stesse sonorità riprese in diversi frangenti dello spettacolo – come Sinisi che cerca di distruggere una maschera in polistirolo con un martello, o una registrazione che dice «Mind the gap» in costante loop –; l’utilizzo di attrezzature metalliche e idrauliche – un verniciatore a spruzzo, una scala pieghevole alle spalle del fondale di plastica, una gabbia di Ilizarov saldata sulla gamba destra di Sinisi –; la presenza palese, per non dire quasi protagonista, di apparecchi digitali sulla scena, come il computer che riproduce i file audio e il cellulare di Sinisi utilizzato per cambiare i testi di un piccolo display a led posto ai confini del proscenio. Se di confine possiamo parlare, poiché lo spazio della sala impedisce una qualsiasi via di fuga da parte del pubblico, che è schiacciato sulla scena tanto da diventarne quasi partecipe. Appunto, ne è vittima e carnefice.

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Il mito edipico viene riattraversato e riproposto in un insieme segnico che sembra di diretta ispirazione al teatro della crudeltà di Antonin Artaud: la parola, il linguaggio si reinventano ed evolvono durante lo spettacolo, partono dal mutismo, poi dall’emissione di suoni semplici, pieni; raggiunge la parola, ma all’inizio è in dialetto andriese, quindi un linguaggio atavico, che fuori dalla sua terra ben pochi comprendono; nel finale diventa italiano comprensibile a tutti. Il linguaggio si evolve dalla primordialità al raggiungimento della civiltà, in antitesi con lo sviluppo drammaturgico dello spettacolo che inizia dalla fine per raggiungere il principio. Mentre gli elementi scenici sono e agiscono da metafora del testo scenico: è ovvia l’assonanza della gabbia di Ilizarov all’handicap delle gambe di Edipo – a cui vennero bucate le caviglie per ordine di Laio, il padre –, ma diventa anche un ottimo appiglio per il verniciatore, da cui spruzza diversi colori sul telo di plastica con la stessa intensità di una brutta defecazione: nel mentre, in sottofondo, vengono riprodotte delle intercettazioni telefoniche di ben nota fama della storia contemporanea italiana.

La comunicazione con lo spettatore non si limita soltanto a questo uso simbolista dei segni ma, come accennato sopra, si estende grazie ai dispositivi digitali in scena, che sono anche estensione della personalità di Edipo. La sua ricerca della verità può espandersi, grazie alla tecnologia, anche al di fuori dello spazio teatrale, leggendo i testi sul display a led o telefonando alla propria madre, a cui chiede se è veramente suo figlio. Assicuratosi di ciò, può quindi compiere il “rito dell’incesto”: si gira di spalle e si masturba con l’aiuto del porno – di cui lo spettatore sente solo l’audio –, mentre Biancalani accende un incensiere.

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Si può, certamente, inquadrare questo gesto come un espediente banale di critica alla digitalizzazione dell’uomo contemporaneo – tema che, va tenuto in conto, è ricorrente nella poetica di Sinisi. Ma se si volge lo sguardo verso il testo sofocleo – e il teatro greco tutto –, si potrà apprezzare una certa attinenza a voler raccontare, tramite gli eroi tragici, la situazione sociale, politica, civile e antropologica di un’epoca. Ciò che non cambia è che Edipo rimane martire del proprio destino che pende sulla sua testa come una ghigliottina, così come Sinisi a fine spettacolo pende, nudo, a testa in giù sotto la scala pieghevole, che semiologicamente è anche simbolo di sventura. Ma Edipo è anche figlio del suo tempo, della sua società, e in esso è attore attivo e partecipante, ma anche vittima di usi e costumi. Ecco perché la necessità di svestirsi, di smascherarsi di tutto, per fuggire e tornare a uno stato fetale, ed è ciò che avviene fisicamente in scena. È corpo tragico, è anthropos, l’uomo o l’umanità tutta; la soluzione alla tragedia, e alla vita stessa.

 

EDIPO. IL CORPO TRAGICO

di Michele Sinisi
con Michele Sinisi, Federico Biancalani
collaborazione alla drammaturgia Francesco M. Asselta
scene Federico Biancalani
prodotto da Elsinor – Festival delle Colline Torinesi / TPE
sostegno alla produzione MAT, laboratorio urbano, Terlizzi (BA)
progetto FARSA

Carrozzerie n.o.t., Roma
25 ottobre 2019