ANTONIO CRETELLA | Nella psicosi generata dalla diffusione del coronavirus e dell’altrettanto perniciosa diffusione di ingiustificati allarmismi e picchi di sinofobia, la notizia dell’isolamento del virus da parte di un team di ricercatrici italiane è stata accolta con sollievo e con il giustificato (per una volta) orgoglio patriottico per i risultati ottenuti dal comparto della ricerca italiana nonostante le poche risorse che una miope politica vi destina. Nel dare la notizia, molte testate, oltre a sottolineare l’origine meridionale delle scienziate, hanno altresì ritenuto opportuno aggiungere alla parola “ricercatrici”, di per sé già ampiamente trasparente per la marcatura grammaticale del femminile plurale, anche la parola “donne”. Quale sia l’utilità pratica di una simile ridondanza di informazioni non è chiaro, almeno non quanto il complesso di pregiudizi che essa veicola all’interno di una cultura attivamente sessista. Qualcuno avrà ritenuto opportuno sottolineare il genere biologico delle scienziate in buona fede, volendo denunciare lo scarso peso accordato alle donne nel campo della ricerca, altri l’avranno utilizzato per evidenziare malignamente una rara eccezione, quasi che le ricercatrici abbiano raggiunto un tale ragguardevole risultato a dispetto della loro tara biologica. Non solo, le ricercatrici hanno avuto anche l’ardire di essere meridionali, e anche in questo caso la parola assume doppia valenza: qualcuno avrà voluto sottolineare quanto sia difficile emergere in un contesto che paga più di altri la scarsità di investimenti, altri più sbrigativamente volevano evidenziare la lombrosiana inferiorità mediterranea. Quale che sia la motivazione, la sovrabbondanza di definizioni rimane odioso indice di un problema culturale ben lungi dall’essere superato, la spia linguistica di modelli di pensiero che ancora informano la percezione della realtà di un numero preoccupantemente elevato di persone.