ILENA AMBROSIO | Una luce gelida. Uno spazio pietrificato, letteralmente – due pilastri, cumuli di cemento sparsi – e metaforicamente in un tempo indefinito. Una giovane donna aderente alla causa jihādista, Leila, e un uomo, il prete che la accoglieva in una casa famiglia, si rivedono dopo anni. Ciò che è accaduto, il perché delle loro scelte, ciò che provavano e provano l’una per l’altro lo scopriremo a colpi di parole cariche di rancore, di rivendicazioni, ricordi amari e amareggiati che ricostruiscono – in una concatenazione di flash back che si avvicina al cinematografico – le motivazioni e gli antefatti di questa loro guerra. È Guerra Santa, testo scritto da Fabrizio Sinisi – vincitore del Premio Testori 2018 per la sezione Letteratura – e messo in scena con la regia di Gabriele Russo (a fine gennaio il debutto al Teatro Bellini di Napoli).
Un lavoro che incastona nella grande storia, nel grande conflitto tra religioni, due esistenze che in quella storia e dal quel conflitto si ritrovano a giocare la propria parte ma trascinati da un tumulto prima di tutto interiore, fatto di mancanze, aspettative disattese, amore, odio.

Guerra Santa è un testo dal taglio nettamente dialogico. I due personaggi vivono in una (non) azione fatta di parole vomitate l’una contro l’altro tramite un’alternanza di blocchi monologici. Come ti sei approcciato a un testo che pare dare poco spazio alla vera e propria azione scenica?

Strutturalmente il testo può essere inteso come un susseguirsi di monologhi che sostituiscono la vera e propria azione. Però, a differenza di un monologo, c’è comunque un personaggio sempre in ascolto: questa era la prima difficoltà che il testo mi poneva e che mi ha portato a lavorare molto con gli attori proprio sulla loro disposizione, anche fisica, all’ascolto.
D’altra parte la struttura del testo è assolutamente non naturalistica. Eravamo consapevoli del rischio della messa in scena, dell’esito incerto della fruizione ma sia io che Fabrizio abbiamo scelto di assumerci questo rischio.
In assenza di un’azione in senso stretto ho scelto come via quella di una grande azione emotiva nei personaggi, un lavoro intenso e molto scoperto. Anche con gli effetti luce non ho mascherato nulla, come a voler evidenziare quella difficoltà, senza cercare strade per nasconderla. Ho sentito che la strada era fare in modo che gli attori si trovassero totalmente scoperti in questa lotta con la parola. Di solito le mie regie sono più articolate e ritmate mentre questa volta ho sentito di dover aderire alla natura anche dogmatica di questo testo e di seguirla senza paura.

Assistendo allo spettacolo, infatti, mi sono proprio chiesta come mai non avessi aderito alla tua “cifra” registica cercando di compensare l’asciuttezza del testo. La strada dunque è stata: nudo il testo, nuda la scena?

Sì, sentivo che qualsiasi cosa sarebbe stata un abbellimento poco onesto. Riguardo al tema della cifra è certamente una cosa che mi piace avere dei tratti distintivi ma sostanzialmente cerco sempre di seguire la drammaturgia. Forse c’è da dire che anch’io sto cambiando. Nonostante la difficoltà di questo testo ne ho sentito molto forte alcune parole, anche perché essendo un giovane padre, sentivo di aderire sia alle ragioni di lui che a quelle di lei.

A proposito di queste ragioni “guerra santa” è un’espressione che ci riporta immediatamente a un contesto ben definito; ma prima ancora delle motivazioni storiche e religiose si coglie una forte presenza di motivazioni personali, come se questa fosse una guerra prima tra individui trascinati, poi, da una guerra più grande di loro. Quali sono le sfaccettature di senso che hai sentito con più forza?

Sicuramente ci sono più livelli di lettura; si parla anche di religione ma come conseguenza di un percorso intimo e personale. La religione diventa un’ancora cui aggrapparsi per sfuggire ai propri demoni. Concettualmente quello che mi sembra condivisibile delle ragioni di Leila è il suo “rancore” verso un mondo occidentale che non offre valori a cui aggrapparsi, privo anche di vere ragioni per vivere – parla di ragazzi con «occhi spenti e morti
come di cadaveri nell’acqua
occhi senza scopo senza senso
senza alcun furore senza vita marionette tristi» – e accusa lui, che voleva farla uniformare a questo mondo, di averle dato prospettive di vita mediocri. Allora trova nella radicalizzazione del pensiero un motivo più grande per cui vivere.
Ma oltre a questi aspetti ideologici Guerra santa parla anche di rapporto tra padri e figli e soprattutto di amore. Secondo me la cosa di cui più parla è l’amore mancato e di quanto un amore mancato possa cambiare il tuo percorso, farti fare scelte estreme, come è estremo aderire al terrorismo.

Questo Leila lo dice con molta chiarezza quando rimprovera lui di non averli denunciati dopo l’attentato alla parrocchia di cui erano ospiti. Nel rapporti tra padri e figli c’è sempre errore, un padre rischia di sbagliare sempre, anche quando vuole il bene per i propri figli.

In qualche modo lei lo rimprovera di essere stato troppo morbido. Come padre questo mi ha portato a interrogarmi: ho un rapporto molto conciliante con mia figlia, ma magari verrà un tempo in cui mia mi rimprovererà di non averle dato qualche dictat più deciso. Anche queste sono domande che il testo pone, senza risolve ma aprendole con forza. Qui sta la complessità del lavoro. Fabrizio ha una grande profondità di analisi e di svisceramento delle motivazioni, per cui anche se manca una vera e propria azione scenica le parole, una volta dette, diventano esse stesse azione.

In effetti è proprio in queste parole-azioni che si materializza la guerra, la quale riempie uno spazio scenico quasi nudo dove imperano due pilastri e blocchi di cemento sparsi. Come hai disegnato questa immagine?

È, prima di tutto, una scena non invasiva, ma molto specifica. I due pilastri mi sono venuti in mente pensando a un sottopasso stradale, a un paesaggio che raccontasse il decadimento elle strutture, dell’occidente, di parte del Paese. Quei pilastri li ho visti anche come simbolo delle ferme posizioni dei due personaggi e delle religioni di cui si fanno rappresentati.

Infatti abbiamo, fino a ora, parlato degli individui ma Leila e il prete sono lì anche in rappresentanza di due religioni e delle posizioni storicamente connotate che le caratterizzano. Anche da questo punto di vista c’è una lettura profondamente relativista. Alla fine è possibile dire chi sono i buoni e chi i cattivi?

Questo è un altro tema fondamentale. Il termine Jihād, nel suo ampio spettro di significati, ingloba anche il conflitto tra bene e male che è in ognuno di noi. La cosa disturbante dello spettacolo è che in qualche modo puoi aderire anche alle ragioni estreme di lei. Ciò non vuol dire pensare a un attentato, ma capire che ci sono cose che albergano anche dentro di noi. È molto più semplice pensare che ci siano persone cattive e persone buone, ma non è così. Spesso ci sono circostante che ti portano, inaspettatamente, a comprendere le ragioni degli altri anche se quelle ragioni conducono a scelte terribili.