GIORGIO FRANCHI | “Il popolo fa sentire la sua voce”, “il governo sta in silenzio”: due frasi bastano a descrivere un’insurrezione, due poli opposti dello spettro acustico incapaci di mediare per una strada favorevole a entrambi. Elementi divergenti che giocano un ruolo centrale anche nelle proteste che avanzano sotto lo slogan di Black Lives Matter, contendendosi l’ago della bilancia che pare pendere verso il secondo: ciò che colpisce di questa protesta, tra le urla in piazza, gli slogan e i cori, è l’incredibile importanza che sta conquistando il silenzio, marcia dopo marcia, giorno dopo giorno.

Come simbolo mediatico per le proteste degli afroamericani è stato scelto un quadrato nero, non solo per simboleggiare le istanze della popolazione di colore, ma anche perché, condiviso in massa da milioni di profili Instagram, Facebook e Twitter, desse l’impressione che le homepage dei social si fossero spente. Le criticate piazze per le legioni di imbecilli di Echiana memoria tacciono per lasciare spazio alle parole e alle immagini dei manifestanti. Un silenzio che serve a creare le condizioni di ascolto di un problema che si percepisce come più urgente che mai.

A questo tacere emblematico se ne è aggiunto un secondo, con il consueto strascico di polemiche e ipotesi divergenti: quello del primo ministro canadese Justin Trudeau. Intervistato sulle proteste del Black Lives Matter e sulla sua riluttanza a esprimersi sull’operato di Donald Trump, all’alba della sua richiesta di schierare l’esercito contro i manifestanti, il presidente fa qualcosa che non si vede tutti i giorni: tace. A lungo non dice una parola, con lo sguardo nel vuoto velato di imbarazzo e tensione, schiarendosi la voce come tentativo di occupare quel vuoto.

Ci si aspetta che chiuda tutto con un no comment, e invece, dopo ventun secondi, finalmente risponde. Lo fa con parole cadenzate in cui il silenzio si esaurisce a fatica, non interessanti nel loro contenuto generico – circostanziale quanto nel fatto che sembrano tutte pensate a lungo e a fatica. Ma il discorso diventa ancora più sorprendente quando finalmente accelera e inaspettatamente lo fa quando sposta l’attenzione a casa sua, denunciando il razzismo sistemico in Canada e riconoscendo quanto lunga sia la strada da percorrere ancora per eradicare le discriminazioni nel Paese di cui è presidente. In sintesi: tace per riflettere, parla a fatica, riprende la parlantina quando affronta qualcosa di cui è responsabile.

Insincero, ipocrita, opportunista, populista: si muova qualsiasi critica al suo intervento, ma non si può negare la differenza di stile con quelli del suo collega statunitense. Nell’intervista di Fox News del 12 giugno, il tycoon afferma di aver fatto più per i neri di ogni altro presidente americano, Lincoln incluso. Non teme di esporsi, anche con opinioni controverse in una situazione di crisi, secondo il codice comportamentale del leader vecchia scuola: avere un’opinione per tutto, averla subito, non fare marcia indietro.

Nessuno ha la sfera di cristallo e può predire cosa ne sarà di questa protesta. Tra le ipotesi messe finora sul tavolo, tuttavia, manca quella che tutto finirà in una bolla di sapone. Sembra che gli oppositori siano costantemente a corto di argomenti e che la consolidata retorica del benaltrismo vittimista (all lives matter!) abbia perso l’efficacia di un tempo. Se siamo veramente sulla soglia di un periodo che finirà sui libri di storia, questi giorni tracceranno una bisettrice tra i Trudeau candidati a un posto nel mondo che verrà e i Trump che saranno rimasti ancorati a un passato ormai finito.
Il silenzio segna un punto sul tabellone.