FABIO MASSIMO FRANCESCHELLI | Negli ultimi anni ho letto 2 romanzi vincitori del massimo premio letterario italiano, La Ferocia di Nicola Lagioia, 2015, e Il Colibrì di Sandro Veronesi, 2020. Sarà un caso, ma mi sono sembrati fratelli nei loro pregi e difetti. Mediamente ben scritti (meglio Veronesi però), con qualche ottimo capitolo (ma giusto qualcuno, eh), una lingua da mestieranti navigati, più asciutta quella del Colibrì e più barocca e vanitosa quella della Ferocia. Questi i pregi. I difetti li ho trovati in storie inverosimili, personaggi stereotipati e superficiali, situazioni e caratteri infarciti di luoghi comuni. E infine, in entrambi i casi, la narrazione di ambienti e dimensioni altoborghesi, come se non solo il privilegio di narrare e vincere premi, ma addirittura quello di essere narrati, essere oggetto degno di narrazione, debba essere un’esclusiva dei ricchi. Si espelle la povertà (o anche la “normalità” piccolo borghese) dagli immaginari narrativi. Perché? Per pregiudizi classisti? Perché la gran parte dei narratori non l’hanno mai conosciuta e quindi non saprebbero raccontarla? Perché si ritiene poco interessante? Perché si pensa che chi è impegnato tutti i giorni a “sbarcare il lunario”, o anche a timbrare il cartellino, non viva una vita abbastanza ricca, né pratica né interiore? Perché si tratta di esistenze troppo poco luccicanti e patinate?
Spero di no, spero di sbagliarmi, spero non sia così soprattutto oggi in quest’Italia post covid dove la marea dell’indigenza sale inesorabilmente ovunque. Insistere su questa strada significherebbe fuggire dalla realtà e rinunciare a raccontare quel che i media chiamano “paese reale”.
Ma poi, a rifletterci meglio, mi chiedo se il pregiudizio classista in realtà non nasconda un peccato ben più grave, non (appunto) classista ma letterario. Mi chiedo se non sia altro che il rifugio scelto dalla coppia autore-lettore per celare l’incapacità ad affrontare la verità dei personaggi, la loro contorta e labirintica profondità, la loro noia, banalità, inettitudine, l’inesauribile e inafferrabile concetto di “umanità”. Ci si rifugia nei tópoi, meglio se eccezionali e patinati, ricchi di “effetti speciali”, perché ci fa paura conoscere la fatica e il dolore e la lentezza dell’introspezione.
Forse andrebbe ridefinita la forma romanzo e in particolare le aspettative che questo prodotto industrial-creativo muove. Forse è una questione di educazione letteraria. Qualche esempio a parte i soliti toni di Proust, Musil e Dostoevskij? Mah, così “su due piedi” mi viene in mente questo piccolo immenso libricino letto tanti anni fa, eppure indimenticabile, Chesil Beach di Ian McEwan. Se questa “non-storia” (storia di stasi e incapacità), con due perdenti come protagonisti fosse stata scritta da un italiano avrebbe mai vinto lo Strega?
LA PROFEZIA
dalla pagina Facebook di Fabio Massimo Franceschelli
Chiudo il mio 2019 da lettore con questo romanzo di Veronesi che molti già pronosticano vincitore del prossimo Strega e che più di qualcuno ha definito capolavoro. Che finisca per vincere lo Strega mi sembra probabile, che sia un capolavoro no, assolutamente no, né nell’accezione di seminalità, né in quella di apicalità. È un romanzo con almeno tre o quattro capitoli scritti molto bene ma che per il resto sostituisce troppo spesso il narrato col raccontato, un raccontato cronachistico che tratteggia sbrigativamente superfici rinunciando ai dettagli della profondità e al necessario respiro che ogni buon romanzo deve avere. Infine – limite che da molto tempo e da più parti viene riferito all’intera narrativa contemporanea italiana – si tratta di una storia classista ed elitaria, dell’ennesima vicenda alto-borghese che (purtroppo o per fortuna) non mi riguarda, non mi rappresenta, non narra il mio mondo né quello della stragrande maggioranza degli italiani.