RENZO FRANCABANDERA | È stata quella che potremmo definire una ripartenza con affaccio sulla complessità del presente: L’attore nella casa di cristallo una produzione originale di Marche Teatro – testo e regia di Marco Baliani, da un’idea di Velia Papa, scenografia e luci Lucio Diana, costumi Stefania Cempini – ha debuttato Lunedì 15 giugno, giorno fissato per il tanto atteso ritorno degli spettacoli, alle ore 21.
Il pubblico come in un film di fantascienza è entrato in teatro con la mascherina, con la misurazione della temperatura, per poi tornare all’aperto a sedersi, a distanza di sicurezza, nel piazzale del Teatro delle Muse di Ancona con l’allestimento scenico a vista. Qualcosa che resterà nella storia di questo linguaggio, anche oltre lo spettacolo stesso.

Ogni sera dal 15 al 28 giugno, due attori/attrici rinchiusi ciascuno dentro una grande teca trasparente, hanno offerto al pubblico di Ancona due monologhi incentrati sui temi dell’amore, della memoria del corpo, della fine e dell’attoralità (si alternavano a date alterne le coppie composte da Petra Valentini / Michele Maccaroni e Eleonora Greco / Giacomo Lilliù).

Lo spettacolo avvia una riflessione sulla condizione dell’artista oggi ma implicitamente dialoga con il contesto distratto in cui si innesta l’azione creativa nel nostro tempo. Il soddisfacimento del bisogno creativo non legato alla mera sopravvivenza umana, ma di cui l’uomo avverte la necessità fondamentale in maniera subitanea, quasi come passaggio fra sogno e realtà, risponde a molteplici esigenze di autonarrazione e di narrazione del contesto che ci accoglie, e l’isolamento vissuto in ragione dell’esperienza pandemica, la lontananza, l’allontanamento, hanno portato al centro della riflessione degli artisti il tema della connessione fra arte e società.
Il fare arte crea un ponte fra sé e gli altri, che fin dall’antichità supera le dimensione figurativa statica per diventare elemento dinamico (danza, rito, teatro) capace di creare non sono raffigurazioni simboliche ma anche relazioni interpersonali dirette, connessioni. Chi più dell’attore, dell’interprete dell’arte dal vivo ha vissuto in maniera acuta questo dramma di isolamento, di costrizione alla pausa, al non poter fare?
Cosa è successo durante l’esperienza pandemica, in cui l’elemento della connettività fisica tangibile è venuto meno, ma si è amplificato a dismisura quello della connessione virtuale?
La pratica professionale dell’arte in generale, e di quella dal vivo in particolare, ha subito una crisi di percezione da parte della comunità. Eppure mai come ora l’arte serve a ripensare a futuri immaginabili, a soluzioni concrete per il vivere comune, magari ripensando le fondamenta del consesso sociale, prima di abbandonarsi a derive violente e inarrestabili. L’artista è l’unico medium concreto, tangibile, fra l’uomo e la speranza.
Distanziare l’uomo dall’arte, cristallizzare il linguaggio in una teca museale, permettendo che da quei contenitori vengano fuori solo voci confuse e sovrapposte, è una crudeltà che stiamo accettando, una circostanza su cui si fonda il pensiero di questo lavoro, affidato a quattro attori giovani, vestiti come se fossero in un ricovero sanitario, musealizzati dentro teche attorno alle quali la città continua la sua vità distratta, il passeggio.
E loro dentro, a recitare un monologo, udibile, forse, solo a chi è dotato dei dispositivi di connessione.
Siamo connessi nel nostro presente?
C’è uno spazio vivo e vitale per l’arte oggi? È uno spazio per pochi o per molti?

Ho assistito all’evento, videointervistando Velia Papa e Marco Baliani, in una riflessione che parte dallo spettacolo per riflettere su quale teatro sarà possibile domani.