Essere o non essere, questo è il problema.
Se sia più nobile sopportare
le percosse e le ingiurie di una sorte atroce,
oppure prendere le armi contro un mare di guai
e, combattendo, annientarli.
Morire, dormire.
Niente altro.
E dire che col sonno mettiamo fine
al dolore del cuore e ai mille colpi
che la natura della carne ha ereditato
È un epilogo da desiderarsi devotamente.
Morire, dormire.
Dormire, forse sognare: ah, c’é l’ostacolo,
perchè in quel sogno di morte
il pensiero dei sogni che possano venire,
quando ci saremo staccati dal tumulto della vita,
ci rende esitanti.
Altrimenti chi sopporterebbe le frustate e lo scherno del tempo
le ingiurie degli oppressori, le insolenze dei superbi,
le ferite dell’amore disprezzato,
le lungaggini della legge, l’arroganza dei burocrati
e i calci che i giusti e i mansueti
ricevono dagli indegni.
Qualora si potesse far stornare il conto con un semplice pugnale,
chi vorrebbe portare dei pesi
per gemere e sudare
sotto il carico di una vita logorante
se la paura di qualche cosa dopo la morte,
il paese inesplorato dal quale nessun viandante ritorna,
non frenasse la nostra volontà,
facendoci preferire i mali che sopportiamo
ad altri che non conosciamo?
Così la coscienza ci fa tutti vili
e così il colore innato della risolutezza,
lo si rovina con una squallida gettata di pensiero
e le imprese d’alto grado e il momento,
proprio per questo, cambiano il loro corso
e perdono persino il loro nome di azioni.

(Amleto, Atto III, scena I)

FRANCESCA SATURNINO | A Sansepolcro sembra che le stelle ti caschino addosso. Le ammiri la sera, come scorcio tra un palazzo monumentale e l’altro, nelle strade ampie, piane, armoniche di pietre antiche, benefiche, sicure. Qui tutto è regolato dalla divina proporzione, la mistica «mensura Christi» di Pacioli e Piero della Francesca: e si sente. Lo spazio della città e la sua disposizione influenzano corpo, energia, pensiero. Assume allora un senso ancora più rituale l’apertura di Kilowatt Festival 2020, affidata al padrino Roberto Latini nella piazza centrale del Palazzo Pretorio: la sconvolgente bellezza della Resurrezione di Piero della Francesca dietro, la luce chiara e calda del meriggio a fare da sfondo al primo movimento di Nnord_Paralipomena e parerga, una serie di scritture che Latini ha commissionato ad hoc agli allievi del Corso di perfezionamento per Dramaturg internazionale nel percorso di Alta Formazione di Ert, di cui è stato docente. Scritture argute, impertinenti, vive, che scavano il presente e problematizzano, dall’interno, la funzione della scrittura (teatrale) stessa.

Kilowatt Festival, nell’anno della pandemia, ha alzato il tiro. Non solo ha confermato la diciottesima edizione, ma ne ha fatto una festa, un momento necessario, in cui la comunità di artisti, lavoratori, spettatori, critici si è ritrovata attorno a un fuoco che non ha mai smesso di bruciare e che arde, sotto le macerie della catastrofe che improvvisamente ci ha travolto. Brucia nella riscrittura del mito delle Baccanti di Simone Perinelli che, con Levidelfool, ci fa sprofondare in un sogno favoloso e allucinato di maschere antiche, interferenze sonore, amplificazioni e distorsioni della voce. Abile incantatore, passa da un personaggio all’altro: narratore, Penteo, Dioniso, baccante. La scena, raffinata e minimale, è un circo coloratissimo, (non)luogo dove il mito viene filtrato e esplode come in un rebetiko impazzito che accende la bellezza e la fantasia.


Parte sempre dal mito il lavoro prezioso del Teatro dei Borgia che, con la scrittura di Fabrizio Sinisi e la regia di Gianpiero Borgia, fa degradare il mito euripideo di Eracle in un anti eroe dei nostri giorni. Nel chiostro del Palazzo delle Laudi, Christian Di Domenico ci attende in panni da lavoro, dietro a un bancone di una cucina, intento a preparare cestini per il pranzo con il sottofondo di una radio accesa. Preciso e metodico, mentre “lavora” alla mensa, ci affida la sua storia: da padre felice e insegnante modello a morto di fame, separato, costretto a vivere in macchina e mangiare alla mensa: invisibile. Ed è proprio da qui che lo spettacolo è nato: la compagnia ha raccolto storie al Bistrot popolare di Brescia e ne ha fatto materia viva, politica, che parla al presente.

Tra gli spettacoli in piazza, segnaliamo Last space, coreografia urbana del virtuoso gruppo italo spagnolo Frantics Dance Company. I quattro danzatori producono un flusso ininterrotto d’immagini, gesti; in solo o in ensemble: i corpi si muovono, abitano Piazza Torre di Berta con un movimento fluido, poetico. Due ciclisti passati per caso sfrecciano veloci nello spazio della scena; un anziano, uscito da una farmacia, lo attraversa; l’intera piazza a un certo punto è ferma, in silenzio: tutti, spettatori e avventori casuali, sono fermi a guardare.


L’interazione involontaria tra teatro/danza e spazio urbano è uno degli accadimenti pubblici e comunitari più interessanti del festival che, da anni, grazie alla costanza e la sinergia dei due direttori Lucia Franchi e Luca Ricci, è diventato uno dei poli attrattori della città. Ne parlo anche con Alessia Uccellini, architetto, chef, oste sopraffina e accogliente, giornalista televisiva che, assieme al fratello Alessandro, gestisce il mitico ristorante Fiorentino attivo da circa due secoli, in città.

I primi giorni sono stati segnati, più di tutto, dal “patron” Latini. Oltre ad aver prestato la voce alle scritture firmate dagli allievi del corso di dramaturg, l’artista ha donato al festival alcune esperienze indimenticabili. La prima è la mostra/ istallazione Carta Carbone per un partecipante alla volta. Non voglio svelarne molto: trattasi di un’esperienza intima, molto personale che ci apre, per qualche minuto, le infinite possibilità di giocare con le parole – parole alte, come quelle dell’Amleto – e con la voce, e di sbirciare con animo, orecchie e il corpo tutto, nell’universo di «aurofonia» e presenza di Roberto Latini e Gianluca Misiti.
A corollario della mostra, il patron si è letteralmente consumato in scena, donandoci un’esperienza di Teatro in presenza tra le più metafisiche e traumatiche che uno spettatore possa fare – nel Fortinbrasmachine, lavoro/ manifesto della sua poetica.

A proposito di teatro/trauma, dobbiamo dar conto di un altro appuntamento incendiario a Kilowatt. I due curatori della rassegna hanno dedicato alla pratica teatrale di Roberto Latini La tradizione dell’innovazione, una due giorni di convegno corale e polifonico cui si sono susseguiti, in ordine sparso, interventi di critici, curatori, giornalisti. Del primo giorno, oltre ad alcuni aperture interessanti – soprattutto la parte riguardante la presenza/ funzione del teatro nella vita quotidiana della società, con un’evidente apertura sulla questione di come questo in Italia non sia minimamente contemplato – resta memorabile la primissima ora. I fortunati astanti hanno avuto la fortuna di assistere a un botta e risposta impro- situazionista tra Antonio Rezza, Flavia Mastrella e Roberto Latini con Luca Ricci. Gli argomenti, toccati in velocità, sono stati molteplici e di vitale importanza: la finta trasgressione scenica che altro non è che è consenso e omologazione; il venir meno totale della funzione dei critici, che dovrebbero smascherare tutto questo.

L’importanza del fallimento, della sconfitta, del rifiuto; la necessità di una gerarchia tra chi «fa» e chi «vede» nella buona fede tra teatranti e pubblico che ogni sera sotto scrivono un patto. Fondi ministeriali: lo Stato che ha comprato l’arte e l’arte di Stato; un appello di Rezza all’Arte, affinchè gli Artisti non facciano giornalisti e non cavino fuori materiale da questa pandemia. Una sola certezza: «l’arte non dev’essere per niente rassicurante». Rezza, come sempre, caustico e sarcastico; Mastrella mordace; Latini felicemente posizionato tra i due fuochi, a distillare aneddoti sui suoi primi lavori, tra cui l’indimenticabile incontro con Leo (de Berardinis). La platea ammaliata, innamorata, accorata, partecipe, come un incontro tra vecchi amici che non si vedono da (troppo) tempo. Ce ne fossero sempre, di chiacchierate così. La due giorni di Kilowatt (mi) resta dentro. Perché è (stato) un festival, un festival vero, dove ci s’incontra, ci si rivede, dopo la distanza di sicurezza e di pensiero imposta, e dove nascono o si riaccendono idee, visioni, prospettive: ci si riconosce, infine, in una dimensione umana. Restano i bagliori notturni, le palpitazioni e lo shock durante alcune visioni, guardarsi negli occhi, ascoltarsi, ascoltare alcune parole/ “famakon” dette quando «succede» il Teatro; i passi lenti, nelle strade larghe di pietra, sotto le stelle che ti cadono addosso.

Foto: Elisa Nocentini e Luca Del Pia