MATTEO BRIGHENTI | Il Coronavirus aveva rinviato Trasparenze Festival 2020 a date da definirsi. Alla fine, si sono definite davvero: dal 31 luglio al 9 agosto. Sembra impossibile, ma per una compagnia come il Teatro dei Venti, che ha prodotto un pezzo di artigianato teatrale come Moby Dick, l’impossibile è l’unica scelta possibile. Stefano Tè e compagni non ne vedono, né accettano altre. Sarebbe come non riconoscersi più allo specchio. «Trasparenze racchiude il nostro modo di essere e di fare, così come Moby Dick è il manifesto del nostro modo di intendere il teatro – afferma il regista e direttore artistico. Abbiamo sempre cercato di essere coerenti: se in questo momento, per forza di cose, sentiamo la necessità di prenderci del tempo per curare il nostro mestiere, allora stiamo inventando un Festival che è così. A oggi Trasparenze mi fa stare a posto. Forse – continua – anche al termine di questa rinnovata VIII edizione mi sentirò così, perché avremo costruito qualcosa che è in linea con il nostro modo di pensare ora».
È una traiettoria che si dipana tra Appennino e città, tra isolamento e necessità di relazione, alla scoperta di nuovi percorsi di turismo culturale. A Gombola, frazione di Polinago, nei fine settimana 31 luglio-1-2 agosto e 7-8-9 agosto; a Modena nelle giornate del 3-4-5-6 agosto. «La coerenza è credere fortemente in quello che stai facendo – ragiona Tè – non ha senso vivere con pochi soldi, in una precarietà che diventa spesso disarmante, se poi devi scendere a compromessi. Devi creare situazioni che condividi a pieno».
In programma teatro, danza, musica e appuntamenti con il sociale, insieme ad artisti come, tra gli altri, Aterballetto, CollettivO CineticO, Vittorio Continelli, Andrea Cosentino, Ginevra Di Marco e Francesco Magnelli, Iaia Forte e Javier Girotto, Ermanna Montanari / Teatro delle Albe, Peppe Servillo e Natalio Mangalavite, il Progetto Cantieri. Trasparenze quest’anno è realizzato con ATER – Circuito Regionale Multidisciplinare, e la stabile consulenza artistica di Giulio Sonno. «Trasparenze ha dato al Teatro dei Venti la possibilità di raccontarsi. Forse – rivela Tè – solo con gli spettacoli non avremmo mai avuto l’opportunità di mostrarci per come siamo realmente. A Modena ha dato un luogo di riflessione e di sguardo sulle marginalità della nostra società. L’arte in periferia è qualcosa che prima non esisteva». E d’ora in avanti salirà fino in montagna.

Veduta del borgo di Gombola

La prima domanda immagino tu la conosca già. Me la porto dietro dall’inizio della pandemia, per ricordare da dove veniamo e dove, nonostante tutto, ancora siamo. In tanti hanno definito questo tempo come “sospeso”. Per voi cosa ha significato?

Abbiamo vissuto cercando di fare quello che abbiamo fatto in altre occasioni: metterci davanti al problema e trovare delle soluzioni, reinventandoci una maniera di stare al mondo. È stato un tempo, quindi, che ha messo alla prova la nostra abilità di trasformarci continuamente per sopravvivere, scovando nella crisi spunti per nuove ripartenze. Le difficoltà, comunque, sono enormi. Avevamo investito moltissimo su Moby Dick e ci troviamo ad aver perso più di 25 repliche in giro per il mondo. A livello personale, per me il lockdown è stato veramente claustrobico: io stavo male, mi mancava l’aria.

Nel pieno del confinamento da Coronavirus, a inizio aprile, hai detto: «Il doloroso momento di separazione che stiamo vivendo ci chiede di fare esperienza di questo tempo incerto e di sapere interpretare, ora più che mai, il desiderio di tutti di essere vicini, uniti e solidali». Ci siamo riusciti? Ci stiamo riuscendo tuttora?

Guarda, per me no, non ci siamo riusciti allora, né ci stiamo riuscendo adesso. Abbiamo vissuto quel periodo particolarmente critico provando a riallacciare rapporti persi nel tempo. All’apice della criticità, nella fase davvero drammatica di quei primi mesi, tutti abbiamo avuto, secondo me, la reazione istintiva di recuperare il contatto con i collaboratori, con i colleghi, per condividere il momento e immaginare dei progetti per il futuro. Quando poi c’è stata la riapertura, ognuno è tornato a ripercorrere le sue proprie strade, tentando di rientrare in una qualche forma di normalità. Perciò, si è persa quella fase dove ci sentivamo uniti, con l’intenzione di uscirne insieme. Siamo tornati come prima, senza aver fatto del tempo “sospeso” alcuna vera esperienza.

Il Covid-19 ha fermato Moby Dick, ma anche Trasparenze Festival. L’idea poetica e progettuale dell’edizione 2020, la VIII, era sintetizzata con chiarezza nel titolo: Abitare Utopie. Un progetto, però, hai aggiunto mesi fa, che proprio durante il nostro isolamento collettivo ha visto confermata la sua necessità. Perché abbiamo bisogno dell’utopia? Perché dobbiamo viverla alla stregua, quasi, di una casa?

Io credo sempre più nel ruolo del teatro come presenza capace di curare le ferite e di essere, in qualche modo, promotore di relazioni, di bellezza. Però, parlare di cura, di bellezza, di relazioni, oggi come oggi è utopia, perché appunto siamo molto presi unicamente dal trovare sbocchi lavorativi. È utopico pensare a un festival che ti chiede tanto, in termini di risorse, di energie, e ti offre in cambio solo incontri. È utopico perché all’apparenza porta qualcosa che non è tangibile, non risolve il problema principale di questo momento, che è la sopravvivenza, che è dare risorse a un teatro che rischia di chiudere. Eppure, noi abbiamo deciso di fare Trasparenze comunque, di imbatterci ugualmente in questa esperienza che per noi è fondamentale. Viviamo un’enorme difficoltà, anche economica, ma abbiamo la necessità di continuare a vedere oltre e immaginare utopie con gli spettatori, con gli artisti, con gli studiosi, con voi critici. Abitandole, stando insieme, dedicando del tempo alle relazioni.

L’esterno dell’Ostello di Gombola. Foto Contini

Come siete arrivati a questo risultato? Quali ostacoli avete superato e quali opportunità avete coltivato?

La nostra vocazione è quella di un festival che si basa sull’accoglienza, sull’abbraccio: va proprio contro tutte le normative anti Covid-19. Il festival nel parchetto periferico di San Giovanni Bosco, in otto anni, ha creato a Modena grandi assembramenti utopici. Era impossibile immaginare quest’anno la stessa modalità: gli ingressi contingentati, il conta persone, sono proprio contro il nostro modo di essere. Quindi, abbiamo deciso di andarcene da lì e di salire a Gombola, dove abbiamo già attivo un progetto. È un luogo più isolato, ci si arriva da un solo accesso ed è più semplice gestire le presenze. Questo è il compito principale che abbiamo avuto: ripensare Trasparenze. A Modena, invece, faremo delle azioni mirate, precise. Ad esempio, lavoreremo con gli anziani della Casa Protetta. Creeremo un ponte per i parenti che ancora non possono accedere all’interno: faremo un concerto e gli ospiti della struttura canteranno insieme a noi, dai balconi. E tanto altro, sia nel carcere che con le persone del nostro parchetto: tutte cose capaci, appunto, di rispettare le norme.

Gombola, Modena: quale criterio generale avete seguito nel ricomporre il cartellone, rispettando il dialogo fra territori, difficoltà e aspettative differenti?

Con Ater, che ci aiuta e ci sostiene, esiste da anni un rapporto di confronto. Abbiamo fatto un’analisi attenta delle proposte, perché portare un festival come Trasparenze a Gombola, la frazione di un piccolo centro in Appennino, è un’operazione complicata. Perciò, abbiamo costruito un programma capace di andare incontro alle aspettative di un luogo come questo, non voglio dire commerciali, ma comunque che possano andare con il tempo verso quello che era per noi il livello raggiunto a Modena. Certo, noi vediamo il festival, al pari dei nostri spettacoli, come un pretesto. Abbiamo cura della programmazione, ma quello che davvero ci interessa sono le opportunità di scambio che si scatenano tutto intorno. Noi siamo in ascolto di questo territorio, cercando di capire come dosare la nostra presenza, quali “condimenti” usare. È un esperimento quello di quest’anno, stiamo prendendo le misure, è proprio il caso di dirlo.

Il titolo, adesso, è Agire come oro tra le crepe. Qual è l’oro, quali le crepe?

La crepa principale è la distanza che ci viene imposta e che ci porteremo dietro a lungo. L’oro sono i momenti di condivisione di bellezza, tentando di farli brillare, nonostante le crepe, di farli splendere ancora di più. Dobbiamo svolgere quello che è il nostro compito: essere presenti e, ripeto, curare, una fase così complicata.

L’apertura mi pare una rivendicazione di continuità: il 31 luglio viene proiettato a Gombola il film di Raffaele Manco Moby Dick o il Teatro dei Venti sul vostro Moby Dick, lo spettacolo monstre che ha debuttato nella sua versione definitiva nella passata edizione di Trasparenze, la VII, Muovere Utopie. Accompagnare quell’impresa fin lassù, dopo la neve dello scorso anno e il Coronavirus, cosa rappresenta per voi?

Quel film per me è un vero inno alla resilienza. Sono felice di iniziare così e ha senso iniziare in questo modo, in un luogo dove ci siamo isolati, rifugiati per ritrovare una cura, soprattutto nei nostri riguardi. Partire con Moby Dick o il Teatro dei Venti è un segno importante, vuol dire insistere, continuare a lottare per nuove possibilità, per nuove visioni.

 

C’è un altro film in programma, stavolta a Modena, il 6 agosto. L’Odissea itinerante con gli attori del Carcere di Modena e di Castelfranco Emilia, che avrebbe dovuto debuttare quest’anno e debutterà, invece, nel 2021, è diventata l’Odissea Web, un progetto video realizzato nel corso delle prove da remoto. Cosa ci vuole per trasformare i limiti in stimoli creativi?

Bisogna lavorare sodo, noi non facciamo altro che raccogliere dal lavoro fatto in passato. Abbiamo collaborato dal primo momento con la direzione del Carcere di Modena, di Castelfranco Emilia, con gli agenti, con gli educatori, per superare insieme questa fase. In seguito agli scontri drammatici a Modena (a marzo una violenta protesta per le restrizioni ai colloqui dovute all’emergenza Coronavirus ha portato alla morte di 9 detenuti, ndr) la situazione si è aggravata e, al tempo stesso, si è rafforzata in tutti l’idea che la nostra presenza è fondamentale. Quindi, ci vuole lavoro e dedizione, perché poi ti tornano indietro: se hai lavorato bene, le relazioni costruite si compattano e tutti si va nella stessa direzione, pur partendo da ruoli e presupposti molto diversi. Così, noi abbiamo ripreso quasi subito, il 28 aprile, il nostro impegno in carcere e abbiamo creato questo film.

Oltre che attraverso gli spettacoli, a Gombola invitate il pubblico a entrare a far parte della comunità del Festival diventando Spettatori Residenti. Chi è lo Spettatore Residente? Qual è il suo profilo ideale?

È uno spettatore che vuole fare un’esperienza immersiva, che assiste agli spettacoli, però si prende anche del tempo per visitare il luogo, che è bellissimo, per parlare con gli abitanti del territorio, e con gli artisti, come sempre a Trasparenze. Prendersi del tempo significa prendersi cura. Ecco, lo Spettatore Residente deve porsi davanti a questo esercizio: entrare in relazione con Gombola e con quello che stiamo cercando di creare, con la nostra proposta. E non si può fare venendo a vedere uno spettacolo e scappando via: bisogna stare qui qualche giorno.

Uomini e dèi. Foto Chiara Ferrin

È una drammaturgia, come i Teatringestazione chiamano il loro Altofest?

Esatto, è proprio così, abbiamo costruito una drammaturgia che è un’impalcatura di relazioni. Per goderla, per comprenderla fino in fondo, ci vuole tempo. Abbiamo inventato anche il “kit dello spettatore”, uno zaino con dentro cose come una piccola torcia, per i percorsi da fare di sera, al buio, oppure un cuscino, da usare per gli spettacoli sul prato. Nel kit c’è pure un promemoria che ricorda di prendersi il tempo necessario per entrare in relazione con l’ambiente, il paesaggio e la nostra programmazione.

Questa edizione è, per certi versi, una rifondazione di Trasparenze?

Sì, io credo che non ci sarà più Trasparenze di prima. Chiaramente molto dipenderà da quello che saremo costretti a fare e come saremo costretti a vivere. Le cose più importanti che abbiamo fatto negli ultimi 3 anni, Moby Dick e Trasparenze, sono entrambe in conflitto totale con il Covid-19. Non si possono adeguare, devi fare altro. Non posso fare Moby Dick rispettando le distanze tra gli attori: sono un equipaggio, si scambiano sudore l’uno con l’altro. Lo stesso vale per il pubblico: non è uno spettacolo per poche persone, davanti alla scena devi avere il “mare”, sennò non funziona. Trasparenze, dal canto suo, come detto si basa sulla relazione, sullo stare appiccicati, davvero. Per me è come siamo noi. Allora, anziché svilire, mortificare questi progetti, li usiamo per trasformarci e andare altrove. La cosa fondamentale è rispettare la nostra vocazione: essere coerenti.

Secondo molti, addirittura al Piccolo Teatro di Milano. Il tuo nome è tra i primi nel referendum su Ateatro per il nuovo direttore, dopo il dimissionario Sergio Escobar. Come hai preso la notizia?

Mi ha fatto piacere, vuol dire che stiamo lavorando bene. Noi, comunque, siamo distanti da un teatro istituzionale, impiegatizio, che viene vissuto come un impiego. Peraltro, io non gioco da solo la mia partita con il teatro, io condivido un progetto con i miei compagni da quando abbiamo dato il nome al Teatro dei Venti. Io faccio la direzione artistica fino a che i miei compagni mi riconoscono come leader di questo percorso e, come regista, io chiedo ai miei attori tutti i giorni che arrivano in sala di riconoscermi come tale. Non do nulla per scontato. Siccome io scelgo ancora loro e loro me, le altre cose non mi interessano. Noi siamo il teatro militante. Però, nel teatro impiegatizio ci può essere una militanza: andrebbe riscoperta.