GIAMBATTISTA MARCHETTO | «Andate. Siate. Liberati – nello svelato mistero del nascere a qualcosa che non sappiamo, al quale diamo il tetro nome di morte e forse invece come seme ci schiude a più vaste vite, a più vaste vedute. Forse».
Il requiem di Mariangela Gualtieri dedicato al dramma che il Covid ha scavato nella carne e nella memoria degli italiani ha inaugurato il programma della quarta Biennale Teatro firmata da Antonio Latella. Una dedica alla parola che il direttore ha voluto in apertura e che non ha potuto ignorare i morti.
“Sarà un Requiem ad aprire questo mio dire – preannunciava la poetessa – nel tentativo di riportare quei corpi dentro un pensiero di luce, toglierli dalla lugubre desolazione e riconsegnarli alla più misteriosa delle avventure. E anche nel tentativo di essere vicini ai vivi che hanno patito il brutale definitivo congedo. Facendo questo, so che tutti i compagni d’arte di questa Biennale Teatro sono con me, solidali in questo atto di pietà e compassione”. E con la consueta intensità ha attraversato intimità condivise e provocazioni verbali sul crinale dell’emozione.

Dopo l’apertura, entrambi i premiati con il Leone d’oro e d’argento hanno presentato alla Biennale un’opera in prima assoluta, entrambe ispirate dal tema della censura scelto per il Festival. Alessio Maria Romano ha presentato Bye Bye e Franco Visioli si è cimentato per la prima volta alla regia con Ultima latet. E la costante nelle prime opere viste alla Biennale Teatro sembra essere una debolezza di fondo dell’opera.

Romano presenta Bye Bye come una creazione collettiva di cui ha messo insieme i pezzi con la drammaturga Linda Dalisi. “Si tratta di frammenti che fotografano differenti possibilità, a cui viene però negata qualsiasi completezza, come accade a quei libri, film, spettacoli, quadri, idee, a cui la censura ha sottratto il diritto a essere compiuti”, spiega il regista. L’impressione è invece di una sovrabbondanza che avrebbe potuto esser “asciugata”, a partire dalle coreografie che costituiscono il tessuto essenziale dell’opera e che si rivelano ripetitive nel costrutto, che non approfondisce alcuna linea tematica. E pur se l’incompletezza rappresenta un dato di fatto cercato e voluto, il risultato è una scarsa consistenza del processo di relazione con lo spettatore, che si trova passivamente oggetto di eccessi fisici e vocali scomposti.
Più intrigante, nonostante alcune sbavature, la partitura vocale e sonora che un performer, con apprezzabile talento, propone tra canto e parola, offrendo alla drammaturgia disarticolata un fascino complice e curioso.

Nonostante la discreta qualità della performance degli interpreti, sembra dunque dominare uno sfilacciamento del senso di un movimento che diventa autoreferenziale. Il gioco canoro si presenta in una sorta di luogo isolato preso nel cerchio di luce, in un affastellamento di pensieri che potrebbero voler essere provocazione, ma che in realtà diventano manieristici. Si fatica dunque a comprendere quale processo di collegamento tra drammaturgia, coreografia ed esperienza scenica abbia condotto alla costruzione di questo lavoro, più povero che scarno.

La prova registica del Leone d’oro Franco Visioli in Ultima latet conferma la propensione all’uso della partitura sonora come componente drammaturgica. Nello spettacolo  la componente obiettivamente più interessante risulta infatti quella musicale, mentre il dialogo tra le due protagoniste – pur non privo di spunti interessanti – sembra rimandare alla lezione del teatro dell’assurdo, purtroppo senza avere la forza di testi che hanno segnato un passaggio cruciale per il teatro contemporaneo.

Le due protagoniste (Alice Torriani ed Elisabetta Valgoi) sono “le pupille della vita, coloro che diventano nel medesimo tempo testimoni e occhi dello scorrere lento e inesorabile della malattia che le rende complici e avversarie”, spiega il regista. La dialettica scorre tra esagerazioni e disconnessioni, senza trovare una chiave solida capace di spiazzare lo spettatore. Come in una pièce del paradosso, l’opera vorrebbe desituare il confronto tra due umanità deboli: “Il luogo d’azione è un luogo di cura, ma anche un luogo sconosciuto e per questo temuto, un luogo dove la censura viene esercitata al contrario – chiarisce Visioli – Chi è censurato qui è il sano, colui che abita la pianura, fonte di malessere e di miasmi originari”. Il percorso drammaturgico fatica però a scavare dentro l’intimità forte e turbata delle protagoniste, limitandosi a scoprirne alcuni (misteriosi) angoli interiori destinati allo scacco. E se la vita si affaccia sulla scena, lo fa con grande debolezza e assai poco nitore.

Meglio compiuto il percorso di George II, un testo di Stefano Fortin portato in scena da Alessandro Businaro.
Il lavoro non vuole essere il racconto epico di alcuni eventi della parabola pubblica di G.W. Bush – dal periodo del governatorato in Texas quando, nel 1994, dovette affrontare lo spinoso caso della condanna a morte di Carla Faye Tucker fino al varo della cosiddetta dottrina della guerra preventiva nel 2002 – ma piuttosto cerca di raccontare la storia e il mondo di un uomo che, come un principe shakespeariano, si trova a ereditare dal padre lo scettro del più importante paese dell’Occidente e a diventarne il condottiero in uno dei momenti più bui della sua storia. Data questa premessa, la messinscena rimanda a una sorta di Shakespeare a blocchi, in cui ogni personaggio diventa epico – nella recitazione e nell’isolamento dagli altri – e allo stesso tempo astratto.
Gli interpreti tengono il filo di un discorso fatto di sottintesi e di rimandi  (e merita una menzione la presenza scenica di Michelangelo Dalisi) eppure sembra mancare la forza di un discorso davvero forte, feroce.

La scelta autorale è decisamente orientata a una lettura politica. “C’è un’accezione di “politico” che travalica la denuncia dei j’accuse, la difesa dei diritti civili, la speranza in uno Stato migliore o la paura dell’avvento di una sua versione deteriore – chiarisce Businaro – Esiste un significato antropologico del termine, nel senso stretto che tale aggettivo possiede: un “discorso sull’uomo”. Politico è perciò quanto riguarda la polis, la polis non in quanto Stato, non in quanto Nazione, non in quanto Società, ma semplicemente intesa come comunità di uomini. L’indagine sull’uomo George W. Bush è – e non può non essere – profondamente politica”. Ecco, questo percorso rimane un poco in superficie e sotto la bella scorza della messinscena rimane un senso di debolezza del discorso.
Tutto sembra dunque costruito con mestiere, ma non si arriva al gusto della polpa amara di un discorso capace di scavare nella realtà e provocare un ripensamento – sociale, politico, individuale che sia.

@gbmarchetto


VOCE CHE APRE (RITO SONORO)

di e con Mariangela Gualtieri
con la guida di Cesare Ronconi
Teatro Goldoni

BYE BYE

direzione e coreografia Alessio Maria Romano
creazione e performance Ornella Balestra, Filippo Porro, Andrea Rizzo, Valerie Tameu, Isacco Venturini
drammaturgia Linda Dalisi e AMR
Teatro alle Tese

ULTIMA LATET

scritto e diretto da Franco Visioli
con la consulenza drammaturgica di Letizia Russo
interpreti Alice Torriani e Elisabetta Valgoi
scenografia Annelisa Zaccheria
Tese dei Soppalchi

GEORGE II

di Stefano Fortin
regia Alessandro Businaro
scene e costumi Gregorio Zurla
con Michelangelo Dalisi, Lorenzo Frediani, Mariangela Granelli, Laurence Mazzoni, Ivan Olivieri, Andrea Sorrentino
Teatro alle Tese