ILENA AMBROSIO | Il teatro e il suo essere contemporaneo, aderente al sentire dell’umanità alla quale si rivolge. La sua urgenza di farsi narrazione di temi attuali e scottanti; ma anche la necessità di un linguaggio, di una sintassi della scena specifici che lo rendano efficace.
Ha dato da pensare la seconda serata trascorsa a Primavera dei Teatri che ha visto susseguirsi due dei “pezzi forti” del cartellone di quest’anno: Vivere è un’altra cosa della Compagnia Oyes (debutto nazionale) e Spezzato è il cuore della bellezza della Piccola Compagnia Dammacco.
Lockdown VS Amore. Nessun riferimento a una effettiva contesa tra le compagnie, ovviamente, ma piuttosto a una serie di considerazioni che la visione ravvicinata dei loro lavori può mettere in moto. 

«Vivere è un’altra cosa è un racconto a cinque voci di questo tempo sospeso. Una condivisione delicata e autoironica di momenti quotidiani che hanno messo in discussione alcuni aspetti fondanti delle nostre identità».
Così sul foglio di sala – e riecco il caro vecchio tempo sospeso – ed effettivamente così sulla scena. I cinque interpreti – Martina De Santis, Francesca Gemma, Francesco Meola, Dario Merlini, Umberto Terruso – diretti da Stefano Cordelia danno voce, a turno, a una drammaturgia collettiva che estrae, come da un diario, pagine di vita quotidiana in tempi di lockdown. Il padre alle prese con la figlia, il cane, la moglie e i video dai balconi; il giovane che tenta di elaborare le dinamiche con una famiglia che lo taccia come nullafacente e perditempo; la moglie con un marito perfetto, sì, ma solo a piccole dosi; l’asociale incallito che si scopre improvvisamente desideroso di condividere la vita con qualcuno;  la ragazza del “mi prenderò questo tempo per cambiare la mia vita e riconnettermi con me stessa”. Cinque comuni individui che ci stanno di fronte, in abiti da casa – pigiama, tuta – a raccontarci la loro nuova routine da reclusi e, insieme, ricordi del passato, riflessioni, rivelazioni che l’inedita condizione fa maturare.
Al centro della scena il plastico della facciata di un palazzo con – ovvio – i suoi balconi, sul quale si accumulano “di giorno in giorno” tazzine, piatti, bicchieri, così come sulle spalle dei personaggi si accumulano la stanchezza, l’ansia, la scoperta di avere accanto una persona insopportabile, il dolore per una perdita, la consapevolezza che lo yoga non renderà persone migliori. 

Foto Angelo Maggio

Gli interpreti sono credibili, centrati, anche grazie alle componenti autobiografiche che emergono con evidenza dai racconti; in primis, sono tutti attori che fanno i conti con la precarietà del proprio lavoro, altro tema caldo del momento. Così la drammaturgia fila liscia mescolando sapientemente ilarità a tonalità più drammatiche e commoventi.
È una narrazione sincera, senza dubbio, soprattutto è un racconto che non può non innescare un meccanismo di identificazione: tutti noi, nei mesi trascorsi in casa, abbiamo pensato e fatto almeno una di quelle cose.
Ma il lavoro non pare compiere quel passo in avanti che fa di un racconto del reale un impianto drammaturgico; la condivisione confidenziale, persino familiare, di un trauma collettivo non diventa “altro”, quell’altro indefinito che è arte, insomma.

Potrebbe ritornare alla mente la criticata posizione espressa da Lucia Calamaro su Doppiozero il 20 marzo 2020. In un breve pamphlet, la drammaturga sosteneva l’assoluta impossibilità che, a stretto giro, si potesse scrivere bene o fare buon teatro intorno al nucleo tematico della pandemia. Arrivava con la sua pungente ironia ad auspicare la “defenestrazione” di coloro che avessero osato aiutare o premiare creazioni partorite nell’imminenza della crisi. Ma quella, per sua stessa ammissione, radicale posizione poggiava i piedi su una questione rilevante nel rapporto tra arte e racconto del reale, ossia la necessità che quel reale debba essere masticato e metabolizzato prima di poter diventare qualcosa di più che semplice cronaca; la necessità di una catartica distanza.
Ecco, sembra mancare proprio questo all’ultimo lavoro degli Oyes, uno scarto, fosse anche puramente estetico, che elevi un’esperienza collettiva a oggetto d’arte, distanziandola dalle narrazioni che di essa sono state quotidianamente offerte dai mass/social media. Quello scarto, insomma, che oltre a “Questo l’ho vissuto anche io!” faccia pensare “Io non avrei saputo raccontare così quello che ho vissuto!”. 

Un rischio, questo, che incombe minaccioso su un tema “pop” come quello dell’amore; peggio, del dolore per un’amore finito. Scansare la sequenza sole-cuore-amore e i toni melodrammatici non è impresa facile.
Eppure sembra già l’anastrofe del titolo scelto da Mariano Dammacco per il suo testo a voler invertire la tendenza: Spezzato è il cuore della bellezza.

“Non ti amo più”: le prime parole pronunciate sono anche l’input iniziale dal quale è nato il testo: uno spunto – ci ha raccontato Serena Balivo – lanciato durante i laboratori del Progetto Finestre svoltisi nel 2019 con il quale la Compagnia ha voluto aprire il proprio universo teatrale ad altri artisti.
La storia è quella classica: lui, dopo una relazione decennale, lascia lei per l’altra. Ma per raccontare la trama più gettonata che ci sia la scrittura di Dammacco sembra calzare le punte e procedere in equilibrio sul terreno di emotività complesse come possono essere quelle di individui sconvolti da un sentimento tanto complesso.
Sta in equilibrio lo stile, in una una prosa sostenuta che si colora di veemenza:

«… io per dieci anni ti ho dato tutta la mia vita
tutti i fottuti minuti di tutte le cazzo di ore di ogni merdosissimo giorno
per dieci anni ti ho dato tutto…»

ma anche di malinconica tenerezza:

«Poi prendo le mie labbra che ti hanno dato un miliardo e seicento milioni di baci
e le infilo nel sacco della spazzatura,
prendo i miei occhi che tanto ti avevano innamorato, e li getto
prendo la fronte e le guance e tutta la mia faccia e i miei capelli neri e getto tutto nel sacco della spazzatura insieme alle mie mani, quelle mani che tu amavi e che ti amano ancora».

E sta quindi in equilibrio il tono del racconto che ancheggia tra l’acuta ironia e il feroce sarcasmo di un animo ferito e rabbioso, il parlare vezzoso di una novella innamorata, il lirismo struggente di un cuore spezzato. 

A questa scrittura – di sensibilità femminile, come la definisce Serena Balivo – aderisce lo stare in scena dell’interprete che si fa, anche lei, equilibrista tra le due donne protagoniste. In uno spazio idealmente diviso in due zone, ciascuna con una seduta posta su un palchetto, la Balivo passa dall’una all’altra trasformandosi ora nella donna Amore Vecchio (come da copione) ora in quella Amore Nuovo.
Dietro il separè posto al centro scena cambia abiti e insieme – con la consueta destrezza nello sperimentare il ventaglio di possibilità che lo stare in scena propone – timbro vocale, dizione, espressività, movenze. Lei: vestita di scuro, voce gutturale, un po’ mascolina, dura e sferzante anche nella debolezza. L’altra: bionda, in abiti rosa, voce e gestualità flessuose, accomodante ma con punte di malizia. A ogni “round” il racconto di pezzi di questa storia, ma attraverso un universo emotivo differente, uno sentire specifico, un sguardo diverso sull’uomo amato/odiato.

Al centro, ovviamente, lui. Un lui trasfigurato in presenze mascherate (lo stesso Dammacco e la new entry della Compagnia, Erica Galante) che subentrano tra un cambio e l’altro su musiche messicane: intermezzi quasi fiabeschi nello scorrere del racconto. Allegorie, parrebbe, che dicono con una gestualità danzata, a metà tra il mimo e la Commedia dell’Arte, il sentire dell’uomo, il suo essere sospeso tra due amori.

Foto Angelo Maggio

Le due donne, lui, la storia finita, quella appena iniziata: tutti le componenti si incastrano con fluidità offendo un’immagine variegata, divertente e commovente, di ciò che accade quando un amore si spezza.

«Dopo la Trilogia della fine del mondo – racconta ancora Serena Balivo – abbiamo voluto andare a fondo nella nostra indagine, chiedendoci quale fosse la matrice primaria di quel conflitto sociale sul quale abbiamo sempre posto l’attenzione; in qualche modo ci siamo risposti che è l’individuo. Mariano mi ha detto: Dopo la fine del mondo c’è l’amore». Quello che poteva essere un banale triangolo amoroso diventa, quindi, un nuovo passo della ricerca artistica della Compagnia Dammacco, un approfondimento delle dinamiche che regolano i rapporti tra individui.
Ma, prescindendo da questa dichiarazione di intenti, Spezzato il cuore della bellezza sembra  una possibile risposta alle questioni con cui abbiamo aperto. La scrittura e insieme la resa scenica operano per una sublimazione del reale, per la creazione di uno spazio in cui tutto è riconoscibile e familiare ma, insieme, è altro, è di più. Un esempio di come il teatro possa (e debba) essere totalmente umano, accogliendo tutto ciò che all’umano pertiene, ma spostandolo, cambiandone il segno, facendone materia d’arte.
Facendoci pensare: L’ho vissuto anche io ma non avrei saputo dirlo così!.

 

VIVERE È UN’ALTRA COSA 

ideazione e regia Stefano Cordella
drammaturgia collettiva
con Martina De Santis, Francesca Gemma, Francesco Meola, Dario Merlini, Umberto Terruso
aiuto regia e collaborazione alla drammaturgia Noemi Radice
sound design Gianluca Agostini
organizzazione Valeria Brizzi e Carolina Pedrizzetti
produzione Oyes – La Corte Ospitale con il sostegno di Teatro LaCucina/Olinda Onlus

prima nazionale
durata 80′

 

SPEZZATO È IL CUORE DELLA BELLEZZA 

ideazione, drammaturgia e regia Mariano Dammacco
con Serena Balivo
e con Mariano Dammacco, Erica Galante
disegno luci Stella Monesi
produzione Piccola Compagnia Dammacco / Infinito srl con il sostegno di Mibact e di L’arboreto-Teatro Dimora | La Corte Ospitale ::: Centro di residenza Emilia-Romagna, Centro di residenza della Toscana (Armunia-CapoTrave/Kilowatt)
e con la coproduzione di Operaestate Festival Veneto

durata 75′

PRIMAVERA DEI TEATRI
Castrovillari, 10 ottobre 2020