GIORGIO FRANCHI | Se non vivete su un’isola al largo delle Svalbard, in un villaggio senza internet, rete telefonica e troppo lontano perfino per i tam tam, allora avrete sicuramente sentito parlare della canzone di Angela da Mondello.

Riassumo per i pochi fortunati che non sanno di chi stia parlando: all’inizio della fase due è andato in onda un servizio del programma Non è la D’Urso, realizzato su una spiaggia appunto di Mondello, da cui il soprannome agiografico della signora Angela. L’intervistata, a cui viene chiesto se non abbia paura a stare in uno stabilimento dove i bagnanti non mettono la mascherina, risponde con mano a cucchiara “Non ce n’è ‘coviddi’!” (sic). Il video, come prevedibile, spopola sul web, tra ricondivisioni, remix e parodie. Fino a qui, niente di nuovo: su internet il trash è quantitativamente secondo solo ai video dei gattini. La bomba esplode il 10 novembre, quando viene caricato su YouTube il video della canzone EDM Non c’è n’è (sic parte due), interpretata dalla stessa Angela sulla spiaggia dell’intervista. Al momento della stesura dell’articolo, le visualizzazioni si avvicinano ai 2 milioni.

Sorge spontanea la domanda: perché parlarne, allora? Per farle pubblicità? Per schierarsi per l’ennesima volta dalla parte dei “buoni” ostentando la nostra indignazione? Nessuna delle precedenti. La verità è che questo evento ci offre un assist per meditare sul potere dei meme.

Per chi ci legge da Rossøya, la più remota delle sopracitate Svalbard: i meme, sforzandosi di sintetizzare vent’anni di cultura web in una manciata di parole, sono contenuti umoristici di internet basati sulla ripetizione, quasi la versione 3.0 dei tormentoni del cabaret. La grande differenza, come sottolineato dal primo storico dei meme italiano Alessandro Lolli, sta nel fatto che i meme sono di pubblico dominio. Certo, non c’è una legge che mi vieti di fare la mia imitazione di “Chi è Tatiana” o “Sono un automobilista” al bar, ma la cosa muore lì. Su internet resta, si presta a variazioni, reinterpretazioni, fino a generare vocaboli di una lingua segreta, un cant con una grammatica complicatissima. Il parallelismo immediato è quello dell’arte figurativa: se tutti possono apprezzare un Botticelli a prima vista, un’opera di Cattelan acquisisce significato solo conoscendo il percorso che l’arte ha fatto finora.

Sappiamo che, se un genere si evolve e conseguentemente si ramifica, allo sbocco più concettuale e di difficile lettura nasce sempre in opposizione un riadattamento popolare, tarato sui gusti delle masse: alla svolta più underground del rap hardcore corrisponde un sottogenere dai toni melodici sdoganato persino a Sanremo.

A sinistra, un meme semplificato a un layer (livello). A destra, un meme a dodici layer.

È proprio su questo livello semplificato di meme che si muovono gli esperti di comunicazione. La pubblicità tradizionale (quella da Mulino Bianco, per intenderci) mostra tutti i suoi limiti nel simulare sincerità rappresentando “famiglie di tutti i giorni”, sempre felici e composte da gente più attraente della media. Il creativo propone quindi: “Ma perché, per la nuova brioche dietetica, non scriviamo semplicemente Non ce n’è zuccheri aggiunti?”. Specifico che questo è solo un esempio e che, finora, nessuno ha usato il tormentone-meme della signora Angela a fini promozionali. Tuttavia, centinaia di altri meme sono già stati impiegati nella pubblicità, persino da istituzioni come Treccani. Il succo è: un contenuto semplice e apparentemente innocuo può essere utilizzato per riabilitare un prodotto commerciale.

E anche politico, perché no? Un bellissimo articolo di Francesco Russo per Agi ne parla molto chiaramente. Parlando dei meme a sfondo politico, soprattutto di destra, afferma: «Anche chi li inoltra per scherzo si fa canale di trasmissione di un messaggio politico che non ha nulla di estemporaneo». Luca Morisi, il social media manager di Matteo Salvini, ha capito perfettamente il concetto. I vari meme made in Italy su Salvini, nati dalla community del web come parodia degli svarioni del leader del carroccio, spesso nascono come semplice parodia, ma finiscono per riabilitare l’oggetto dello scherno. L’equivalente di Antonio Razzi, che deve ringraziare la divertente imitazione di Crozza se l’indignazione degli italiani per i numerosi scandali in cui era coinvolto sembrò sparire da un giorno all’altro.

Supponiamo che sia un negazionista del virus e che voglia esternare le mie posizioni sui social. Se scrivo su Facebook “Il Covid è una messinscena del governo per chiuderci in casa” è questione di secondi prima che qualcuno mi mandi a quel paese, o che veda comparire sul mio profilo le foto dei camion di Bergamo e degli intubati in terapia intensiva. Se carico un meme, magari non immediatamente riconoscibile, su Angela da Mondello esprimo il mio pensiero sull’emergenza sanitaria, ma finché non si capisce se sono serio o scherzo nessuno può criticarmi. E intanto, il meme resta lì, e viene visto sempre di più. Già ad agosto una ragazza in vacanza in Croazia aveva risposto con il tormentone “non ce n’è ‘coviddi’” a un’intervista del TG1: la perplessità dell’inviata Felicita Pistilli è stata bersaglio nei commenti di chi ha riconosciuto il meme e non ci ha visto altro che ironia, non percepita dalla non più ventenne giornalista.

Abbiamo già parlato del greenwashing, ovvero del tentativo delle aziende di riabilitarsi mostrandosi attente all’ambiente senza effettivamente ridurre la propria impronta di CO2. Questa tendenza potrebbe chiamarsi sillywashing, a indicare il tentativo di riproporre un’ideologia controversa con una veste scherzosa e apparentemente innocua. L’unico modo per salvarsi è esercitare il pensiero critico, cercare di vedere l’amo dietro l’esca e diffidare: non tanto dell’umorismo nero, che ha il grande pregio di palesarsi sempre per quello che è, ma di quello troppo chiaro, troppo candido. Troppo pulito.